[33705] Iª-IIae q. 5 a. 4 co. Respondeo dicendum quod, si loquamur de beatitudine imperfecta, qualis in hac vita potest haberi, sic potest amitti. Et hoc patet in felicitate contemplativa, quae amittitur vel per oblivionem, puta cum corrumpitur scientia ex aliqua aegritudine; vel etiam per aliquas occupationes, quibus totaliter abstrahitur aliquis a contemplatione. Patet etiam idem in felicitate activa, voluntas enim hominis transmutari potest, ut in vitium degeneret a virtute, in cuius actu principaliter consistit felicitas. Si autem virtus remaneat integra, exteriores transmutationes possunt quidem beatitudinem talem perturbare, inquantum impediunt multas operationes virtutum, non tamen possunt eam totaliter auferre, quia adhuc remanet operatio virtutis, dum ipsas adversitates homo laudabiliter sustinet. Et quia beatitudo huius vitae amitti potest, quod videtur esse contra rationem beatitudinis; ideo philosophus dicit, in I Ethic., aliquos esse in hac vita beatos, non simpliciter, sed sicut homines quorum natura mutationi subiecta est. Si vero loquamur de beatitudine perfecta quae expectatur post hanc vitam, sciendum est quod Origenes posuit, quorundam Platonicorum errorem sequens, quod post ultimam beatitudinem homo potest fieri miser. Sed hoc manifeste apparet esse falsum dupliciter. Primo quidem, ex ipsa communi ratione beatitudinis. Cum enim ipsa beatitudo sit perfectum bonum et sufficiens, oportet quod desiderium hominis quietet, et omne malum excludat. Naturaliter autem homo desiderat retinere bonum quod habet, et quod eius retinendi securitatem obtineat, alioquin necesse est quod timore amittendi, vel dolore de certitudine amissionis, affligatur. Requiritur igitur ad veram beatitudinem quod homo certam habeat opinionem bonum quod habet, nunquam se amissurum. Quae quidem opinio si vera sit, consequens est quod beatitudinem nunquam amittet. Si autem falsa sit, hoc ipsum est quoddam malum, falsam opinionem habere, nam falsum est malum intellectus, sicut verum est bonum ipsius, ut dicitur in VI Ethic. Non igitur iam vere erit beatus, si aliquod malum ei inest. Secundo idem apparet, si consideretur ratio beatitudinis in speciali. Ostensum est enim supra quod perfecta beatitudo hominis in visione divinae essentiae consistit. Est autem impossibile quod aliquis videns divinam essentiam, velit eam non videre. Quia omne bonum habitum quo quis carere vult, aut est insufficiens, et quaeritur aliquid sufficientius loco eius, aut habet aliquod incommodum annexum, propter quod in fastidium venit. Visio autem divinae essentiae replet animam omnibus bonis, cum coniungat fonti totius bonitatis, unde dicitur in Psalmo XVI, satiabor cum apparuerit gloria tua; et Sap. VII, dicitur, venerunt mihi omnia bona pariter cum illa, scilicet cum contemplatione sapientiae. Similiter etiam non habet aliquod incommodum adiunctum, quia de contemplatione sapientiae dicitur, Sap. VIII, non habet amaritudinem conversatio illius, nec taedium convictus eius. Sic ergo patet quod propria voluntate beatus non potest beatitudinem deserere. Similiter etiam non potest eam perdere, Deo subtrahente. Quia, cum subtractio beatitudinis sit quaedam poena, non potest talis subtractio a Deo, iusto iudice, provenire, nisi pro aliqua culpa, in quam cadere non potest qui Dei essentiam videt, cum ad hanc visionem ex necessitate sequatur rectitudo voluntatis, ut supra ostensum est. Similiter etiam nec aliquod aliud agens potest eam subtrahere. Quia mens Deo coniuncta super omnia alia elevatur; et sic ab huiusmodi coniunctione nullum aliud agens potest ipsam excludere. Unde inconveniens videtur quod per quasdam alternationes temporum transeat homo de beatitudine ad miseriam, et e converso, quia huiusmodi temporales alternationes esse non possunt, nisi circa ea quae subiacent tempori et motui.
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[33705] Iª-IIae q. 5 a. 4 co.
RISPONDO: Se parliamo della beatitudine imperfetta, raggiungibile in questa vita, allora diciamo che è possibile perderla. E ciò è evidente per la felicità della vita contemplativa, che si perde con la dimenticanza; quando, p. es., viene meno la scienza in seguito a una malattia; oppure a causa di certe occupazioni che distraggono completamente dalla contemplazione. È pure evidente per la felicità della vita attiva: poiché la volontà dell'uomo può cambiare, passando dalla virtù, i cui atti principalmente costituiscono la felicità, al vizio. E anche se la virtù rimane integra, le vicende esterne possono turbare questa beatitudine, con l'impedire non poche azioni virtuose: ma non possono allora totalmente distruggerla, perché rimane ancora l'esercizio della virtù, quando un uomo sopporta con onore le avversità. - E proprio perché la felicità di questa vita è precaria, e ciò contro la nozione stessa di beatitudine, il Filosofo afferma che alcuni sono beati in questa vita, non già in senso assoluto, ma "come uomini", la cui natura è soggetta al mutamento. Se invece parliamo della beatitudine perfetta promessa dopo la vita presente, va ricordato che Origene, seguendo l'errore di alcuni platonici, ritenne che l'uomo può ricadere nella miseria dopo l'ultima beatitudine.
Ma si dimostra con evidenza che ciò è falso per due ragioni. Primo, partendo dalla stessa nozione generica di felicità. Infatti, essendo la felicità "un bene perfetto ed esauriente", è necessario che sazi il desiderio, ed escluda ogni male. Ora, per natura l'uomo desidera di conservare il bene che possiede, e di ottenere la sicurezza di non perderlo: altrimenti il timore, o la certezza di perderlo gli procurerà necessariamente una pena. Perciò per la vera beatitudine si richiede che l'uomo abbia la convinzione certa di non dover mai perdere il bene che possiede. E se questa convinzione è vera, è chiaro che mai perderà la beatitudine. Se invece è falsa, già è un male, avere codesta convinzione: infatti il falso è il male dell'intelletto, come il vero ne è il bene, al dire di Aristotele. Dunque non sarà l'uomo perfettamente beato, se in lui si trova un male qualsiasi.
Secondo, la medesima conclusione nasce dall'analisi del concetto specifico della beatitudine. Sopra infatti abbiamo spiegato che la perfetta beatitudine dell'uomo consiste nella visione dell'essenza di Dio. Ora, è impossibile che uno il quale vede l'essenza divina voglia non più vederla. Poiché il bene posseduto che uno vuol perdere, o è insufficiente, e se ne cerca uno al posto suo che sia più completo; oppure è accompagnato da qualche inconveniente che lo rende fastidioso. Ma la visione dell'essenza divina riempie l'anima di ogni bene, unendola alla fonte di ogni bontà; poiché sta scritto: "Mi sazierò della tua gloria", e altrove: "Mi vennero poi con essa tutti i beni", cioè con la contemplazione della (divina) sapienza. E neppure è accompagnata da inconvenienti; poiché sta scritto a proposito della contemplazione della sapienza (increata): "Non ha amarezza la sua conversazione, né tedio il convivere con lei". Da ciò è evidente che un beato non può di volontà propria abbandonare la beatitudine. - Così non può perderla per sottrazione da parte di Dio. Essendo infatti tale sottrazione una pena, è impossibile che essa provenga da Dio, giusto giudice, senza una colpa; nella quale colpa non può cadere chi vede l'essenza di Dio, poiché da questa visione deriva necessariamente la rettitudine della volontà, come abbiamo già spiegato. - E neppure la può rapire un'altra causa qualsiasi. Poiché la mente che è unita a Dio viene elevata al di sopra di tutte le altre cose; e quindi nessun'altra causa la può escludere da tale unione. Perciò è insostenibile che attraverso le varie vicissitudini del tempo l'uomo possa passare dalla beatitudine alla miseria, e viceversa: poiché codeste vicissitudini possono alterare soltanto le cose soggette al tempo e al moto.
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