Seconda parte > Il fine ultimo della vita umana, che è la beatitudine > L'oggetto della beatitudine o felicità umana > Se la beatitudine dell'uomo consista nel piacere
Prima pars secundae partis
Quaestio 2
Articulus 6
[33509] Iª-IIae q. 2 a. 6 arg. 1 Ad sextum sic proceditur. Videtur quod beatitudo hominis in voluptate consistat. Beatitudo enim, cum sit ultimus finis, non appetitur propter aliud, sed alia propter ipsam. Sed hoc maxime convenit delectationi, ridiculum est enim ab aliquo quaerere propter quid velit delectari, ut dicitur in X Ethic. Ergo beatitudo maxime in voluptate et delectatione consistit.
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Prima parte della seconda parte
Questione 2
Articolo 6
[33509] Iª-IIae q. 2 a. 6 arg. 1
SEMBRA che la beatitudine dell'uomo consista nel piacere. Infatti:
1. Essendo la beatitudine il fine ultimo, non viene desiderata per altre cose, ma piuttosto le altre cose sono desiderate per essa. Ora, questo si riscontra specialmente nel piacere: "è ridicolo infatti", scrive Aristotele, "chiedere a uno perché voglia godere". Dunque la beatitudine consiste specialmente nel piacere e nel godimento.
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[33510] Iª-IIae q. 2 a. 6 arg. 2 Praeterea, causa prima vehementius imprimit quam secunda, ut dicitur in libro de causis. Influentia autem finis attenditur secundum eius appetitum. Illud ergo videtur habere rationem finis ultimi, quod maxime movet appetitum. Hoc autem est voluptas, cuius signum est quod delectatio intantum absorbet hominis voluntatem et rationem, quod alia bona contemnere facit. Ergo videtur quod ultimus finis hominis, qui est beatitudo, maxime in voluptate consistat.
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[33510] Iª-IIae q. 2 a. 6 arg. 2
2. Si legge nel De Causis: "la causa prima ha un influsso più marcato della causa seconda". Ma l'influsso del fine si misura dall'appetito corrispettivo. Perciò la cosa che più muove l'appetito è quella che più presenta la natura di fine ultimo. Ora, questo è il piacere: e segno ne sia il fatto che il piacere assorbe talmente la volontà e la ragione dell'uomo, da fargli disprezzare ogni altro bene. Dunque l'ultimo fine dell'uomo, ossia la beatitudine, consiste specialmente nel piacere.
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[33511] Iª-IIae q. 2 a. 6 arg. 3 Praeterea, cum appetitus sit boni, illud quod omnia appetunt, videtur esse optimum. Sed delectationem omnia appetunt, et sapientes et insipientes, et etiam ratione carentia. Ergo delectatio est optimum. Consistit ergo in voluptate beatitudo, quae est summum bonum.
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[33511] Iª-IIae q. 2 a. 6 arg. 3
3. Essendo il bene oggetto dell'appetito, il bene più grande sarà quello che tutti appetiscono. Ora tutti desiderano il godimento, sia i sapienti che gli ignoranti, anzi perfino gli esseri privi di ragione. Dunque il piacere è il bene più grande. E quindi la beatitudine, che è il bene supremo, consiste nel piacere.
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[33512] Iª-IIae q. 2 a. 6 s. c. Sed contra est quod Boetius dicit, in III de Consol., tristes exitus esse voluptatum, quisquis reminisci libidinum suarum volet, intelliget. Quae si beatos efficere possent, nihil causae est quin pecudes quoque beatae esse dicantur.
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[33512] Iª-IIae q. 2 a. 6 s. c.
IN CONTRARIO: Boezio scrive: "Chiunque potrà capire le tristi conseguenze del piacere, purché voglia ricordarsi delle proprie dissolutezze. Se queste potessero rendere felici, non ci sarebbero ostacoli per proclamare beate le bestie".
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[33513] Iª-IIae q. 2 a. 6 co. Respondeo dicendum quod, quia delectationes corporales pluribus notae sunt, assumpserunt sibi nomen voluptatum, ut dicitur VII Ethic., cum tamen sint aliae delectationes potiores. In quibus tamen beatitudo principaliter non consistit. Quia in unaquaque re aliud est quod pertinet ad essentiam eius, aliud est proprium accidens ipsius, sicut in homine aliud est quod est animal rationale mortale, aliud quod est risibile. Est igitur considerandum quod omnis delectatio est quoddam proprium accidens quod consequitur beatitudinem, vel aliquam beatitudinis partem, ex hoc enim aliquis delectatur quod habet bonum aliquod sibi conveniens, vel in re, vel in spe, vel saltem in memoria. Bonum autem conveniens, si quidem sit perfectum, est ipsa hominis beatitudo si autem sit imperfectum est quaedam beatitudinis participatio, vel propinqua, vel remota, vel saltem apparens. Unde manifestum est quod nec ipsa delectatio quae consequitur bonum perfectum, est ipsa essentia beatitudinis; sed quoddam consequens ad ipsam sicut per se accidens. Voluptas autem corporalis non potest etiam modo praedicto sequi bonum perfectum. Nam sequitur bonum quod apprehendit sensus, qui est virtus animae corpore utens. Bonum autem quod pertinet ad corpus, quod apprehenditur secundum sensum, non potest esse perfectum hominis bonum. Cum enim anima rationalis excedat proportionem materiae corporalis, pars animae quae est ab organo corporeo absoluta, quandam habet infinitatem respectu ipsius corporis et partium animae corpori concretarum, sicut immaterialia sunt quodammodo infinita respectu materialium, eo quod forma per materiam quodammodo contrahitur et finitur, unde forma a materia absoluta est quodammodo infinita. Et ideo sensus, qui est vis corporalis, cognoscit singulare, quod est determinatum per materiam, intellectus vero, qui est vis a materia absoluta, cognoscit universale, quod est abstractum a materia, et continet sub se infinita singularia. Unde patet quod bonum conveniens corpori, quod per apprehensionem sensus delectationem corporalem causat, non est perfectum bonum hominis, sed est minimum quiddam in comparatione ad bonum animae. Unde Sap. VII, dicitur quod omne aurum, in comparatione sapientiae, arena est exigua. Sic igitur neque voluptas corporalis est ipsa beatitudo, nec est per se accidens beatitudinis.
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[33513] Iª-IIae q. 2 a. 6 co.
RISPONDO: Aristotele fa osservare che "le soddisfazioni corporali hanno assunto il nome di piaceri, perché i più limitano ad esse la propria conoscenza"; pur essendoci soddisfazioni molto superiori. Tuttavia in nessuna di esse può consistere direttamente la beatitudine. Poiché in ogni cosa bisogna distinguere gli elementi essenziali, dagli accidenti propri: nell'uomo, p. es., una cosa è il suo essere animale, razionale e mortale, e altra cosa è il suo essere risibile. Bisogna perciò considerare che ogni godimento è un accidente proprio annesso alla beatitudine, sia totale che parziale: infatti uno gode perché nella realtà, nella speranza o nella memoria possiede un bene per lui conveniente. Se questo bene è perfetto, si identifica con la beatitudine stessa dell'uomo; se invece è imperfetto si ha una partecipazione prossima, remota, o almeno apparente, della beatitudine. È evidente quindi che neppure il godimento che accompagna il bene perfetto è l'essenza stessa della beatitudine; ma è un qualche cosa che ne deriva come un accidente proprio.
I piaceri del corpo, poi, non possono neppure accompagnare nel modo predetto il bene perfetto. Infatti essi derivano dal bene che è oggetto dei sensi, e questi sono facoltà dell'anima che si serve del corpo. Ma un bene che riguarda il corpo ed è appreso dai sensi non può essere il bene perfetto dell'uomo. Infatti, essendo l'anima razionale superiore a tutte le capacità della materia, la parte dell'anima che è indipendente dagli organi corporei ha una certa infinità rispetto al corpo e alle sue parti stesse combinate col corpo: per il fatto che gli esseri immateriali sono in un certo senso infiniti rispetto a quelli materiali, poiché la forma viene come coartata e delimitata dalla materia, mentre la forma libera dalla materia è in qualche modo infinita. Perciò i sensi, che sono facoltà corporee, conoscono i singolari determinati dalla materia: mentre l'intelletto, che è una facoltà indipendente della materia, conosce gli universali, i quali sono astratti dalla materia, e abbracciano infiniti singolari. Da ciò è evidente che i beni corporali, i quali percepiti dai sensi producono il godimento materiale, non possono essere il bene perfetto dell'uomo, ma sono piuttosto dei beni insignificanti paragonati al bene dell'anima. Infatti sta scritto: "Tutto l'oro, in paragone della sapienza, è appena un po' di sabbia". Perciò il piacere materiale non può essere né la beatitudine, né un accidente proprio della medesima.
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[33514] Iª-IIae q. 2 a. 6 ad 1 Ad primum ergo dicendum quod eiusdem rationis est quod appetatur bonum, et quod appetatur delectatio, quae nihil est aliud quam quietatio appetitus in bono, sicut ex eadem virtute naturae est quod grave feratur deorsum, et quod ibi quiescat. Unde sicut bonum propter seipsum appetitur, ita et delectatio propter se, et non propter aliud appetitur, si ly propter dicat causam finalem. Si vero dicat causam formalem, vel potius motivam, sic delectatio est appetibilis propter aliud, idest propter bonum, quod est delectationis obiectum, et per consequens est principium eius, et dat ei formam, ex hoc enim delectatio habet quod appetatur, quia est quies in bono desiderato.
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[33514] Iª-IIae q. 2 a. 6 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dipendono da un unico motivo il desiderio del bene e quello del godimento annesso, il quale non è che il quietarsi dell'appetito nel bene raggiunto: come dipendono da un'unica forza naturale la tendenza di un corpo grave a scendere in basso, e il suo star fermo sul fondo. Perciò il godimento, come il bene, è desiderato per se stesso e non per altro motivo, se con il per s'intende la causa finale. Se invece si volesse intendere la causa formale, o addirittura motrice, allora il godimento è appetibile per un'altra cosa, cioè per il bene che costituisce l'oggetto e quindi il principio e la forma del godimento: infatti il godimento è appetibile, in quanto è l'appagamento nel bene desiderato.
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[33515] Iª-IIae q. 2 a. 6 ad 2 Ad secundum dicendum quod vehemens appetitus delectationis sensibilis contingit ex hoc quod operationes sensuum, quia sunt principia nostrae cognitionis, sunt magis perceptibiles. Unde etiam a pluribus delectationes sensibiles appetuntur.
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[33515] Iª-IIae q. 2 a. 6 ad 2
2. La veemenza del desiderio dei piaceri sensibili si deve al fatto che la sensibilità, la quale è alla radice della nostra conoscenza, è più immediata. Per questo i piaceri sensibili sono desiderati dalla maggioranza degli uomini.
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[33516] Iª-IIae q. 2 a. 6 ad 3 Ad tertium dicendum quod eo modo omnes appetunt delectationem, sicut et appetunt bonum, et tamen delectationem appetunt ratione boni, et non e converso, ut dictum est. Unde non sequitur quod delectatio sit maximum et per se bonum, sed quod unaquaeque delectatio consequatur aliquod bonum, et quod aliqua delectatio consequatur id quod est per se et maximum bonum.
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[33516] Iª-IIae q. 2 a. 6 ad 3
3. Tutti desiderano il godimento allo stesso modo che desiderano il bene: essi tuttavia desiderano il godimento a motivo del bene, e non viceversa, come abbiamo spiegato. Perciò non ne segue che il piacere sia il bene supremo ed essenziale: ma che ogni godimento deriva da un bene, e che c'è pure un godimento che deriva da quell'oggetto che è bene al sommo e per essenza.
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