[35064] Iª-IIae q. 35 a. 5 co. Respondeo dicendum quod delectatio contemplationis potest intelligi dupliciter. Uno modo, ita quod contemplatio sit delectationis causa, et non obiectum. Et tunc delectatio non est de ipsa contemplatione, sed de re contemplata. Contingit autem contemplari aliquid nocivum et contristans, sicut et aliquid conveniens et delectans. Unde si sic delectatio contemplationis accipiatur, nihil prohibet delectationi contemplationis esse tristitiam contrariam. Alio modo potest dici delectatio contemplationis, quia contemplatio est eius obiectum et causa, puta cum aliquis delectatur de hoc ipso quod contemplatur. Et sic, ut dicit Gregorius Nyssenus, ei delectationi quae est secundum contemplationem, non opponitur aliqua tristitia. Et hoc idem philosophus dicit, in I Topic. et in X Ethic. Sed hoc est intelligendum, per se loquendo. Cuius ratio est, quia tristitia per se contrariatur delectationi quae est de contrario obiecto, sicut delectationi quae est de calore, contrariatur tristitia quae est de frigore. Obiecto autem contemplationis nihil est contrarium, contrariorum enim rationes, secundum quod sunt apprehensae, non sunt contrariae, sed unum contrarium est ratio cognoscendi aliud. Unde delectationi quae est in contemplando, non potest, per se loquendo, esse aliqua tristitia contraria. Sed nec etiam habet tristitiam annexam, sicut corporales delectationes, quae sunt ut medicinae quaedam contra aliquas molestias, sicut aliquis delectatur in potu ex hoc quod anxiatur siti, quando autem iam tota sitis est repulsa, etiam cessat delectatio potus. Delectatio enim contemplationis non causatur ex hoc quod excluditur aliqua molestia, sed ex hoc quod est secundum seipsam delectabilis, non est enim generatio, sed operatio quaedam perfecta, ut dictum est. Per accidens autem admiscetur tristitia delectationi apprehensionis. Et hoc dupliciter, uno modo, ex parte organi; alio modo, ex impedimento apprehensionis. Ex parte quidem organi, admiscetur tristitia vel dolor apprehensioni, directe quidem in viribus apprehensivis sensitivae partis, quae habent organum corporale, vel ex sensibili, quod est contrarium debitae complexioni organi, sicut gustus rei amarae et olfactus rei foetidae; vel ex continuitate sensibilis convenientis, quod per assiduitatem facit superexcrescentiam naturalis habitus, ut supra dictum est, et sic redditur apprehensio sensibilis quae prius erat delectabilis, taediosa. Sed haec duo directe in contemplatione mentis locum non habent, quia mens non habet organum corporale. Unde dictum est in auctoritate inducta, quod non habet contemplatio mentis nec amaritudinem nec taedium. Sed quia mens humana utitur in contemplando viribus apprehensivis sensitivis, in quarum actibus accidit lassitudo; ideo indirecte admiscetur aliqua afflictio vel dolor contemplationi. Sed neutro modo tristitia contemplationi per accidens adiuncta, contrariatur delectationi eius. Nam tristitia quae est de impedimento contemplationis, non contrariatur delectationi contemplationis, sed magis habet affinitatem et convenientiam cum ipsa, ut ex supradictis patet. Tristitia vero vel afflictio quae est de lassitudine corporali, non ad idem genus refertur, unde est penitus disparata. Et sic manifestum est quod delectationi quae est de ipsa contemplatione, nulla tristitia contrariatur; nec adiungitur ei aliqua tristitia nisi per accidens.
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[35064] Iª-IIae q. 35 a. 5 co.
RISPONDO: Il piacere della contemplazione si può intendere in due modi. Primo, nel senso che la contemplazione ne è la causa, non però l'oggetto. E allora abbiamo il godimento non dell'atto stesso del contemplare, ma della cosa contemplata. Ora, siccome capita di contemplare, sia cose nocive e dolorose, sia cose buone e piacevoli; niente impedisce che al godimento del contemplare inteso in codesto senso possa corrispondere una contraria tristezza.
Secondo, si può parlare di godimento della contemplazione nel senso che il godimento deriva dalla contemplazione considerata come causa e oggetto del medesimo: quando uno, per es., gode dell'atto stesso del contemplare. E in questo caso, come dice S. Gregorio Nisseno [ovvero Nemesio], "nessuna tristezza si oppone al piacere della contemplazione". La stessa cosa è affermata più volte da Aristotele. Ma ciò vale parlando in senso assoluto. E lo dimostra il fatto che di suo un dolore contrasta col godimento del suo oggetto contrario: la sofferenza del freddo, p. es., è contraria al godimento del caldo. Invece niente è contrario alla contemplazione: infatti le ragioni stesse dei contrari, in quanto conosciute, non sono contrarie; che anzi un contrario è ragione per conoscere l'altro. Perciò il godimento che si ha nel contemplare non può avere, assolutamente parlando, nessuna tristezza contraria. - E neppure è in connessione con qualche tristezza, come i piaceri corporali, che sono altrettanti rimedi di contrari fastidi: uno, p. es., gode nel bere, perché angustiato dalla sete, e appena spenta la sete cessa il godimento del bere. Invece il godimento della contemplazione non viene dall'eliminazione di qualche fastidio, ma dall'essere per se stessa piacevole: infatti la contemplazione non è una generazione, bensì un'operazione perfetta, come abbiamo detto.
Tuttavia indirettamente si può frapporre la tristezza al godimento del conoscere. E questo in due modi: primo, per parte degli organi corporei; secondo, per gli ostacoli della cognizione. Per parte degli organi la tristezza, o dolore, si frappone direttamente alla conoscenza nelle facoltà conoscitive della parte sensitiva, che sono dotate di organi corporei: o perché l'oggetto è contrario alla debita disposizione dell'organo, come nel gusto di una cosa amara, e nell'olfatto di una cosa fetida; oppure per l'insistenza di un oggetto conveniente, che con la sua durata produce uno squilibrio nella complessione naturale, come sopra abbiamo notato, così da rendere fastidiosa quella conoscenza, che prima era piacevole. - Ma queste due cose non possono aver luogo nella contemplazione intellettiva; poiché l'intelletto non ha un organo corporeo. Perciò nel passo riferito [della Scrittura] si dice che la contemplazione intellettiva "non ha amarezza, né tedio". Siccome però, la mente umana nel contemplare si serve delle facoltà conoscitive sensibili, nell'atto delle quali può determinarsi la stanchezza, indirettamente può mescolarsi tristezza, o dolore alla contemplazione.
Ma la tristezza, che per accidens accompagna la contemplazione, non può essere contraria così al godimento di essa. Infatti la tristezza che nasce dalle difficoltà del contemplare non è contraria al godimento della contemplazione, ma è piuttosto affine e in armonia con essa, com'è evidente da quanto sopra abbiamo detto. La tristezza poi, o afflizione, che deriva dalla stanchezza del corpo, è di un genere diverso; perciò è del tutto disparata. È chiaro, quindi, che nessuna tristezza è contraria al diretto godimento della contemplazione; e che essa non è accompagnata da nessuna pena, se non per accidens.
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