[40545] IIª-IIae q. 36 a. 2 arg. 4 Praeterea, poena dividitur contra culpam. Sed invidia est quaedam poena, dicit enim Gregorius, V Moral., cum devictum cor livoris putredo corruperit, ipsa quoque exteriora indicant quam graviter animum vesania instigat, color quippe pallore afficitur, oculi deprimuntur, mens accenditur, membra frigescunt, fit in cogitatione rabies, in dentibus stridor. Ergo invidia non est peccatum.
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[40545] IIª-IIae q. 36 a. 2 arg. 4
4. La pena è ben distinta dalla colpa. Ora, l'invidia è una pena; così infatti scrive S. Gregorio: "Quando la peste dell'invidia ha corrotto e soggiogato il cuore, anche le membra esterne indicano quanto gravemente il furore ecciti l'anima: il colore si fa pallido, gli occhi si affondano, la testa si accende, le membra si raffreddano, il pensiero è dominato dalla rabbia, i denti stridono". Dunque l'invidia non è peccato.
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[40547] IIª-IIae q. 36 a. 2 co. Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, invidia est tristitia de alienis bonis. Sed haec tristitia potest contingere quatuor modis. Uno quidem modo, quando aliquis dolet de bono alicuius inquantum ex eo timetur nocumentum vel sibi ipsi vel etiam aliis bonis. Et talis tristitia non est invidia, ut dictum est; et potest esse sine peccato. Unde Gregorius, XXII Moral., ait, evenire plerumque solet ut, non amissa caritate, et inimici nos ruina laetificet, et rursum eius gloria sine invidiae culpa contristet, cum et ruente eo quosdam bene erigi credimus, et proficiente illo plerosque iniuste opprimi formidamus. Alio modo potest aliquis tristari de bono alterius, non ex eo quod ipse habet bonum, sed ex eo quod nobis deest bonum illud quod ipse habet. Et hoc proprie est zelus; ut philosophus dicit, in II Rhet. Et si iste zelus sit circa bona honesta, laudabilis est, secundum illud I ad Cor. XIV, aemulamini spiritualia. Si autem sit de bonis temporalibus, potest esse cum peccato, et sine peccato. Tertio modo aliquis tristatur de bono alterius inquantum ille cui accidit bonum est eo indignus. Quae quidem tristitia non potest oriri ex bonis honestis, ex quibus aliquis iustus efficitur; sed sicut philosophus dicit, in II Rhet., est de divitiis et de talibus, quae possunt provenire dignis et indignis. Et haec tristitia, secundum ipsum, vocatur Nemesis, et pertinet ad bonos mores. Sed hoc ideo dicit quia considerabat ipsa bona temporalia secundum se, prout possunt magna videri non respicientibus ad aeterna. Sed secundum doctrinam fidei, temporalia bona quae indignis proveniunt ex iusta Dei ordinatione disponuntur vel ad eorum correctionem vel ad eorum damnationem, et huiusmodi bona quasi nihil sunt in comparatione ad bona futura, quae servantur bonis. Et ideo huiusmodi tristitia prohibetur in Scriptura sacra, secundum illud Psalm., noli aemulari in malignantibus, neque zelaveris facientes iniquitatem. Et alibi, pene effusi sunt gressus mei, quia zelavi super iniquos, pacem peccatorum videns. Quarto aliquis tristatur de bonis alicuius inquantum alter excedit ipsum in bonis. Et hoc proprie est invidia. Et istud semper est pravum, ut etiam philosophus dicit, in II Rhet., quia dolet de eo de quo est gaudendum, scilicet de bono proximi.
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[40547] IIª-IIae q. 36 a. 2 co.
RISPONDO: L'invidia, come abbiamo detto, è "una tristezza per i beni altrui". Ora, tale tristezza può prodursi in quattro modi. Primo, quando uno si rattrista del bene di un altro nel timore di riceverne un danno per sé, o per i buoni. Tale tristezza però non è invidia, come abbiamo già notato, e può essere senza peccato. Scrive perciò S. Gregorio: "Per lo più capita senza la perdita della carità che la rovina di un nemico ci rallegri, e che il suo successo ci addolori, senza un peccato di invidia, poiché crediamo che con la sua caduta alcuni saranno giustamente risollevati, mentre temiamo che col suo successo molti saranno ingiustamente oppressi".
Secondo, si può essere addolorati del bene di un altro, non perché costui ha codesto bene, ma perché manca a noi. E questo propriamente è zelo, o gelosia, come nota il Filosofo. E se codesta gelosia riguarda i beni onesti, è cosa lodevole, seguendo l'esortazione di S. Paolo: "Ambite i doni spirituali". Se invece ha per oggetto i beni temporali, può essere o non essere peccaminosa.
Terzo, uno si può rattristare dei beni altrui, perché colui che ne gode ne è indegno. E tale tristezza non può nascere certo dal bene onesto, che rende giusta una persona; ma ha per oggetto, come dice il Filosofo, le ricchezze e gli altri beni che possono capitare sia agli onesti che ai disonesti. Questa tristezza è da lui denominata nemesi, e appartiene ai buoni costumi. Ma egli diceva così perché considerava i beni temporali in se stessi, in quanto possono sembrare di gran valore a chi non guarda ai beni eterni. Invece secondo l'insegnamento della fede i beni temporali che sono concessi agli indegni, per un giusto disegno di Dio sono ordinati, o alla loro emenda, o alla loro dannazione: inoltre codesti beni sono quasi un nulla a confronto dei beni futuri riservati ai buoni. Perciò dalla Sacra Scritturà è proibita codesta tristezza; nei Salmi infatti si legge: "Non avere emulazione per i malvagi, e non ti ingelosire di quei che fanno il male". E altrove: "Per poco non sono sdrucciolati i miei passi, perché ho invidiato gli iniqui, vedendo la prosperità dei malvagi".
Quarto, uno può rattristarsi dei beni di un altro per il fatto che costui ha dei beni più grandi. E questo propriamente è l'invidia. Ed è sempre una cosa malvagia, come anche il Filosofo riconosce: perché allora uno si rattrista di una cosa di cui dovrebbe godere, cioè del bene del prossimo.
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