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Se l'intelletto umano possa giungere a vedere Dio per essenza
Supplemento
Questione 92
Articolo 1
SEMBRA che l'intelletto umano non possa giungere a vedere Dio per essenza. Infatti:
1. Nel Vangelo si legge: "Dio non l'ha mai veduto nessuno". E il Crisostomo spiega che neppure gli spiriti celesti, ossia neppure i Cherubini e i Serafini, hanno mai potuto vederlo così com'è. Ora, agli uomini non è promessa che l'uguaglianza con gli angeli: "Saranno come gli angeli di Dio in cielo". Dunque neppure i santi in paradiso vedranno Dio per essenza.
2. Dionigi così argomenta nel De Divinis Nominibus. La conoscenza non ha altro oggetto che le cose esistenti. Ma ogni esistente è finito: essendo in qualche genere determinato. Perciò, Dio essendo infinito, è "sopra tutte le cose esistenti". Quindi egli non è oggetto di conoscenza, ma supera ogni conoscenza.
3. Nel De Mystica Theologia Dionigi dimostra che il modo più perfetto in cui la nostra intelligenza può unirsi a Dio sta nell'unirsi a lui come a uno sconosciuto. Invece quanto è veduto per essenza non è sconosciuto. Dunque è impossibile che il nostro intelletto possa vedere Dio per essenza.
4. Scrivendo al monaco Caio, Dionigi afferma che "le tenebre che coprono Dio", da lui denominate "sovrabbondanza di luce", "oscurano ogni lume e si nascondono a ogni conoscenza: e se uno vedendo Dio intende quello che vede, non vede lui, ma qualcuno dei suoi effetti". Perciò nessun intelletto creato potrà vedere Dio per essenza.
5. A Ieroteo inoltre egli scrive: "Dio rimane invisibile per l'eccesso del suo splendore". Ma il suo splendore come sorpassa l'intelligenza dell'uomo viatore, sorpassa anche quella dell'uomo che ha raggiunto la patria. Dio quindi, come è invisibile sulla terra sarà invisibile anche nella patria beata.
6. L'oggetto intelligibile, essendo la perfezione dell'intelletto, esige proporzione tra intelligibile e intelletto come tra l'oggetto visibile e la vista. Ora, non si scorge nessuna possibile proporzione tra l'intelletto nostro e l'essenza divina: perché sono distanti all'infinito. Perciò il nostro intelletto non può giungere a vedere l'essenza divina.
7. È più lontano Dio dal nostro intelletto che un oggetto intelligibile creato dal senso. Ma il senso in nessun modo può giungere a vedere una creatura spirituale. Dunque neppure il nostro intelletto potrà giungere a vedere l'essenza di Dio.
8. L'intelletto ogni qual volta intende attualmente un oggetto esige di assumere come forma l'immagine della cosa conosciuta, forma che diviene come il principio di quell'atto intellettivo determinato rispetto a quell'oggetto, come il calore è principio del riscaldamento. Perciò il nostro intelletto per intendere Dio dovrebbe essere attuato da un'immagine che informi l'intelletto stesso. Ora, questa non può essere la stessa essenza divina, perché tra forma e soggetto informato c'è unità di essere; e la divina essenza differisce dal nostro intelletto e nell'essenza e nell'essere.
Dunque è necessario che la forma informante il nostro intelletto nell'intendere Dio sia un'immagine, o somiglianza che Dio imprime nella nostra intelligenza. Ma codesta somiglianza, essendo qualche cosa di creato, non può condurre a conoscere Dio se non come un effetto rispetto alla sua causa. Dunque è impossibile che il nostro intelletto veda Dio, se non mediante i suoi effetti. Ma la visione di Dio dai suoi effetti non è visione di Dio per essenza. Quindi il nostro intelletto non potrà vedere Dio per essenza.
9. L'essenza divina è distante dal nostro intendimento più di qualsiasi angelo o intelligenza [creata]. Eppure, come dice Avicenna, la presenza di un'intelligenza angelica nel nostro intelletto non implica che la sua essenza sia nell'intelletto (perché allora la nostra conoscenza di tali intelligenze sarebbe una sostanza e non un accidente); ma implica che una specie impressa, o immagine dell'intelligenza suddetta, si trovi nel nostro intelletto.
Perciò neppure Dio è nel nostro intelletto: cosicché per essere conosciuto da noi è indispensabile una sua immagine in esso. Ma codesta immagine non può portare l'intelletto a conoscere l'essenza divina; perché distandone infinitamente degenererebbe in una specie intenzionale diversa, molto peggio che se l'immagine del bianco degenerasse nell'immagine del nero. Perciò, come colui nella cui vista il bianco si cambia in nero per l'indisposizione dell'organo non si può dire che veda il bianco, così il nostro intelletto, che conosce Dio solo mediante codesta immagine impressa, non potrà vedere Dio per essenza.
10. "Negli esseri separati dalla materia c'è identità tra chi intende e l'oggetto conosciuto", come spiega Aristotele. Ora, Dio è la realtà più lontana dalla materia. Perciò, non potendo l'intelletto creato giungere ad essere l'essenza increata, è impossibile che il nostro intelletto veda Dio per essenza.
11. Di tutto ciò che si vede per essenza si conosce la quiddità. Invece di Dio il nostro intelletto non è in grado di vedere "che cosa è", ma solo "ciò che non è", come si esprimono Dionigi e il Damasceno. Dunque il nostro intelletto non può vedere Dio per essenza.
12. "Ogni infinito in quanto infinito è sconosciuto". Ora, Dio è infinito in tutti i modi. Perciò è del tutto sconosciuto. Quindi non può essere conosciuto per essenza da un intelletto creato.
13. S. Agostino afferma: "Dio è nella sua natura invisibile". Ma le cose che appartengono a Dio per natura non possono essere diversamente. Dunque è impossibile che egli possa essere veduto per essenza.
14. Tutto ciò che apparisce diverso da quello che è, non è visto così com'è. Ora, in Dio il modo di essere non è il modo di esser veduto dai santi nella patria beata: infatti egli è secondo il proprio modo di essere, mentre è veduto dai santi secondo il loro modo di conoscere. Perciò egli non è veduto dai santi secondo il proprio modo di essere. E quindi non è veduto per essenza.
15. Ciò che è veduto attraverso un mezzo non è veduto per essenza. Ma nella patria Dio sarà veduto attraverso un mezzo, che è la luce della gloria, come è espresso dalle parole del Salmista: "Nella tua luce vedremo la luce". Dunque egli non sarà veduto per essenza.
16. Nella patria beata Dio sarà veduto "faccia a faccia", come dice S. Paolo. Ora, l'uomo che vediamo faccia a faccia lo vediamo mediante una sua immagine eidetica. Perciò in patria vedremo Dio mediante un'immagine. E quindi non per essenza.
IN CONTRARIO: 1. S. Paolo afferma: "Ora vediamo oscuramente come in uno specchio, allora invece lo vedremo faccia a faccia". Ma quel che vediamo faccia a faccia è veduto per essenza. Dunque nella patria Dio dai santi sarà veduto per essenza.
2. Sta scritto: "Quando apparirà saremo simili a lui, e lo vedremo cosi com'è". Quindi Dio lo vedremo per essenza.
3. A proposito di quel testo paolino, "Quando avrà consegnato il regno a Dio Padre", la Glossa spiega: "Là", ossia nella patria, "sarà veduta l'essenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: il che sarà concesso solo ai puri di cuore, e costituisce la beatitudine suprema". Perciò i beati vedranno Dio per essenza.
4. Nel Vangelo si legge: "Se uno mi ama, sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e gli manifesterò me stesso". Ora, quello che viene manifestato è visto per essenza. Dunque Dio in patria sarà veduto dai santi per essenza.
5. Nel commentare le parole dell'esodo: "Nessun uomo mi vedrà, e poi rimarrà vivo", S. Gregorio respinge l'opinione di coloro i quali affermavano che "nella regione della beatitudine sarà possibile vedere Dio nella sua chiarezza, ma non nella sua natura", perché "la sua chiarezza altro non è che la sua natura". Ma la natura di Dio non è che la sua essenza. Quindi egli sarà veduto per essenza.
6. È assolutamente impossibile che venga frustrato il desiderio dei santi. Ma è comune desiderio dei santi vedere Dio per essenza; infatti nell'Esodo si legge: "Mostrami la tua gloria"; nei Salmi: "Mostraci la tua faccia e avremo la salvezza"; e nel Vangelo: "Mostraci il Padre e ci basta". Dunque i santi dovranno vedere Dio per essenza.
RISPONDO: Come noi, in conformità con la fede, affermiamo che l'ultimo fine della vita umana è la visione di Dio, così i filosofi hanno affermato che l'ultima felicità dell'uomo è intendere le sostanze separate, nel loro essere, dalla materia. Perciò nella questione presente si riscontrano le stesse difficoltà e varietà di opinioni, sia presso i filosofi che presso i teologi. Ebbene, alcuni filosofi pensarono che il nostro intelletto possibile non possa mai giungere a intendere le sostanze separate: tale è l'affermazione di Alfarabi al termine della sua Etica; sebbene altrove dica il contrario, come riferisce Averroè. Parimente alcuni teologi ritennero che l'intelletto umano non possa mai giungere a vedere Dio per essenza. Gli uni e gli altri furono spinti a questo dalla distanza esistente tra l'intelletto nostro e l'essenza divina, o le altre sostanze separate. "L'intelletto in atto", essendo infatti in qualche modo un'unica cosa con "l'intelligibile in atto", sembra difficile che un intelletto creato diventi in qualche modo l'essenza increata. Di qui le parole del Crisostomo: "In che modo un essere creato vedrà l'increato?". - La difficoltà è anche maggiore per coloro che ritengono l'intelletto possibile soggetto alla generazione e alla corruzione, quale facoltà dipendente dal corpo, non solo rispetto alla visione dell'essenza divina, ma rispetto alla visione di qualsiasi sostanza separata.
Quest'ultima opinione però è del tutto insostenibile. Primo, perché incompatibile con i testi della sacra Scrittura, come notava già S. Agostino. - Secondo, perché essendo l'intellezione l'operazione più propria e specifica dell'uomo, è necessario che in base ad essa ne venga determinata la beatitudine, quando cioè l'intellezione raggiunge in lui la perfezione. Ora, poiché la perfezione di chi intende sia in quanto tale l'oggetto stesso intelligibile, se nella sua operazione intellettiva più perfetta l'uomo non giungesse a vedere l'essenza divina, ma un altro oggetto, bisognerebbe dire che a rendere beato l'uomo sia codesto oggetto e non Dio.
E poiché l'ultima perfezione di ogni essere consiste nel ricongiungersi al proprio principio, che bisognerà dire che principio efficiente dell'uomo sia stato non Dio, ma un altro essere. Cosa questa assurda per noi. Così pure è assurda per i filosofi i quali ritengono che le nostre anime emanino dalle sostanze separate, delle quali in fine possiamo avere l'intellezione. Perciò secondo noi [credenti] è necessario ammettere che il nostro intelletto finalmente giungerà a vedere l'essenza divina; e secondo i filosofi giungerà a vedere l'essenza delle sostanze separate.
Rimane ora da indagare come ciò possa essere. Alcuni infatti, come Alfarabi ed Avampace affermano che dal momento che il nostro intelletto intende tutto ciò che è intelligibile, deve giungere a vedere l'essenza delle sostanze separate. E per dimostrarlo usano due argomentazioni. La prima parte dal fatto che, come la natura specifica non viene suddivisa nei diversi individui, se non in quanto viene a combinarsi con i principii individuanti, così la forma percepita intellettualmente dall'uomo non è diversa in me e in te, se non in quanto è legata alle diverse forme immaginative [di ciascuno]. Perciò quando l'intelletto astrae la forma intelligibile dalle forme immaginative, non rimane che la quiddità intellettiva astratta, la quale è una e identica per tutti i soggetti dotati d'intelligenza. Tale è la quiddità delle sostanze separate. Quando perciò il nostro intelletto raggiunga il massimo di astrazione per qualsiasi quiddità intelligibile, viene a intendere per ciò stesso la quiddità della sostanza separata che è simile ad essa. - La seconda argomentazione insiste nel sottolineare che il nostro intelletto è fatto per astrarre la quiddità da tutti gli esseri intellegibili che la possiedono. Se dunque la quiddità che esso astrae da questo singolare che la possiede è già una quiddità in se stessa, nell'intenderla non si fa che percepire la quiddità di una sostanza separata dotata di tale modo di essere: poiché le sostanze separate sono quiddità sussistenti prive di quiddità.
Infatti, come dice Avicenna, "la quiddità di ciò che è semplice è il semplice stesso". Se invece la quiddità astratta da questo particolare essere sensibile è una quiddità dotata di quiddità, l'intelletto è fatto per astrarla. E allora, siccome non si può procedere all'infinito, si dovrà giungere a una quiddità priva di quiddità, mediante la quale si viene a intendere la quiddità separata.
Ma queste spiegazioni non sembrano sufficienti. Primo, perché la quiddità delle sostanze materiali che l'intelletto astrae non ha la stessa natura delle quiddità delle sostanze separate. E per il fatto che il nostro intelletto astrae le quiddità delle cose materiali e le conosce, non ne segue che conosca la quiddità di una sostanza separata, e soprattutto dell'essenza divina, che ha una natura del tutto diversa da qualsiasi quiddità creata. - Secondo, dato anche che avessero in comune una stessa natura, tuttavia conoscendo la quiddità di una cosa composta non si verrebbe a conoscere la quiddità di una sostanza separata, se non secondo il genere remotissimo che è la sostanza. Ora, tale conoscenza è imperfetta, se non si giunge ai dati propri di quel dato oggetto: chi infatti conosce l'uomo solo in quanto animale, lo conosce solo in modo parziale e potenziale, e molto meno lo conoscerebbe se ne conoscesse solo la sua natura di sostanza. Perciò conoscere Dio o le altre sostanze separate in tal modo, non significa vedere l'essenza divina, o la quiddità delle sostanze separate: ma significa conoscerli dagli effetti, e quasi "in uno specchio".
Ecco perché Avicenna ha escogitato un'altra via per intendere le sostanze separate: queste cioè sarebbero conosciute intellettualmente da noi mediante intenzioni o idee che rispecchiano la loro quiddità, e che sono immagini di esse, non astratte, perché si tratta di realtà in se stesse immateriali, ma impresse dalle sostanze stesse nelle nostre anime.
Ma anche questa spiegazione non ci sembra sufficiente per giungere alla visione di Dio, di cui ci stiamo interessando. È infatti evidente che "tutto ciò che si riceve è ricevuto alla maniera del recipiente". Perciò la somiglianza dell'essenza divina che viene impressa nel nostro intelletto, sarà adeguata alla maniera del nostro intelletto. Ora, quest'ultima è inadeguata alla recezione perfetta della somiglianza divina. D'altra parte questa inadeguatezza può dipendere da tutti quei motivi che possono provocare una dissomiglianza. La somiglianza prima di tutto è inadeguata quando la forma viene partecipata secondo l'identica natura della specie, ma non secondo il medesimo grado di perfezione: la somiglianza nella bianchezza, p. es., è inadeguata in un soggetto dotato di poca bianchezza rispetto a quello che è molto bianco.
Si ha poi una inadeguatezza anche maggiore, quando non si raggiunge l'identica natura specifica, ma solo quella generica; cioè come la somiglianza esistente tra colui che ha il colore del limone e chi ha il colore bianco. C'è finalmente un grado sommo di inadeguatezza, quando l'identità generica è raggiunta solo secondo un'analogia: ossia come c'è somiglianza tra la bianchezza e l'uomo per il fatto che entrambi sono enti. Ebbene, in quest'ultimo modo è inadeguata qualsiasi somiglianza che si riscontra nella creatura rispetto all'essenza divina. Ora, la vista per conoscere il bianco è necessario che riceva la somiglianza, o immagine del bianco secondo la natura specifica del bianco (sebbene non secondo l'identico modo di essere, poiché la forma nel senso ha un modo di essere diverso da quello esistente nelle cose fuori del soggetto); se infatti si producesse nell'occhio la forma del giallo, non si potrebbe dire che l'occhio vede la bianchezza. Parimente, affinché l'intelletto possa intendere una quiddità, bisogna che si produca in esso una somiglianza dell'identica natura specifica: sebbene il modo di essere non sia identico. Infatti la forma esistente nell'intelletto o nel senso è principio di conoscenza non secondo il medesimo modo di essere, ma secondo la natura o ragione, che codesta forma ha in comune con la realtà esterna. È quindi evidente che attraverso nessuna immagine ricevuta in un intelletto creato Dio può essere conosciuto in modo da potersi vedere immediatamente la sua essenza. Ecco perché alcuni, pur ammettendo che Dio è visibile in codesto modo, hanno affermato che si avrà la visione non dell'essenza divina, ma di un fulgore o di un raggio della medesima. Quindi neppure questo basta per la visione di Dio di cui stiamo trattando.
Perciò si deve accettare un'altra spiegazione, escogitata anche da alcuni filosofi, quali Alessandro [di Afrodisia] ed Averroè. Posto che in qualsiasi cognizione è necessaria una forma mediante la quale l'oggetto viene conosciuto o visto, codesta forma, con la quale l'intelletto è in grado di vedere le sostanze separate, non è certamente la quiddità che l'intelletto astrae dalle cose composte, come diceva la prima opinione; e neppure è un'impronta lasciata nell'intelletto nostro dalla sostanza separata, come diceva la seconda; ma è la stessa sostanza separata che viene a unirsi al nostro intelletto come forma, in modo che essa sia insieme l'oggetto e il mezzo col quale si compie codesta intellezione. Checché ne sia delle altre sostanze separate, tuttavia noi dobbiamo accettare tale spiegazione nel caso della visione di Dio per essenza: perché, se il nostro intelletto venisse informato con qualsiasi altra forma, non potrebbe giungere con essa a percepire l'essenza divina.
Questo però non deve intendersi nel senso che l'essenza divina diventi realmente la forma propria del nostro intelletto; oppure nel senso che l'unione di essa col nostro intelletto costituisca un'unica realtà in senso assoluto, come avviene nel mondo fisico per l'unione tra materia e forma. Poiché, ogni qualvolta due cose di cui l'una è più perfetta dell'altra vengono ricevute nel medesimo supposito, il loro rapporto, cioè la relazione tra la più perfetta e la meno perfetta, è come il rapporto tra materia e forma. Luce e colore, p. es., vengono ricevuti insieme in un corpo diafano: ebbene, la luce sta al colore come la forma sta alla materia. Analogamente, quando nell'anima vengono insieme ricevute la luce intellettuale e l'essenza stessa di Dio che inabita in essa, sebbene secondo gradi diversi, l'essenza divina sta all'intelletto come la forma sta alla materia.
E che ciò basti a che l'intelletto mediante l'essenza divina sia in grado di vedere codesta essenza medesima, si può spiegare nel modo seguente. Come dalla materia e da una forma di ordine fisico in forza della quale un corpo riceve l'esistenza, risulta una realtà unica in senso assoluto, così dalla forma con cui l'intelletto conosce e l'intelletto medesimo risulta una realtà unica come atto conoscitivo. Ora, nel mondo fisico una realtà per sé sussistente non può esser forma di una materia, se codesta realtà è già composta di materia: perché è impossibile che la materia sia forma di un qualsiasi essere. Se invece la realtà per sé sussistente è forma soltanto, niente impedisce che possa diventare forma di qualche materia, ed elemento costitutivo di un composto, come è evidente nel caso dell'anima umana. Ebbene, nell'intellezione si deve considerare come materia l'intelletto stesso in potenza, come forma la specie intelligibile, e l'intelletto in atto sarà allora come il loro composto. Se quindi esiste una realtà per sé sussistente, la quale non abbia in se stessa niente all'infuori di quanto in essa è intelligibile, tale realtà potrà fungere da forma mediante la quale si ha l'intellezione. Ora, ogni cosa è intelligibile per quanto è in atto, non per quanto in essa c'è di potenzialità, come spiega Aristotele: segno di ciò è il fatto che la forma intelligibile va astratta dalla materia e da tutte le proprietà della materia. Perciò l'essenza divina, essendo puro atto, potrà essere la forma con la quale l'intelletto compie l'intellezione. E questa sarà appunto la visione beatifica. Ecco perché il Maestro afferma nelle Sentenze, che l'unione tra l'anima e il corpo è un'"analogia dell'unione beata in cui lo spirito si unirà a Dio".
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quel testo evangelico, come nota S. Agostino, può essere spiegato in tre modi. Primo, in maniera da escludere la visione corporea, con la quale nessuno ha mai visto Dio, o vedrà nella sua essenza. - Secondo, in modo da escludere la visione intellettiva di Dio per essenza, da parte di coloro che vivono questa vita mortale. - Terzo, in modo da escludere la visione di comprensione da parte di un intelletto creato.
Ed è così che lo interpreta il Crisostomo. Egli infatti aggiunge: "Per conoscenza qui" l'Evangelista "intende tutta quella percezione e comprensione certissima che il Padre ha del Figlio". E questo è il senso inteso dall'Evangelista, il quale aggiunge: "L'unigenito che è nel seno del Padre..."; volendo così dimostrare dalla visione comprensiva ed esauriente, che il Figlio è Dio.
2. Dio, come con la sua essenza infinita sorpassa tutte le cose esistenti che hanno un essere determinato, così con la sua conoscenza sorpassa qualsiasi cognizione. Perciò tra la conoscenza di Dio e la sua cognizione c'è lo stesso rapporto che c'è tra la nostra conoscenza e gli enti creati. Ora, alla conoscenza concorrono due cose: il soggetto conoscente e il mezzo col quale conosce. Ebbene, la visione con la quale vedremo Dio per essenza quanto al mezzo conoscitivo è identica a quella con la quale Dio vede se stesso: poiché come egli vede se stesso mediante la propria essenza, così lo vedremo anche noi. Ma quanto al soggetto conoscitivo c'è la differenza che passa tra l'intelletto divino e il nostro. Nell'atto conoscitivo però ciò che si conosce dipende dalla forma mediante la quale si conosce, poiché è mediante la forma o immagine della pietra che vediamo la pietra; l'efficacia invece di codesto atto dipende dalla virtù del soggetto conoscente, cosicché chi ha una vista più acuta vede più distintamente. Perciò nella visione suddetta noi vedremo ciò che Dio vede, cioè la sua essenza, però non la vedremo con la medesima efficacia.
3. In quel testo Dionigi parla della conoscenza che di Dio noi abbiamo nella vita presente mediante una qualche immagine creata, di cui il nostro intelletto si serve per conoscerlo. Ora, come nota S. Agostino, Dio sfugge a qualsiasi immagine del nostro intelletto: perché qualunque immagine questo concepisca, non può questa raggiungere l'intima natura dell'essenza divina. Perciò Dio non può essere alla portata del nostro intelletto: ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che l'intelletto nostro è capace di concepire; cosicché ci uniamo a lui come a uno sconosciuto. Ma nella patria beata vedremo Dio mediante la forma che è la sua stessa essenza, e ci uniremo a lui come a uno che si conosce.
4. Secondo l'espressione evangelica, "Dio è luce". Il lume invece è piuttosto il riflesso della luce su di un soggetto illuminato. E poiché l'essenza divina è d'altro genere rispetto a qualsiasi sua immagine impressa nell'intelletto, Dionigi afferma che "le tenebre divine oscurano ogni lume": questo perché l'essenza divina, che egli denomina tenebra per l'eccesso del suo splendore, rimane inevidente attraverso l'immagine che può riceverne l'intelletto nostro. Di qui segue che "si nasconde a ogni cognizione". Perciò chiunque nel vedere Dio concepisce mentalmente qualche cosa, questo qualcosa non è Dio, ma uno degli effetti di Dio.
5. Sebbene lo splendore di Dio sorpassi ogni immagine che informa attualmente l'intelletto, non sorpassa però l'essenza stessa di Dio, che nella patria beata avrà la funzione di forma per il nostro intelletto. Ecco perché, sebbene adesso codesta essenza sia invisibile, allora sarà visibile.
6. Anche se tra finito e infinito non ci può essere proporzione, perché l'eccedenza dell'infinito sul finito non è determinata, tuttavia può esserci tra loro proporzionalità, che è una somiglianza tra proporzioni: infatti come il finito sta a qualche cosa di finito, cosi l'infinito sta all'infinito. Ora, perché una cosa sia totalmente conosciuta talora si richiede che ci sia proporzione tra conoscente e conosciuto: perché la virtù del soggetto conoscente dev'essere adeguata alla conoscibilità dell'oggetto; e l'uguaglianza è appunto una proporzione. Talora invece la conoscibilità dell'oggetto è proporzionata alla virtù del soggetto conoscente, come quando noi conosciamo Dio; o al contrario come quando Dio conosce le creature. In tal caso non è necessario che ci sia proporzione tra conoscente e conosciuto, ma basta una proporzionalità: in modo cioè che il soggetto conoscente stia alla capacità di conoscere, come il soggetto conoscibile sta alla sua capacità di essere conosciuto. E tale proporzionalità è sufficiente perché l'infinito sia conosciuto dal finito, e viceversa.
Oppure si può rispondere che il termine proporzione secondo la sua accezione originaria indica il rapporto di una quantità all'altra, secondo un determinato scarto o una determinata adeguazione; ma in seguito è passato a indicare un rapporto qualsiasi esistente tra una cosa e un'altra. In tal senso si dice, p. es., che la materia deve essere proporzionata alla forma. Ebbene, in tal senso niente impedisce che il nostro intelletto, sebbene finito, possa dirsi proporzionato alla visione dell'essenza divina: non però ad averne la comprensione, data la sua immensità.
7. Ci sono due tipi di somiglianza e di lontananza. La prima basata sull'affinità di natura. E in base a questa è più lontano Dio dall'intelletto creato di quanto un intelligibile creato non sia lontano dal senso. - La seconda è basata su di una proporzionalità. E allora si riscontra il contrario: perché il senso non ha nessuna proporzione a conoscere un oggetto immateriale, mentre l'intelletto è proporzionato a conoscere qualunque realtà immateriale. Ed è questa affinità che si richiede per conoscere, e non la prima: poiché è evidente che nell'intendere la pietra l'intelletto non diviene simile alla pietra secondo il suo essere fisico. Del resto anche la vista percepisce sia il miele che il fiele di colore rossiccio, mentre non può percepire il primo come dolce; questo perché rispetto alla vista il colore del fiele è più affine al miele, di quanto la dolcezza del miele non sia affine al miele stesso.
8. Nella visione di Dio per essenza l'essenza divina stessa sarà come la forma, o l'immagine mediante la quale l'intelletto compirà il proprio atto. Né per questo tale forma verrà a costituire con l'intelletto un unico essere in senso assoluto: ma saranno un'unica cosa con esso solo rispetto all'atto d'intellezione.
9. In questo non possiamo accettare l'affermazione di Avicenna: perché anche altri filosofi ne respingono l'opinione. A meno che non si voglia dire che Avicenna intendeva parlare della conoscenza delle sostanze separate, che si ha mediante gli abiti delle scienze speculative, ricavandole dalle immagini di altre cose. Ecco perché si serve di questo argomento per dimostrare che il sapere in noi non è sostanza, ma accidente.
Dopo tutto però l'essenza divina, pur essendo più lontana dal nostro intelletto, secondo la sua propria natura, che la sostanza dell'angelo, tuttavia è superiore a questa quanto a intelligibilità: perché è atto puro, senza nessuna mescolanza di potenzialità, il che non si riscontra nelle altre sostanze separate. Né la cognizione in cui vedremo Dio per essenza sarà un accidente da parte dell'oggetto che vedremo; ma solo da parte dell'atto del soggetto conoscente, il quale non sarà la sostanza stessa né del conoscente né del suo oggetto d'intellezione.
10. Una sostanza separata dalla materia ha l'intellezione di sé e delle altre cose: e in tutti e due i casi si riscontra la verità dell'affermazione riferita. Infatti l'essenza delle sostanze separate, essendo per se stessa intelligibile in atto, perché separata dalla materia, è evidente che quando codeste sostanze intendono se stesse, c'è identità perfetta tra il soggetto intellettivo e il suo oggetto: perché esse non intendono mediante un'idea astratta da loro, così come intendiamo noi le cose materiali. Questo perciò sembra il significato di quel testo del Filosofo.
In quanto poi esse intendono le altre cose l'oggetto intelligibile in atto è identico con l'intelligenza in atto, in quanto la forma dell'oggetto concepito diventa la forma dell'intelligenza nella sua attualità, ma ciò non nel senso che sia l'essenza medesima dell'intelletto, come nota Avicenna; poiché l'essenza dell'intelletto rimane unica sotto due forme nell'intendere successivamente due cose, esattamente come la materia prima rimane unica sotto le diverse forme [successive]. Ecco perché Averroè in questo paragona l'intelletto possibile alla materia prima. Quindi non segue in nessuna maniera che il nostro intelletto nel vedere Dio debba diventare l'essenza divina: ma che l'essenza divina sarà per esso come la sua perfezione e la sua forma.
11. I testi cui si accenna, e tutti gli altri consimili, vanno riferiti alla conoscenza che abbiamo di Dio nella vita presente, per le ragioni già esposte.
12. L'infinito in senso privativo è in quanto tale sconosciuto: poiché una cosa è detta infinita in tal senso per l'eliminazione di ciò che le dà completezza e quindi conoscibilità. Cosicché codesto infinito si riduce alla materia soggetta alla privazione, come spiega Aristotele. - Ma l'infinito in senso negativo va concepito mediante eliminazione di ogni materia coartante: perché anche la forma viene in qualche modo delimitata dalla materia. Ecco perché questo infinito di suo è sommamente conoscibile. E Dio è un infinito di questo genere.
13. S. Agostino parla della visibilità corporale, che non potrà mai essere attribuita a Dio. Ciò è evidente dal testo che precede "Nessuno ha mai veduto Dio nella maniera che vediamo e denominiamo le cose visibili; egli è per natura invisibile come è incorruttibile". Però come per natura egli è sommamente ente, così di suo è sommamente intelligibile: ma che talora non sia conosciuto da noi dipende dalla nostra incapacità. Il fatto quindi che egli venga veduto da noi dopo un periodo d'invisibilità dipende da una mutazione non da parte sua, ma da parte nostra.
14. Nella patria beata Dio sarà visto dai santi "così com'è", se l'espressione si riferisce al modo di essere dell'oggetto veduto: infatti egli sarà veduto dai santi in possesso del modo di essere che possiede. Se invece il modo di essere viene riferito all'intensità del soggetto conoscente, allora egli non sarà veduto così com'è: perché l'efficacia dell'intelletto creato non sarà tanta quanta è l'efficacia dell'essenza divina nella sua intelligibilità.
15. Nella visione sia corporale che intellettuale si riscontrano tre tipi di mezzo. Il primo è il mezzo sotto la cui luce si vede. E questo è quello che prepara la vista a vedere in generale, senza determinare la vista a uno speciale oggetto: ossia svolge le funzioni che la luce materiale assolve nella visione corporale, e la luce dell'intelletto agente nei riguardi dell'intelletto possibile. - Il secondo mezzo è quello mediante il quale si vede, e questo è la forma o immagine visiva con la quale i due tipi di vista vengono determinati a uno speciale oggetto: mediante l'immagine della pietra, p. es., uno è determinato a conoscere la pietra. - Il terzo tipo è il mezzo nel quale si vede una data cosa. E questo è quel dato mediante la cui percezione la vista è condotta a conoscere un'altra cosa: guardando uno specchio, p. es., uno giunge a conoscere le cose in esso rappresentate, oppure da una sua immagine uno è portato a conoscere la cosa rappresentata. In tal senso appunto l'intelletto attraverso la conoscenza degli effetti raggiunge la causa, o viceversa.
Ebbene, nella patria beata non avremo il terzo tipo di mezzo, col quale si conosce Dio mediante le specie intenzionali delle altre cose, come lo conosciamo adesso mediante la ragione che appunto lo conosce come "in uno specchio". - E neppure ci sarà il secondo: poiché sarà mediante l'essenza divina stessa che il nostro intelletto vedrà Dio. - Ma allora ci sarà solo il primo tipo di mezzo, il quale eleverà il nostro intelletto in modo da potersi unire alla sostanza increata nel modo che abbiamo detto. Ma per codesto mezzo la conoscenza non si dice mediata: perché esso non s'interpone tra il soggetto conoscente e l'oggetto, ma è quello che da al soggetto la capacità di conoscere.
16. Delle creature corporali non si dice che vengono vedute immediatamente, se non quando viene a unirsi con la vista quanto in esse può unirsi con essa. Esse però non possono unirsi così con la loro essenza, a motivo della loro materialità. Perciò allora sono veduti immediatamente, quando la loro immagine eidetica viene a congiungersi con l'intelletto. Dio invece può unirsi all'intelletto mediante la propria essenza. Egli quindi non viene veduto immediatamente, se la sua essenza non si unisce all'intelletto. E solo tale visione immediata può dirsi "a faccia a faccia".
Inoltre l'immagine di una cosa corporea viene ricevuta nella vista secondo la natura specifica che ha nella realtà, sia pure secondo un diverso modo di essere: perciò codesta immagine porta direttamente a conoscere quella data cosa. Invece nessuna immagine è in grado di portare la nostra intelligenza a una simile cognizione di Dio, come risulta da quanto abbiamo detto. Perciò il paragone non regge.
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