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Se si sia tenuti a ringraziare tutti i benefattori
Secunda pars secundae partis
Quaestio 106
Articulus 3
[43496] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 1 Ad tertium sic proceditur. Videtur quod homo non teneatur ad gratiarum actiones omni homini benefacienti. Potest enim aliquis sibi ipsi benefacere, sicut et sibi ipsi nocere, secundum illud Eccli. XIV, qui sibi nequam est, cui alii bonus erit? Sed homo sibi ipsi non potest gratias agere, quia gratiarum actio videtur transire ab uno in alterum. Ergo non omni benefactori debetur gratiarum actio.
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Seconda parte della seconda parte
Questione 106
Articolo 3
[43496] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 1
SEMBRA che non si sia tenuti a ringraziare tutti i benefattori. Infatti:
1. Uno può fare del bene come può far del male anche a se stesso, secondo le parole della Scrittura: "Chi è cattivo con se stesso, con chi sarà egli buono?". Ma nessuno può ringraziare se stesso: poiché il ringraziamento deve passare da una persona all'altra. Dunque non si è tenuti a ringraziare tutti i benefattori.
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[43497] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 2 Praeterea, gratiarum actio est quaedam gratiae recompensatio. Sed aliqua beneficia non cum gratia dantur, sed magis cum contumelia, et tarditate vel tristitia. Ergo non semper benefactori sunt gratiae reddendae.
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[43497] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 2
2. Il ringraziamento è un rendimento di grazie. Ma certi benefici son dati senza grazia, bensì accompagnati da offese, da ritardi e da dispiaceri. Perciò non sempre siamo tenuti a ringraziare i benefattori.
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[43498] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 3 Praeterea, nulli debetur gratiarum actio ex eo quod suam utilitatem procurat. Sed quandoque aliqui aliqua beneficia dant propter suam utilitatem. Ergo eis non debetur gratiarum actio.
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[43498] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 3
3. Nessuno merita ringraziamenti per il fatto che provvede alla propria utilità. Ma qualche volta certuni fanno del bene cercando la propria utilità. Dunque essi non meritano ringraziamenti.
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[43499] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 4 Praeterea, servo non debetur gratiarum actio, quia hoc ipsum quod est, domini est. Sed quandoque contingit servum in dominum beneficum esse. Ergo non omni benefactori debetur gratiarum actio.
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[43499] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 4
4. Verso lo schiavo non c'è obbligo di riconoscenza: poiché per tutto ciò che è, egli è del padrone. Ora, talora capita che uno schiavo sia il benefattore del suo padrone. Quindi non a tutti i benefattori si deve riconoscenza.
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[43500] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 5 Praeterea, nullus tenetur ad id quod facere non potest honeste et utiliter. Sed quandoque contingit quod ille qui beneficium tribuit est in statu magnae felicitatis, cui inutiliter aliquid recompensaretur pro suscepto beneficio. Quandoque etiam contingit quod benefactor mutatur de virtute in vitium, et sic videtur quod ei honeste recompensari non potest. Quandoque etiam ille qui accipit beneficium pauper est, et omnino recompensare non potest. Ergo videtur quod non semper teneatur homo ad gratiarum recompensationem.
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[43500] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 5
5. Nessuno è tenuto a compiere ciò che non può fare con onestà e utilità. Ebbene, spesso capita che il benefattore si trovi in uno stato di grande felicità, per cui è inutile ricompensarlo del beneficio che ne abbiamo ricevuto. E può anche capitare che il benefattore diventi un vizioso; e allora non sembra che sia onesto ricompensarlo. E altre volte il beneficato è così povero da non poter dare nessun compenso. Perciò è evidente che non sempre si è tenuti alla riconoscenza.
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[43501] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 6 Praeterea, nullus debet pro alio facere quod ei non expedit, sed est ei nocivum. Sed quandoque contingit quod recompensatio beneficii est nociva vel inutilis ei cui recompensatur. Ergo non semper est beneficium recompensandum per gratiarum actionem.
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[43501] IIª-IIae q. 106 a. 3 arg. 6
6. Nessuno deve fare ad altri cose che non giovano, o che sono invece loro nocive. Ma può capitare che la ricompensa di un beneficio sia nociva o inutile alla persona interessata. Dunque non sempre i benefici vanno ricompensati col ringraziamento.
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[43502] IIª-IIae q. 106 a. 3 s. c. Sed contra est quod dicitur I ad Thess. ult., in omnibus gratias agite.
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[43502] IIª-IIae q. 106 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: S. Paolo ammonisce: "In ogni cosa rendete grazie".
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[43503] IIª-IIae q. 106 a. 3 co. Respondeo dicendum quod omnis effectus naturaliter ad suam causam convertitur. Unde Dionysius dicit, I cap. de Div. Nom., quod Deus omnia in se convertit, tanquam omnium causa, semper enim oportet quod effectus ordinetur ad finem agentis. Manifestum est autem quod benefactor, inquantum huiusmodi, est causa beneficiati. Et ideo naturalis ordo requirit ut ille qui suscipit beneficium, per gratiarum recompensationem convertatur ad benefactorem, secundum modum utriusque. Et sicut de patre supra dictum est, benefactori quidem, inquantum huiusmodi, debetur honor et reverentia, eo quod habet rationem principii, sed per accidens debetur ei subventio vel sustentatio, si indigeat.
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[43503] IIª-IIae q. 106 a. 3 co.
RISPONDO: Qualsiasi effetto ha un moto naturale di ritorno alla propria causa. Ecco perché Dionigi afferma che Dio fa convergere verso di sé tutte le cose, perché causa di esse: infatti è indispensabile che l'effetto sia ordinato al fine inteso dalla causa agente. Ora, è ben chiaro che come tale il benefattore è causa rispetto al beneficato. Perciò l'ordine naturale esige che il beneficato si volga con la sua riconoscenza verso il benefattore, secondo le condizioni rispettive. Infatti al benefattore come tale si deve, come sopra abbiamo visto per i genitori, onore e rispetto, avendo egli natura di principio: ma per accidens, cioè in caso di necessità, a lui si deve pure aiuto e sostentamento.
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[43504] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 1 Ad primum ergo dicendum quod, sicut Seneca dicit, in V de Benefic., sicut non est liberalis qui sibi donat, nec clemens qui sibi ignoscit, nec misericors qui malis suis tangitur, sed qui aliis, ita etiam nemo sibi ipsi beneficium dat, sed naturae suae paret, quae movet ad refutanda nociva et ad appetenda proficua. Unde in his quae sunt ad seipsum non habet locum gratitudo et ingratitudo, non enim potest homo sibi aliquid denegare nisi sibi retinendo. Metaphorice tamen illa quae ad alterum proprie dicuntur, accipiuntur in his quae sunt ad seipsum, sicut de iustitia philosophus dicit, in V Ethic., inquantum scilicet accipiuntur diversae partes hominis sicut diversae personae.
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[43504] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. A dire di Seneca, "come chi dona a se stesso non è liberale, non è clemente chi perdona se stesso, e neppure è misericordioso chi compatisce se stesso, ma chi ha compassione degli altri: così nessuno offre veramente a se medesimo un beneficio, ma accondiscende alla propria natura, la quale spinge a fuggire le cose nocive e a desiderare quelle vantaggiose". Perciò rispetto alle azioni compiute per se stessi non ci può essere gratitudine o ingratitudine: infatti uno non può negare a se stesso una cosa che trattenendola per sé. - Tuttavia nel parlare di ciò che facciamo per noi stessi noi usiamo metaforicamente espressioni che propriamente si riferiscono a quanto compiamo per altri, come nota il Filosofo a proposito della giustizia: poiché consideriamo le varie parti dell'uomo come persone diverse.
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[43505] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 2 Ad secundum dicendum quod boni animi est ut magis attendat ad bonum quam ad malum. Et ideo si aliquis beneficium dedit non eo modo quo debuit, non omnino debet recipiens a gratiarum actione cessare. Minus tamen quam si modo debito praestitisset, quia etiam beneficium minus est, quia, ut Seneca dicit, in II de Benefic., multum celeritas fecit, multum abstulit mora.
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[43505] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 2
2. Un'anima virtuosa fa attenzione più al bene che al male. Perciò se uno ha fatto un beneficio in una maniera indelicata, chi l'ha ricevuto non deve dispensarsi del tutto dall'obbligo di ringraziare. Però l'obbligo è minore, perché anche il beneficio è minore: infatti, a detta di Seneca, "la prontezza aggiunge molto, mentre gli indugi molto rimpiccioliscono".
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[43506] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 3 Ad tertium dicendum quod, sicut Seneca dicit, in VI de Benefic., multum interest utrum aliquis beneficium nobis det sua causa, an sua et nostra. Ille qui totus ad se spectat, et nobis prodest quia aliter sibi prodesse non potest, eo mihi loco habendus videtur quo qui pecori suo pabulum prospicit. Si me in consortium admisit, si duos cogitavit, ingratus sum et iniustus nisi gaudeo hoc illi profuisse quod proderat mihi. Summae malignitatis est non vocare beneficium nisi quod dantem aliquo incommodo afficit.
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[43506] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 3
3. "È molto importante a sapersi", dice Seneca, "se uno ci fa del bene per suo vantaggio, o a vantaggio nostro e suo. Chi pensa solo a se stesso e giova anche a noi, perché non può fare altrimenti, io lo considero come chi offre il pascolo al suo bestiame. Se invece mi associa a sé, se pensa a tutti e due, sarei ingrato e ingiusto a non godere perché a lui giova quanto giova anche a me. È somma cattiveria infatti non considerare un beneficio, se non quanto riesce d'incomodo a chi l'offre".
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[43507] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 4 Ad quartum dicendum quod, sicut Seneca dicit, in III de Benefic., quandiu servus praestat quod a servo exigi solet, ministerium est, ubi plus quam a servo necesse, beneficium est. Ubi enim in affectum amici transit, incipit vocari beneficium. Et ideo etiam servis ultra debitum facientibus gratiae sunt habendae.
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[43507] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 4
4. Come Seneca insegna, "finché uno schiavo dà quello che si è soliti esigere da uno schiavo, è suo ufficio: ma quando dà più di quanto si richiede da uno schiavo, allora il suo è un beneficio. Infatti quando egli raggiunge l'affetto di un amico, si comincia a parlare di beneficio". Perciò si deve gratitudine anche agli schiavi, quando fanno più del dovuto.
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[43508] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 5 Ad quintum dicendum quod etiam pauper ingratus non est si faciat quod possit, sicut enim beneficium magis in affectu consistit quam in effectu, ita etiam et recompensatio magis in affectu consistit. Unde Seneca dicit, in II de Benefic., qui grate beneficium accipit, primam eius pensionem solvit. Quam grate autem ad nos beneficia pervenerint, indicemus effusis affectibus, quod non ipso tantum audiente, sed ubique testemur. Et ex hoc patet quod quantumcumque in felicitate existenti potest recompensatio beneficii fieri per exhibitionem reverentiae et honoris. Unde philosophus dicit, in VIII Ethic., quod superexcellenti quidem debet fieri honoris retributio, indigenti autem retributio lucri. Et Seneca dicit, in VI de Benefic., multa sunt per quae quidquid debemus reddere et felicibus possumus, fidele consilium, assidua conversatio, sermo communis et sine adulatione iucundus. Et ideo non oportet ut homo optet indigentiam eius seu miseriam qui beneficium dedit, ad hoc quod beneficium recompensetur. Quia, ut Seneca dicit, in VI de Benefic., si hoc ei optares cuius nullum beneficium haberes, inhumanum erat votum. Quanto inhumanius ei optas cui beneficium debes. Si autem ille qui beneficium dedit in peius mutatus est, debet tamen sibi fieri recompensatio secundum statum ipsius, ut scilicet ad virtutem reducatur, si sit possibile. Si autem sit insanabilis propter malitiam, tunc alter est effectus quam prius erat, et ideo non debetur ei recompensatio beneficii sicut prius. Et tamen, quantum fieri potest salva honestate, memoria debet haberi praestiti beneficii. Ut patet per philosophum, in IX Ethic.
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[43508] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 5
5. Il povero non è ingrato, se fa quello che può: infatti come il beneficio consiste più nell'affetto che nel fatto medesimo, così anche il compenso è specialmente nell'affetto. Di qui le parole di Seneca: "Chi riceve un beneficio con animo grato, ne ha già pagato il primo compenso. E questa gratitudine manifestiamola con l'effusione degli affetti: non soltanto dinanzi all'interessato, ma dovunque".
Da ciò è evidente che per quanto un benefattore possa essere felice, si può sempre offrire un compenso per i benefici ricevuti mediante il rispetto e l'onore. Di qui le parole del Filosofo, il quale afferma che "alla persona superiore si deve il compenso dell'onore; e a quella indigente la rimunerazione". E Seneca scrive: "Molte sono le cose con le quali possiamo compensare le persone facoltose: consigli sinceri, visite frequenti, e conversazioni affabili e gioconde, senza adulazione". - Perciò non è necessario che uno si auguri la necessità o la miseria del suo benefattore, per poterlo ricompensare del beneficio. Poiché, a detta di Seneca, "se è già disumano desiderare una cosa simile per chi non ti ha fatto nessun beneficio; quanto più disumano sarebbe desiderarla per un tuo benefattore!".
Nel caso poi che il benefattore sia diventato cattivo, si deve tuttavia usargli riconoscenza secondo lo stato in cui si trova: e cioè si deve cercare di ricondurlo alla virtù. Se poi "è insanabile nella sua malizia", allora è diventato un altro rispetto a quello che era prima: e quindi non merita più riconoscenza per il beneficio. Tuttavia, per quanto è possibile e le circostanze lo permettono, si deve sempre ricordare il beneficio ricevuto, come nota il Filosofo.
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[43509] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 6 Ad sextum dicendum quod, sicut dictum est, recompensatio beneficii praecipue pendet ex affectu. Et ideo eo modo debet recompensatio fieri quo magis sit utilis, si tamen postea, per eius incuriam, in damnum ipsius vertatur, non imputatur recompensanti. Unde Seneca dicit, in VII de Benefic., reddendum mihi est, non servandum, cum reddidero, ac tuendum.
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[43509] IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 6
6. Il compenso, come si è già visto sopra, dipende specialmente dal sentimento di chi intende ringraziare. Perciò esso va fatto nel modo che possa essere più vantaggioso: ma se in seguito per colpa dell'interessato si risolve in un danno, non si può imputare a chi intendeva ricompensare. Di qui l'affermazione di Seneca: "Io sono tenuto a rendere un compenso, non già a conservarlo e a difenderlo".
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