Seconda parte > Le azioni umane > La giustizia > L'ingratitudine >
Se l'ingratitudine sia sempre peccato mortale
Secunda pars secundae partis
Quaestio 107
Articulus 3
[43551] IIª-IIae q. 107 a. 3 arg. 1 Ad tertium sic proceditur. Videtur quod ingratitudo semper sit peccatum mortale. Deo enim maxime debet aliquis esse gratus. Sed peccando venialiter homo non est ingratus Deo, alioquin omnes essent ingrati. Ergo nulla ingratitudo est veniale peccatum.
|
|
Seconda parte della seconda parte
Questione 107
Articolo 3
[43551] IIª-IIae q. 107 a. 3 arg. 1
SEMBRA che l'ingratitudine sia sempre peccato mortale. Infatti:
1. La riconoscenza è dovuta soprattutto a Dio. Ma col peccato veniale non si è ingrati verso Dio; altrimenti tutti sarebbero ingrati. Dunque l'ingratitudine non è mai peccato veniale.
|
[43552] IIª-IIae q. 107 a. 3 arg. 2 Praeterea, ex hoc aliquod peccatum est mortale quod contrariatur caritati, ut supra dictum est. Sed ingratitudo contrariatur caritati, ex qua procedit debitum gratitudinis, ut supra dictum est. Ergo ingratitudo semper est peccatum mortale.
|
|
[43552] IIª-IIae q. 107 a. 3 arg. 2
2. Abbiamo visto sopra che un peccato è mortale perché si contrappone alla carità. Ora, l'ingratitudine, come abbiamo notato, si contrappone alla carità, dalla quale deriva il debito della gratitudine. Perciò l'ingratitudine è sempre peccato mortale.
|
[43553] IIª-IIae q. 107 a. 3 arg. 3 Praeterea, Seneca dicit, in II de Benefic., haec beneficii lex est, alter statim oblivisci debet dati, alter memor esse accepti. Sed propter hoc, ut videtur, debet oblivisci, ut lateat eum peccatum recipientis, si contingat eum esse ingratum. Quod non oporteret si ingratitudo esset leve peccatum. Ergo ingratitudo semper est mortale peccatum.
|
|
[43553] IIª-IIae q. 107 a. 3 arg. 3
3. Seneca ha scritto: "La legge della beneficenza è questa: il benefattore deve subito dimenticare, mentre il beneficato deve sempre ricordarsene". Ma il primo deve dimenticare, a quanto sembra, per non rilevare il peccato del beneficato, qualora mancasse di gratitudine. Questo però non si richiederebbe, se l'ingratitudine fosse un peccato leggero. Dunque l'ingratitudine è sempre peccato mortale.
|
[43554] IIª-IIae q. 107 a. 3 s. c. Sed contra est quod nulli est danda via peccandi mortaliter. Sed sicut Seneca dicit, ibidem, interdum qui iuvatur fallendus est, ut habeat, nec a quo acceperit sciat, quod videtur viam ingratitudinis recipienti praebere. Ergo ingratitudo non semper est peccatum mortale.
|
|
[43554] IIª-IIae q. 107 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: A nessuno si deve dare occasione di peccare mortalmente. Ora, Seneca insegna, che "talora bisogna ingannare il beneficato, in modo che egli non sappia da chi ha ricevuto": ma così si offre al beneficato l'occasione di essere ingrato. Perciò l'ingratitudine non sempre è peccato mortale.
|
[43555] IIª-IIae q. 107 a. 3 co. Respondeo dicendum quod, sicut ex dictis patet, ingratus dicitur aliquis dupliciter. Uno modo, per solam omissionem, puta quia non recognoscit, vel non laudat, vel non retribuit vices pro beneficio accepto. Et hoc non semper est peccatum mortale. Quia, ut supra dictum est, debitum gratitudinis est ut homo aliquid etiam liberaliter tribuat ad quod non tenetur, et ideo, si illud praetermittit, non peccat mortaliter. Est tamen peccatum veniale, quia hoc provenit ex negligentia quadam, aut ex aliqua indispositione hominis ad virtutem. Potest tamen contingere quod etiam talis ingratitudo sit mortale peccatum, vel propter interiorem contemptum; vel etiam propter conditionem eius quod subtrahitur, quod ex necessitate debetur benefico, sive simpliciter sive in aliquo necessitatis casu. Alio modo dicitur aliquis ingratus, quia non solum praetermittit implere gratitudinis debitum, sed etiam contrarium agit. Et hoc etiam, secundum conditionem eius quod agitur, quandoque est peccatum mortale, quandoque veniale. Sciendum tamen quod ingratitudo quae provenit ex peccato mortali habet perfectam ingratitudinis rationem, illa vero quae provenit ex peccato veniali, imperfectam.
|
|
[43555] IIª-IIae q. 107 a. 3 co.
RISPONDO: Nell'articolo precedente abbiamo ben chiarito che si può essere ingrati in due maniere. Primo, per semplice omissione: quando uno, p. es., non riconosce interamente o esternamente il beneficio, oppure non contraccambia. E questo non sempre è peccato mortale. Poiché il debito della gratitudine abbraccia anche, come sopra abbiamo notato, un sovrappiù cui non si è strettamente tenuti: e quindi se uno lo tralascia, non fa peccato mortale. Tuttavia si ha un peccato veniale: poiché ciò deriva da una certa negligenza, oppure da una scarsa inclinazione alla virtù. Talora però tale ingratitudine può anche essere peccato mortale: o per il disprezzo del beneficio ricevuto; oppure per il compenso che viene negato, e che è dovuto rigorosamente al benefattore, o in modo assoluto, o in caso di necessità. - Secondo, si può essere ingrati non solo trascurando il debito della riconoscenza, ma rendendo male per bene. Anche in questo caso il peccato può essere mortale, o veniale secondo le azioni che vengono compiute. - Si deve però notare che l'ingratitudine commessa con un peccato mortale ha perfetta natura d'ingratitudine: mentre quella compiuta con un peccato veniale è un'ingratitudine imperfetta.
|
[43556] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 1 Ad primum ergo dicendum quod per peccatum veniale non est aliquis ingratus Deo secundum perfectam ingratitudinis rationem. Habet tamen aliquid ingratitudinis, inquantum peccatum veniale tollit aliquem actum virtutis, per quem homo Deo obsequitur.
|
|
[43556] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Col peccato veniale non si è ingrati verso Dio con un'ingratitudine perfetta. Tuttavia la colpa veniale ha un aspetto d'ingratitudine, in quanto sacrifica un atto virtuoso col quale l'uomo deve rendere onore a Dio.
|
[43557] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 2 Ad secundum dicendum quod ingratitudo quae est cum peccato veniali non est contraria caritati, sed est praeter ipsam, quia non tollit habitum caritatis, sed aliquem actum ipsius excludit.
|
|
[43557] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 2
2. L'ingratitudine implicita nel peccato veniale non è contraria, ma estranea alla carità: poiché essa non esclude la carità, bensì un atto della medesima.
|
[43558] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 3 Ad tertium dicendum quod idem Seneca dicit, in VII de Benefic., errat si quis aestimat, cum dicimus eum qui beneficium dedit oblivisci oportere, excutere nos illi memoriam rei, praesertim honestissimae. Cum ergo dicimus, meminisse non debet, hoc volumus intelligi, praedicare non debet, nec iactare.
|
|
[43558] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 3
3. Lo stesso Seneca spiega: "Sarebbe un errore credere che quando affermiamo per il benefattore il dovere di dimenticare il beneficio, gli si voglia proibire il ricordo di un'azione, e per di più virtuosa. Perciò quando diciamo che non deve ricordarla, vogliamo intendere che non deve fare pubblicità o vantarsene".
|
[43559] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 4 Ad quartum dicendum quod ille qui ignorat beneficium non est ingratus si beneficium non recompenset, dummodo sit paratus recompensare si noscet. Est autem laudabile quandoque ut ille cui providetur beneficium ignoret, tum propter inanis gloriae vitationem, sicut beatus Nicolaus, aurum furtim in domum proiiciens, vitare voluit humanum favorem; tum etiam quia in hoc ipso amplius beneficium facit quod consulit verecundiae eius qui beneficium accipit.
|
|
[43559] IIª-IIae q. 107 a. 3 ad 4
4. Chi non sa di essere stato beneficato non cade nell'ingratitudine, se non contraccambia, purché sia disposto a farlo venendolo a sapere. Ma talora è cosa lodevole che il beneficato non lo sappia; sia per evitare la vanagloria, sull'esempio di S. Nicola, il quale per fuggire la lode umana gettò di nascosto denaro dentro una casa; sia perché così compie una carità anche più grande, risparmiando al beneficato la vergogna della sua indigenza.
|
|
|