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Se la tentazione di Dio consista nel compiere delle cose contando unicamente sulla sua potenza
Secunda pars secundae partis
Quaestio 97
Articulus 1
[43142] IIª-IIae q. 97 a. 1 arg. 1 Ad primum sic proceditur. Videtur quod tentatio Dei non consistat in aliquibus factis in quibus solius divinae potestatis expectatur effectus. Sicut enim tentatur Deus ab homine, ita etiam homo tentatur et a Deo, et ab homine, et a Daemone. Sed non quandocumque homo tentatur, expectatur aliquis effectus potestatis ipsius. Ergo neque etiam per hoc Deus tentatur quod expectatur solus effectus potestatis ipsius.
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Seconda parte della seconda parte
Questione 97
Articolo 1
[43142] IIª-IIae q. 97 a. 1 arg. 1
SEMBRA che la tentazione di Dio non consista nel compiere delle cose contando unicamente sulla potenza di lui. Infatti:
1. Dio può essere tentato dall'uomo, esattamente come può essere tentato l'uomo da Dio, o da altri uomini, o dal demonio. Ora, non è vero che ogni qual volta l'uomo è tentato c'è qualcuno il quale conta sulla sua potenza, per ottenere un dato effetto. Perciò neppure tentare Dio significa contare unicamente sulla potenza divina.
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[43143] IIª-IIae q. 97 a. 1 arg. 2 Praeterea, omnes illi qui per invocationem divini nominis miracula operantur, expectant aliquem effectum solius potestatis divinae. Si igitur in factis huiusmodi consisteret divina tentatio quicumque miracula faciunt Deum tentarent.
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[43143] IIª-IIae q. 97 a. 1 arg. 2
2. Tutti coloro che compiono miracoli, invocando il nome di Dio, contano di ottenerlo unicamente dalla potenza di Dio. Se quindi in ciò consistesse la tentazione di Dio, tutti quelli che compiono miracoli tenterebbero Dio.
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[43144] IIª-IIae q. 97 a. 1 arg. 3 Praeterea, ad perfectionem hominis pertinere videtur ut, praetermissis humanis subsidiis, in solo Deo spem ponat. Unde Ambrosius, super illud Luc. IX, nihil tuleritis in via etc., qualis debeat esse qui evangelizat regnum Dei, praeceptis evangelicis designatur, hoc est, ut subsidii saecularis adminicula non requirat, fideique totus inhaerens putet, quo minus ista requiret, magis posse suppetere. Et beata Agatha dixit, medicinam carnalem corpori meo nunquam exhibui, sed habeo dominum Iesum Christum, qui solo sermone restaurat universa. Sed Dei tentatio non consistit in eo quod ad perfectionem pertinet. Ergo tentatio non consistit in huiusmodi factis in quibus expectatur solum Dei auxilium.
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[43144] IIª-IIae q. 97 a. 1 arg. 3
3. È proprio dello stato di perfezione riporre ogni speranza in Dio, trascurando ogni soccorso umano. Ecco perché a commento di quelle parole evangeliche, "Non prendete nulla per il viaggio", S. Ambrogio ha scritto: "Dalle parole evangeliche viene indicato quale debba essere l'araldo del regno di Dio: non cerchi l'appoggio di aiuti mondani, ma contando fermamente sulla fede, si persuada che quanto meno cerca quegli aiuti, tanto meglio può riuscire". E S. Agata diceva: "Al mio corpo non ho mai applicato una medicina materiale; ma ho il Signore mio Gesù Cristo, il quale con la sola parola tutto risana". Ma la tentazione di Dio non può consistere in un fatto che rientra nella perfezione. Dunque la tentazione non consiste nel compiere di queste cose in cui si conta unicamente sull'aiuto di Dio.
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[43145] IIª-IIae q. 97 a. 1 s. c. Sed contra est quod Augustinus dicit, XXII contra Faustum, quod Christus, qui palam docendo et arguendo et tamen inimicorum rabiem valere in se aliquid non sinendo, Dei demonstrabat potestatem; idem tamen, fugiendo et latendo, hominis instruebat infirmitatem, ne Deum tentare audeat quando habet quod faciat ut quod cavere oportet evadat. Ex quo videtur in hoc tentationem Dei consistere, quando praetermittit homo facere quod potest ad pericula evadenda, respiciens solum ad auxilium divinum.
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[43145] IIª-IIae q. 97 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: Fa notare S. Agostino, che "Cristo, non permettendo che la rabbia dei suoi nemici, pur insegnando egli e confutandoli pubblicamente, potesse fargli nulla, dava una prova della sua divina potenza; al contrario, fuggendo e nascondendosi, ha voluto dare un esempio all'infermità umana, perché non osi tentare Dio, quando ha la possibilità di compiere qualche cosa per sfuggire ciò che bisogna temere". Dal che si arguisce che si ha la tentazione di Dio quando uno trascura di compiere quello che può, per evitare dei pericoli, contando unicamente sull'aiuto divino.
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[43146] IIª-IIae q. 97 a. 1 co. Respondeo dicendum quod tentare proprie est experimentum sumere de eo qui tentatur. Sumimus autem experimentum de aliquo et verbis et factis. Verbis quidem, ut experiamur an sciat quod quaerimus, vel possit aut velit illud implere. Factis autem, cum per ea quae facimus exploramus alterius prudentiam, vel voluntatem, vel potestatem. Utrumque autem horum contingit dupliciter. Uno quidem modo, aperte, sicut cum quis tentatorem se profitetur; sicut Samson, Iudic. XIV, proposuit Philisthaeis problema ad eos tentandum. Alio vero modo, insidiose et occulte, sicut Pharisaei tentaverunt Christum, ut legitur Matth. XXII. Rursus, quandoque quidem expresse, puta cum quis dicto vel facto intendit experimentum sumere de aliquo. Quandoque vero interpretative, quando scilicet, etsi hoc non intendat ut experimentum sumat, id tamen agit vel dicit quod ad nihil aliud videtur ordinabile nisi ad experimentum sumendum. Sic igitur homo Deum tentat quandoque verbis, quandoque factis. Verbis quidem Deo colloquimur orando. Unde in sua petitione aliquis expresse Deum tentat quando ea intentione aliquid a Deo postulat ut exploret Dei scientiam, potestatem vel voluntatem. Factis autem expresse aliquis Deum tentat quando per ea quae facit intendit experimentum sumere divinae potestatis, seu pietatis aut sapientiae. Sed quasi interpretative Deum tentat qui, etsi non intendat experimentum de Deo sumere, aliquid tamen vel petit vel facit ad nihil aliud utile nisi ad probandum Dei potestatem vel bonitatem, seu cognitionem. Sicut, cum aliquis equum currere facit ut evadat hostes, hoc non est experimentum de equo sumere, sed si equum currere faciat absque aliqua utilitate, hoc nihil aliud esse videtur quam experimentum sumere de equi velocitate, et idem est in omnibus aliis rebus. Quando ergo propter aliquam necessitatem seu utilitatem committit se aliquis divino auxilio in suis petitionibus vel factis, hoc non est Deum tentare, dicitur enim II Paralip. XX, cum ignoramus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te. Quando vero hoc agitur absque necessitate et utilitate, hoc est interpretative tentare Deum. Unde super illud Deut. VI, non tentabis dominum Deum tuum, dicit Glossa, Deum tentat qui, habens quid faciat, sine ratione se committit periculo, experiens utrum possit liberari a Deo.
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[43146] IIª-IIae q. 97 a. 1 co.
RISPONDO: Tentare propriamente è mettere qualcuno alla prova. Ma si può mettere alla prova una persona con le parole e con i fatti. Con le parole, per provare se conosce quello che domandiamo, o se possa o voglia compierlo. Con i fatti, quando con quello che facciamo ne esploriamo la prudenza, il volere, oppure le capacità. - Le due cose suddette, però, si possono fare in due modi. Primo, apertamente: quando uno si presenta apertamente quale tentatore, come fece Sansone nel proporre degli enigmi ai filistei. Secondo, in maniera insidiosa ed occulta: come i farisei che tentavano il Cristo. - Altra distinzione: talora la tentazione è espressa; p. es., quando con le parole o con i fatti si intende mettere alla prova qualcuno. Talora invece la tentazione risulta interpretativa: cioè quando uno, sebbene non intenda mettere altri alla prova, tuttavia agisce e parla in maniera che le sue azioni e le sue parole non sembrano ordinate ad altro che a questo.
È dunque in tal senso che l'uomo tenta Dio, talora con le parole e talora con i fatti. Con le parole noi parliamo a Dio quando preghiamo. Perciò uno tenta espressamente Dio con la preghiera quando chiede qualche cosa per conoscerne la scienza, il potere, o il volere. - E si tenta espressamente Dio con i fatti quando con le azioni che compie uno intende mettere alla prova la potenza, la bontà, o la sapienza di Dio. - Invece si tenta Dio in maniera quasi interpretativa, quando uno, senza voler mettere la Divinità alla prova, tuttavia chiede o compie delle cose che non hanno altro scopo che di esplorarne il potere, la bontà, o la conoscenza. Quando uno, p. es., fa correre il cavallo per sfuggire ai nemici, non lo fa per provarne la velocità: ma se fa correre il cavallo senza nessuno scopo, ciò si riduce a mettere la sua velocità alla prova; e lo stesso si dica di ogni altra cosa. Perciò, quando uno per necessità o per un'utilità si affida all'aiuto di Dio nelle sue preghiere o nel suo agire, questo non è tentare Dio; poiché sta scritto: "Non sapendo quello che dobbiamo fare, non ci resta altro che dirigere a te i nostri occhi". Quando invece ci si comporta così senza necessità e senza scopo, ciò equivale a tentare Dio. Ecco perché a commento di quelle parole della Scrittura: "Non tenterai il Signore Dio tuo", la Glossa afferma: "Tenta Dio colui il quale, pur avendo la possibilità di agire, senza motivo si espone al pericolo, per provare se Dio sia capace di liberarlo".
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[43147] IIª-IIae q. 97 a. 1 ad 1 Ad primum ergo dicendum quod homo etiam quandoque factis tentatur utrum possit vel sciat vel velit huiusmodi factis auxilium vel impedimentum praestare.
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[43147] IIª-IIae q. 97 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Anche l'uomo talora viene tentato con i fatti, per vedere se possa, sappia o voglia in codesti casi prestare aiuto, o mettere ostacolo.
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[43148] IIª-IIae q. 97 a. 1 ad 2 Ad secundum dicendum quod sancti suis precibus miracula facientes, ex aliqua necessitate vel utilitate moventur ad petendum divinae potestatis effectum.
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[43148] IIª-IIae q. 97 a. 1 ad 2
2. I santi nel compiere i miracoli con le loro preghiere, son mossi da qualche scopo o da qualche necessità a chiedere l'intervento della potenza divina.
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[43149] IIª-IIae q. 97 a. 1 ad 3 Ad tertium dicendum quod praedicatores regni Dei ex magna utilitate et necessitate subsidia temporalia praetermittunt, ut verbo Dei expeditius vacent. Et ideo si soli Deo innitantur, non ex hoc tentant Deum. Sed si absque utilitate vel necessitate humana subsidia desererent, tentarent Deum. Unde et Augustinus dicit, XXII contra Faustum, quod Paulus non fugit quasi non credendo in Deum, sed ne Deum tentaret si fugere noluisset, cum sic fugere potuisset. Beata vero Agatha experta erat erga se divinam benevolentiam, ut vel infirmitates non pateretur, pro quibus corporali medicina indigeret, vel statim sentiret divinae sanationis effectum.
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[43149] IIª-IIae q. 97 a. 1 ad 3
3. I predicatori del regno di Dio trascurano i sussidi temporali per gravi motivi e necessità, e cioè per attendere più speditamente alla parola di Dio. Perciò nel contare unicamente su Dio essi non lo tentano. Lo tenterebbero invece, se abbandonassero i soccorsi umani senza motivo o necessità. Perciò S. Agostino ha scritto, che "S. Paolo fuggì non perché non credeva in Dio: ma per non tentare Dio, rifiutandosi di fuggire quando poteva farlo".
Quanto poi a S. Agata, essa doveva avere sperimentato la divina benevolenza, o non soffrendo le infermità, che esigono la medicina corporale, oppure provandone l'immediata guarigione da parte di Dio.
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