[39629] IIª-IIae q. 19 a. 11 co. Respondeo dicendum quod timor servilis, sive timor poenae, nullo modo erit in patria, excluditur enim talis timor per securitatem aeternae beatitudinis, quae est de ipsius beatitudinis ratione, sicut supra dictum est. Timor autem filialis, sicut augetur augmentata caritate, ita caritate perfecta perficietur. Unde non habebit in patria omnino eundem actum quem habet modo. Ad cuius evidentiam sciendum est quod proprium obiectum timoris est malum possibile, sicut proprium obiectum spei est bonum possibile. Et cum motus timoris sit quasi fugae, importat timor fugam mali ardui possibilis, parva enim mala timorem non inducunt. Sicut autem bonum uniuscuiusque est ut in suo ordine consistat, ita malum uniuscuiusque est ut suum ordinem deserat. Ordo autem creaturae rationalis est ut sit sub Deo et supra ceteras creaturas. Unde sicut malum creaturae rationalis est ut subdat se creaturae inferiori per amorem, ita etiam malum eius est si non Deo se subiiciat, sed in ipsum praesumptuose insiliat vel contemnat. Hoc autem malum creaturae rationali secundum suam naturam consideratae possibile est, propter naturalem liberi arbitrii flexibilitatem, sed in beatis fit non possibile per gloriae perfectionem. Fuga igitur huius mali quod est Deo non subiici, ut possibilis naturae, impossibilis autem beatitudini, erit in patria. In via autem est fuga huius mali ut omnino possibilis. Et ideo Gregorius dicit, XVII Moral., exponens illud Iob XXVI, columnae caeli contremiscunt et pavent ad nutum eius, ipsae, inquit, virtutes caelestium, quae hunc sine cessatione conspiciunt, in ipsa contemplatione contremiscunt. Sed idem tremor, ne eis poenalis sit, non timoris est sed admirationis, quia scilicet admirantur Deum ut supra se existentem et eis incomprehensibilem. Augustinus etiam, in XIV de Civ. Dei, hoc modo ponit timorem in patria, quamvis hoc sub dubio derelinquat. Timor, inquit, ille castus permanens in saeculum saeculi, si erit in futuro saeculo, non erit timor exterrens a malo quod accidere potest; sed tenens in bono quod amitti non potest. Ubi enim boni adepti amor immutabilis est, profecto, si dici potest, mali cavendi timor securus est. Timoris quippe casti nomine ea voluntas significata est qua nos necesse erit nolle peccare, et non sollicitudine infirmitatis ne forte peccemus, sed tranquillitate caritatis cavere peccatum. Aut, si nullius omnino generis timor ibi esse poterit, ita fortasse timor in saeculum saeculi dictus est permanens, quia id permanebit quo timor ipse perducit.
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[39629] IIª-IIae q. 19 a. 11 co.
RISPONDO: Il timore servile, cioè il timore della pena, in nessun modo potrà esistere nella patria: poiché codesto timore è incompatibile con la sicurezza della beatitudine eterna, implicita nel concetto stesso di felicità, come già si disse. Invece il timore filiale, come cresce con l'aumento della carità, così col coronamento della carità viene sublimato. Perciò nella patria esso non avrà per niente il medesimo atto di adesso.
A chiarimento di ciò si deve notare che oggetto proprio del timore è il male possibile: come oggetto proprio della speranza è il bene raggiungibile. E poiché il moto del timore somiglia a una fuga, il timore implica la fuga di un male grave possibile: infatti i piccoli mali non incutono timore. Ora, per qualsiasi essere come il bene consiste nel conservare il proprio ordine, così il male consiste nell'abbandono di esso. Ma l'ordine proprio della creatura ragionevole esige di stare soggetta a Dio e al di sopra delle altre creature. Perciò come è un male per la creatura ragionevole mettersi al di sotto delle creature inferiori con l'amore, così è un male non stare soggetta a Dio, mettendosi presuntuosamente sopra di lui, o disprezzandolo. Ora, questo male è sempre possibile alla creatura ragionevole considerata nella sua natura, per la naturale flessibilità del libero arbitrio; ma nei beati è resa impossibile dalla perfezione della gloria. Perciò nella patria non avremo più da fuggire questo male che è il non sottomettersi a Dio, male che è possibile alla natura, ma impossibile alla beatitudine. Invece nella vita presente si ha la fuga di codesto male come realmente possibile.
Ecco perché S. Gregorio nel commentare quel passo di Giobbe: "Le colonne dei cieli traballano e restano attonite al suo cenno", afferma: "Le stesse virtù dei cieli, che lo contemplano senza interruzione, nel contemplarlo tremano. Però questo tremore, per non essere di pena, non è dovuto al timore, ma all'ammirazione"; gli angeli, cioè, ammirano Dio come esistente sopra di loro, e come incomprensibile per essi. - Anche S. Agostino ammette così il timore nella patria, pur lasciando in dubbio la cosa. "Il timore casto", egli dice, "che rimane in eterno, se sussisterà nel secolo futuro, non sarà un timore che ritrae da un male che possa occorrere; ma (sarà un timore) che mantiene nel bene che non si può perdere. Infatti là dove l'amore del bene raggiunto è immutabile, è certo che il timore nel fuggire il male, se si può parlare di esso, è del tutto sicuro. Infatti col nome di timore casto viene indicata la volontà con la quale necessariamente noi non vorremo peccare, e questo non con la preoccupazione di peccare per fragilità, ma scansando il peccato con la tranquillità della carità. Oppure, se allora non potrà esserci timore proprio di nessun genere, forse il timore che si dice sussistere in eterno va inteso nel senso che dovrà così sussistere lo stato a cui quel timore conduce".
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[39631] IIª-IIae q. 19 a. 11 ad 2 Ad secundum dicendum quod, sicut dicit Dionysius, IX cap. de Div. Nom., eadem et similia sunt Deo et dissimilia, hoc quidem secundum contingentem non imitabilis imitationem, idest inquantum secundum suum posse imitantur Deum, qui non est perfecte imitabilis; hoc autem secundum hoc quod causata minus habent a causa, infinitis mensuris et incomparabilibus deficientia. Unde non oportet quod, si Deo non convenit timor, quia non habet superiorem cui subiiciatur, quod propter hoc non conveniat beatis, quorum beatitudo consistit in perfecta subiectione ad Deum.
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[39631] IIª-IIae q. 19 a. 11 ad 2
2. A detta di Dionigi, "le medesime cose sono simili e dissimili rispetto a Dio: simili per una imitazione dell'inimitabile", esse cioè per quanto possono imitano Dio, che non è perfettamente imitabile; "e dissimili in quanto gli effetti rimangono inferiori alla causa, allontanandosi da essa in una misura che sfugge ogni limite e ogni comparazione". Perciò se a Dio ripugna il timore, non avendo egli un superiore cui sottostare, non è detto che ciò ripugni ai beati, la cui beatitudine consiste nella perfetta sottomissione a Dio.
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