I, 107

Parte prima > La derivazione delle creature da Dio > Gli angeli > La locuzione degli angeli


Prima pars
Quaestio 107
Prooemium

[32886] Iª q. 107 pr.
Deinde considerandum est de locutionibus Angelorum. Et circa hoc quaeruntur quinque.
Primo, utrum unus Angelus loquatur alii.
Secundo, utrum inferior superiori.
Tertio, utrum Angelus Deo.
Quarto, utrum in locutione Angeli aliquid distantia localis operetur.
Quinto, utrum locutionem unius Angeli ad alterum omnes cognoscant.

 
Prima parte
Questione 107
Proemio

[32886] Iª q. 107 pr.
Consideriamo adesso la locuzione degli angeli.
Esamineremo cinque punti:

1. Se un angelo parli con l'altro;
2. Se l'angelo inferiore parli a quello superiore;
3. Se l'angelo parli a Dio;
4. Se la distanza locale influisca sul parlare degli angeli;
5. Se il parlare di un angelo con l'altro sia conosciuto da tutti.




Parte prima > La derivazione delle creature da Dio > Gli angeli > La locuzione degli angeli > Se un angelo parli con l'altro


Prima pars
Quaestio 107
Articulus 1

[32887] Iª q. 107 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod unus Angelus alteri non loquatur. Dicit enim Gregorius, XVIII Moral., quod in statu resurrectionis uniuscuiusque mentem ab alterius oculis membrorum corpulentia non abscondit. Multo igitur minus mens unius Angeli absconditur ab altero. Sed locutio est ad manifestandum alteri quod latet in mente. Non igitur oportet quod unus Angelus alteri loquatur.

 
Prima parte
Questione 107
Articolo 1

[32887] Iª q. 107 a. 1 arg. 1
SEMBRA che un angelo non parli con l'altro. Infatti:
1. Dice S. Gregorio che nello stato di resurrezione "la corporeità delle membra non nasconde la mente dell'uno agli occhi dell'altro". Molto meno dunque la mente d'un angelo può essere nascosta all'altro. Ma il parlare ha lo scopo di manifestare agli altri quel che è nascosto nella mente. Non v'è dunque bisogno che un angelo parli all'altro.

[32888] Iª q. 107 a. 1 arg. 2
Praeterea, duplex est locutio, interior, per quam aliquis sibi ipsi loquitur; et exterior, per quam aliquis loquitur alteri. Exterior autem locutio fit per aliquod sensibile signum, puta voce vel nutu vel aliquo corporis membro, puta lingua vel digito, quae Angelis competere non possunt. Ergo unus Angelus alteri non loquitur.

 

[32888] Iª q. 107 a. 1 arg. 2
2. Si parla in due modi: interiormente, con se stessi; esteriormente, con gli altri. Questo secondo modo si compie, o per mezzo di segni sensibili, quali la voce e il gesto, o per mezzo di organi corporei, quali la lingua e le dita: tutte cose che gli angeli non possono avere. Quindi un angelo non parla con l'altro.

[32889] Iª q. 107 a. 1 arg. 3
Praeterea, loquens excitat audientem ut attendat suae locutioni. Sed non videtur per quid unus Angelus excitet alium ad attendendum, hoc enim fit apud nos aliquo sensibili signo. Ergo unus Angelus non loquitur alteri.

 

[32889] Iª q. 107 a. 1 arg. 3
3. Chi sta per parlare, eccita prima l'attenzione di chi deve ascoltare. Ma non si vede con quale mezzo un angelo potrebbe eccitare l'attenzione d'un altro angelo: giacché questo, tra noi uomini, si fa mediante segni sensibili. Quindi un angelo non parla con l'altro.

[32890] Iª q. 107 a. 1 s. c.
Sed contra est quod dicitur I Cor. XIII, si linguis hominum loquar et Angelorum.

 

[32890] Iª q. 107 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: "Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli".

[32891] Iª q. 107 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod in Angelis est aliqua locutio, sed, sicut dicit Gregorius II Moral., dignum est ut mens nostra, qualitatem corporeae locutionis excedens, ad sublimes atque incognitos modos locutionis intimae suspendatur. Ad intelligendum igitur qualiter unus Angelus alii loquatur, considerandum est quod, sicut supra diximus cum de actibus et potentiis animae ageretur, voluntas movet intellectum ad suam operationem. Intelligibile autem est in intellectu tripliciter, primo quidem, habitualiter, vel secundum memoriam, ut Augustinus dicit; secundo autem, ut in actu consideratum vel conceptum; tertio, ut ad aliud relatum. Manifestum est autem quod de primo gradu in secundum transfertur intelligibile per imperium voluntatis, unde in definitione habitus dicitur, quo quis utitur cum voluerit. Similiter autem et de secundo gradu transfertur in tertium per voluntatem, nam per voluntatem conceptus mentis ordinatur ad alterum, puta vel ad agendum aliquid, vel ad manifestandum alteri. Quando autem mens convertit se ad actu considerandum quod habet in habitu, loquitur aliquis sibi ipsi, nam ipse conceptus mentis interius verbum vocatur. Ex hoc vero quod conceptus mentis angelicae ordinatur ad manifestandum alteri, per voluntatem ipsius Angeli, conceptus mentis unius Angeli innotescit alteri, et sic loquitur unus Angelus alteri. Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptum mentis alteri manifestare.

 

[32891] Iª q. 107 a. 1 co.
RISPONDO: Esiste una locuzione negli angeli; "è necessario però", come osserva S. Gregorio, "che la mente nostra si elevi al di sopra delle condizioni del parlare materiale e consideri i sublimi e occulti modi del parlare interiore". Per capire dunque in che modo un angelo parli all'altro, bisogna ricordare, come abbiamo detto precedentemente, trattando degli atti e delle potenze dell'anima, che è la volontà a muovere l'intelletto alla sua operazione. Ora l'oggetto intelligibile si trova nell'intelletto in tre modi: primo, sotto forma di abito, cioè come oggetto della memoria, conforme all'insegnamento di S. Agostino; secondo, come oggetto del pensiero attuale; terzo, come riferito ad altro. È chiaro poi che il passaggio dell'oggetto dal primo modo al secondo si compie dietro il comando della volontà: tanto è vero che nella definizione dell'abito si dice: "del quale uno usa quando vuole". Sempre per mezzo della volontà si compie il passaggio dal secondo modo al terzo: è per mezzo della volontà, infatti, che il concetto della mente viene riferito ad altro, vale a dire, o all'operazione da compiere, o alla manifestazione di esso ad altri. - Ora, quando la mente si applica a considerare quello che possiede in maniera abituale, si dice che uno parla a se stesso: infatti il concetto della mente viene chiamato parola interiore. Quando poi l'idea d'una mente angelica viene ordinata dalla rispettiva volontà ad essere manifestata a un altro, essa viene ad essere conosciuta dall'altro: e così un angelo parla all'altro. Parlare, infatti, è lo stesso che manifestare agli altri i propri pensieri.

[32892] Iª q. 107 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod in nobis interior mentis conceptus quasi duplici obstaculo clauditur. Primo quidem, ipsa voluntate, quae conceptum intellectus potest retinere interius, vel ad extra ordinare. Et quantum ad hoc, mentem unius nullus alius potest videre nisi solus Deus; secundum illud I Cor. II, quae sunt hominis, nemo novit nisi spiritus hominis, qui in ipso est. Secundo autem clauditur mens hominis ab alio homine per grossitiem corporis. Unde cum etiam voluntas ordinat conceptum mentis ad manifestandum alteri, non statim cognoscitur ab alio, sed oportet aliquod signum sensibile adhibere. Et hoc est quod Gregorius dicit, II Moral., alienis oculis intra secretum mentis, quasi post parietem corporis stamus, sed cum manifestare nosmetipsos cupimus, quasi per linguae ianuam egredimur, ut quales sumus intrinsecus, ostendamus. Hoc autem obstaculum non habet Angelus. Et ideo quam cito vult manifestare suum conceptum, statim alius cognoscit.

 

[32892] Iª q. 107 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. In noi, il concetto interiore della mente è come racchiuso da un doppio ostacolo. Il primo ostacolo è costituito dalla stessa volontà che ha il potere di ritenere internamente quel concetto o di indirizzarlo al di fuori. E sotto questo aspetto, nessuno, ad eccezione di Dio, può vedere la mente di un altro, come scrive S. Paolo: "Nessuno tra gli uomini conosce le cose dell'uomo, tranne lo spirito dell'uomo che è in lui". - Il secondo ostacolo è costituito dalla materialità del corpo. Di qui avviene che, anche quando la volontà ha ordinato il concetto della mente a essere manifestato a un altro, esso non è subito conosciuto dall'altro, ma si richiedono dei segni sensibili. A questo proposito scrive S. Gregorio: "Per gli occhi estranei noi stiamo nel segreto della mente quasi come dietro le pareti del corpo: ma se desideriamo manifestarci, usciamo fuori quasi passando per la porta della lingua, per mostrarci quali siamo internamente". Ora, l'angelo non ha un tale ostacolo. Quindi, appena egli ha determinato di manifestare il suo pensiero, l'altro lo conosce all'istante.

[32893] Iª q. 107 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod locutio exterior quae fit per vocem, est nobis necessaria propter obstaculum corporis. Unde non convenit Angelo, sed sola locutio interior; ad quam pertinet non solum quod loquatur sibi interius concipiendo, sed etiam quod ordinet per voluntatem ad alterius manifestationem. Et sic lingua Angelorum metaphorice dicitur ipsa virtus Angeli, qua conceptum suum manifestat.

 

[32893] Iª q. 107 a. 1 ad 2
2. Il parlare esteriore, che si effettua mediante la voce, a noi è necessario per superare l'ostacolo del corpo. Esso perciò non conviene all'angelo, ma a lui conviene solo il parlare interiore; e questo si effettua non soltanto col parlare a se stessi pensando, ma anche con l'indirizzare, per mezzo della volontà, il proprio pensiero agli altri. Quindi la lingua degli angeli metaforicamente non è che la virtù dell'angelo con la quale egli manifesta il suo pensiero.

[32894] Iª q. 107 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod, quantum ad Angelos bonos, qui semper se invicem vident in verbo, non esset necessarium ponere aliquid excitativum, quia sicut unus semper videt alium, ita semper videt quidquid in eo est ad se ordinatum. Sed quia etiam in statu naturae conditae sibi invicem loqui poterant, et mali Angeli etiam nunc sibi invicem loquuntur; dicendum est quod, sicut sensus movetur a sensibili, ita intellectus movetur ab intelligibili. Sicut ergo per signum sensibile excitatur sensus, ita per aliquam virtutem intelligibilem potest excitari mens Angeli ad attendendum.

 

[32894] Iª q. 107 a. 1 ad 3
3. Quanto agli angeli buoni, che sempre si vedono reciprocamente nel Verbo, non ci sarebbe bisogno di porre un mezzo per eccitarne l'attenzione: poiché, come l'uno vede sempre l'altro, così in esso vede sempre tutto ciò che a lui rivolge. Ma siccome gli angeli potevano parlarsi anche nello stato di natura, e gli angeli malvagi si parlano tuttora, si deve rispondere che, come il senso è mosso dall'oggetto sensibile, così l'intelletto viene mosso da quello intelligibile. Quindi, come il senso viene eccitato mediante un segno sensibile, così la mente dell'angelo può essere eccitata all'attenzione mediante una qualche virtù intellettiva.




Parte prima > La derivazione delle creature da Dio > Gli angeli > La locuzione degli angeli > Se l'angelo inferiore parli a quello superiore


Prima pars
Quaestio 107
Articulus 2

[32895] Iª q. 107 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod inferior Angelus superiori non loquatur. Quia super illud I Cor. XIII, si linguis hominum loquar et Angelorum, dicit Glossa quod locutiones Angelorum sunt illuminationes, quibus superiores illuminant inferiores. Sed inferiores nunquam illuminant superiores, ut supra dictum est. Ergo nec inferiores superioribus loquuntur.

 
Prima parte
Questione 107
Articolo 2

[32895] Iª q. 107 a. 2 arg. 1
SEMBRA che l'angelo inferiore non parli a quello superiore. Infatti:
1. Sopra quelle parole di S. Paolo, "se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli", la Glossa dice che il parlare degli angeli non è altro che il loro illuminare. Ora, come si è visto, gli angeli inferiori non illuminano mai quelli superiori. Quindi neppure parlano ad essi.

[32896] Iª q. 107 a. 2 arg. 2
Praeterea, supra dictum est quod illuminare nihil est aliud quam illud quod est alicui manifestum, alteri manifestare. Sed hoc idem est loqui. Ergo idem est loqui, et illuminare, et sic idem quod prius.

 

[32896] Iª q. 107 a. 2 arg. 2
2. Come si è già detto, illuminare non è altro che manifestare agli altri quanto si conosce. Ma parlare significa la stessa cosa. Quindi parlare e illuminare sono la stessa cosa: e così ritorna la difficoltà precedente.

[32897] Iª q. 107 a. 2 arg. 3
Praeterea, Gregorius dicit, II Moral., quod Deus ad Angelos loquitur, eo ipso quod eorum cordibus occulta sua invisibilia ostendit. Sed hoc ipsum est illuminare. Ergo omnis Dei locutio est illuminatio. Pari ergo ratione, omnis Angeli locutio est illuminatio. Nullo ergo modo Angelus inferior superiori loqui potest.

 

[32897] Iª q. 107 a. 2 arg. 3
3. Dice S. Gregorio che "Dio parla agli angeli rivelando ai loro cuori i suoi segreti invisibili". Ma ciò è lo stesso che illuminare. Quindi ogni parlare di Dio è un illuminare. Per la medesima ragione, dunque, ogni parlare dell'angelo è anch'esso un'illuminazione. In nessun modo perciò l'angelo inferiore può parlare a quello superiore.

[32898] Iª q. 107 a. 2 s. c.
Sed contra est quod, sicut Dionysius exponit VII Cael. Hier., inferiores Angeli superioribus dixerunt, quis est iste rex gloriae?

 

[32898] Iª q. 107 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: Stando alla interpretazione di Dionigi, gli angeli inferiori chiesero a quelli superiori: "Chi è questo re della gloria?".

[32899] Iª q. 107 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod Angeli inferiores superioribus loqui possunt. Ad cuius evidentiam, considerandum est quod omnis illuminatio est locutio in Angelis, sed non omnis locutio est illuminatio. Quia sicut dictum est, Angelum loqui Angelo nihil aliud est quam conceptum suum ordinare ad hoc ut ei innotescat, per propriam voluntatem. Ea vero quae mente concipiuntur, ad duplex principium referri possunt, scilicet ad ipsum Deum, qui est prima veritas; et ad voluntatem intelligentis, per quam aliquid actu consideramus. Quia vero veritas est lumen intellectus, et regula omnis veritatis est ipse Deus; manifestatio eius quod mente concipitur, secundum quod dependet a prima veritate, et locutio est et illuminatio; puta si unus homo dicat alii, caelum est a Deo creatum, vel, homo est animal. Sed manifestatio eorum quae dependent ex voluntate intelligentis, non potest dici illuminatio, sed locutio tantum; puta si aliquis alteri dicat, volo hoc addiscere, volo hoc vel illud facere. Cuius ratio est, quia voluntas creata non est lux, nec regula veritatis, sed participans lucem, unde communicare ea quae sunt a voluntate creata, inquantum huiusmodi, non est illuminare. Non enim pertinet ad perfectionem intellectus mei, quid tu velis, vel quid tu intelligas, cognoscere, sed solum quid rei veritas habeat. Manifestum est autem quod Angeli dicuntur superiores vel inferiores per comparationem ad hoc principium quod est Deus. Et ideo illuminatio, quae dependet a principio quod est Deus, solum per superiores Angelos ad inferiores deducitur. Sed in ordine ad principium quod est voluntas, ipse volens est primus et supremus. Et ideo manifestatio eorum quae ad voluntatem pertinent, per ipsum volentem deducitur ad alios quoscumque. Et quantum ad hoc, et superiores inferioribus, et inferiores superioribus loquuntur.

 

[32899] Iª q. 107 a. 2 co.
RISPONDO: Gli angeli inferiori possono parlare a quelli superiori. Per comprenderlo, si deve considerare che, negli angeli, illuminare è sempre un parlare, ma parlare non è sempre un illuminare. Si è visto infatti che il parlare di un angelo con l'altro non è che un indirizzare a lui il proprio pensiero dietro il comando della volontà. Ora, i concetti formati dalla mente si possono riferire a due principi: cioè direttamente a Dio che è la verità prima; e alla volontà del conoscente, in forza della quale noi consideriamo attualmente un oggetto. Ma la verità è luce dell'intelligenza, e norma di ogni verità è lo stesso Dio; perciò la manifestazione di un concetto, in quanto dipende dalla prima verità, è insieme un parlare e un illuminare; come quando un uomo insegna all'altro: "Il cielo è stato creato da Dio", oppure: "L'uomo è un animale". Invece, la manifestazione delle cose, che dipendono dalla volontà del conoscente, non può chiamarsi illuminazione, ma locuzione soltanto; come nel caso che uno dicesse a un altro: "Voglio imparare questo", oppure: "Voglio fare questa o quella cosa". E la ragione si è che la volontà creata non è né luce, né norma della verità, ma partecipa soltanto della luce: quindi, comunicare agli altri ciò che procede dalla volontà creata, in quanto tale, non è un illuminare. Infatti, non ha niente a che fare con la perfezione del mio intelletto conoscere ciò che tu vuoi o ciò che tu intendi: ma solo conoscere la sostanza della verità.
È chiaro, d'altra parte, che gli angeli si denominano superiori o inferiori in rapporto a quel principio che è Dio. Perciò, l'illuminazione dipendente da quel principio che è Dio, viene trasmessa solo dagli angeli superiori a quelli inferiori. In rapporto invece all'altro principio che è la volontà, la stessa persona che vuole è prima e suprema. Perciò la manifestazione delle cose che appartengono alla volontà, è fatta dalla stessa persona che vuole, direttamente a chi essa vuole. E sotto questo aspetto gli angeli parlano, reciprocamente, quelli superiori a quelli inferiori, e questi a quelli.

[32900] Iª q. 107 a. 2 ad 1
Et per hoc patet solutio ad primum, et ad secundum.

 

[32900] Iª q. 107 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. 2. Si è risposto così anche alla prima e alla seconda difficoltà.

[32901] Iª q. 107 a. 2 ad 3
Ad tertium dicendum quod omnis Dei locutio ad Angelos est illuminatio, quia cum voluntas Dei sit regula veritatis, etiam scire quid Deus velit, pertinet ad perfectionem et illuminationem mentis creatae. Sed non est eadem ratio de voluntate Angeli, ut dictum est.

 

[32901] Iª q. 107 a. 2 ad 3
3. Ogni parlare di Dio agli angeli è anche un illuminare: perché, essendo la volontà di Dio norma di verità, anche il sapere quel che Dio vuole appartiene alla perfezione e illuminazione della mente creata. Ma altrettanto non vale per la volontà dell'angelo, come si è detto.




Parte prima > La derivazione delle creature da Dio > Gli angeli > La locuzione degli angeli > Se l'angelo parli a Dio


Prima pars
Quaestio 107
Articulus 3

[32902] Iª q. 107 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod Angelus Deo non loquatur. Locutio enim est ad manifestandum aliquid alteri. Sed Angelus nihil potest manifestare Deo, qui omnia novit. Ergo Angelus non loquitur Deo.

 
Prima parte
Questione 107
Articolo 3

[32902] Iª q. 107 a. 3 arg. 1
SEMBRA che l'angelo non parli a Dio. Infatti:
1. Si parla per manifestare qualche cosa agli altri. Ma l'angelo non può manifestare niente a Dio, il quale sa tutto. Quindi l'angelo non parla a Dio.

[32903] Iª q. 107 a. 3 arg. 2
Praeterea, loqui est ordinare conceptum intellectus ad alterum, ut dictum est. Sed Angelus semper conceptum suae mentis ordinat in Deum. Si ergo aliquando Deo loquitur, semper Deo loquitur, quod potest videri alicui inconveniens, cum aliquando Angelus Angelo loquatur. Videtur ergo quod Angelus nunquam loquatur Deo.

 

[32903] Iª q. 107 a. 3 arg. 2
2. Parlare è indirizzare il proprio pensiero ad altri, come si è detto. Ora l'angelo indirizza sempre il proprio pensiero a Dio. Quindi, se egli parlasse a Dio una volta, gli parlerebbe sempre: cosa questa che talora non sembra possibile, poiché qualche volta gli angeli parlano tra di loro. Perciò sembra più verosimile che l'angelo non parli mai a Dio.

[32904] Iª q. 107 a. 3 s. c.
Sed contra est quod dicitur Zachar. I, respondit Angelus domini, et dixit, domine exercituum, usquequo non misereberis Ierusalem? Loquitur ergo Angelus Deo.

 

[32904] Iª q. 107 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: "Rispose l'angelo del Signore e disse: "Signore degli eserciti, sino a quando continuerai a non avere compassione di Gerusalemme?"". Dunque l'angelo parla a Dio.

[32905] Iª q. 107 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, locutio Angeli est per hoc, quod conceptus mentis ordinatur ad alterum. Sed aliquid ordinatur ad alterum dupliciter. Uno modo, ad hoc quod communicet alteri; sicut in rebus naturalibus agens ordinatur ad patiens et in locutione humana doctor ordinatur ad discipulum. Et quantum ad hoc, nullo modo Angelus loquitur Deo, neque de his quae ad rerum veritatem pertinent, neque de his quae dependent a voluntate creata, quia Deus est omnis veritatis et omnis voluntatis principium et conditor. Alio modo ordinatur aliquid ad alterum, ut ab eo aliquid accipiat; sicut in rebus naturalibus passivum ad agens, et in locutione humana discipulus ad magistrum. Et hoc modo Angelus loquitur Deo, vel consultando divinam voluntatem de agendis; vel eius excellentiam, quam nunquam comprehendit, admirando; sicut Gregorius dicit, II Moral., quod Angeli loquuntur Deo, cum per hoc quod super semetipsos respiciunt, in motum admirationis surgunt.

 

[32905] Iª q. 107 a. 3 co.
RISPONDO: Come abbiamo spiegato, la locuzione angelica si compie indirizzando il pensiero verso un soggetto diverso. Ora una cosa può essere così indirizzata per due scopi. Primo, per essere comunicata all'altro: nel mondo fisico, p. es., il principio attivo è così ordinato al principio passivo, e nella locuzione umana l'insegnante è ordinato all'alunno. E sotto questo aspetto l'angelo non può parlare a Dio in nessun modo, né di quanto appartiene alla verità oggettiva, né di quanto dipende dalla volontà creata: poiché Dio di ogni verità e di ogni volontà è principio e causa. - Secondo, una cosa può essere indirizzata verso un soggetto estraneo, per riceverne qualche cosa: così nel mondo fisico il principio passivo è ordinato al principio attivo, e nella locuzione umana l'alunno si indirizza all'insegnante. Ed è in questo modo che l'angelo parla a Dio, o consultando la volontà divina sul da farsi, o ammirando la di lui eccellenza che egli non può mai comprendere totalmente; cosicché S. Gregorio fa osservare, che "gli angeli parlano a Dio quando, riguardando al di sopra di sé, escono in sentimenti di ammirazione".

[32906] Iª q. 107 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod locutio non semper est ad manifestandum alteri; sed quandoque ad hoc ordinatur finaliter, ut loquenti aliquid manifestetur; sicut cum discipulus quaerit aliquid a magistro.

 

[32906] Iª q. 107 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il parlare non ha sempre lo scopo di manifestare ad altri qualche cosa; ma talora ha lo scopo finale di ricevere una manifestazione; com'e quando l'alunno chiede spiegazioni al suo insegnante.

[32907] Iª q. 107 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod locutione qua Angeli loquuntur Deo laudantes ipsum et admirantes, semper Angeli Deo loquuntur. Sed locutione qua eius sapientiam consulunt super agendis, tunc ei loquuntur, quando aliquod novum per eos agendum occurrit, super quo desiderant illuminari.

 

[32907] Iª q. 107 a. 3 ad 2
2. Gli angeli non cessano mai di parlare a Dio con la lode e con l'ammirazione. Ma la locuzione, con la quale essi consultano la divina sapienza sul da farsi, si limita a quelle circostanze in cui devono compiere qualche cosa di nuovo, su cui desiderano essere illuminati.




Parte prima > La derivazione delle creature da Dio > Gli angeli > La locuzione degli angeli > Se la distanza locale influisca sulla locuzione degli angeli


Prima pars
Quaestio 107
Articulus 4

[32908] Iª q. 107 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod localis distantia operetur aliquid in locutione angelica. Sicut enim dicit Damascenus, Angelus ubi est, ibi operatur. Locutio autem est quaedam operatio Angeli. Cum ergo Angelus sit in determinato loco, videtur quod usque ad determinatam loci distantiam Angelus loqui possit.

 
Prima parte
Questione 107
Articolo 4

[32908] Iª q. 107 a. 4 arg. 1
SEMBRA che la distanza locale influisca sulla locuzione degli angeli. Infatti:
1. A detta del Damasceno, "l'angelo opera dove si trova". Ora, il parlare è una delle operazioni dell'angelo. Quindi, essendo l'angelo in un luogo determinato, sembra che un angelo possa parlare sino a una distanza di luogo determinata.

[32909] Iª q. 107 a. 4 arg. 2
Praeterea, clamor loquentis fit propter distantiam audientis. Sed Isaiae VI dicitur de Seraphim, quod clamabat alter ad alterum. Ergo videtur quod in locutione Angelorum aliquid operetur localis distantia.

 

[32909] Iª q. 107 a. 4 arg. 2
2. Chi grida quando parla, lo fa a causa della lontananza di colui che ascolta. Ma leggiamo in Isaia, a proposito dei Serafini, che "l'uno gridava verso l'altro". Dunque la distanza locale influisce sulla locuzione degli angeli.

[32910] Iª q. 107 a. 4 s. c.
Sed contra est quod, sicut dicitur Luc. XVI, dives in Inferno positus loquebatur Abrahae, non impediente locali distantia. Multo igitur minus localis distantia potest impedire locutionem unius Angeli ad alterum.

 

[32910] Iª q. 107 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: Narra il Vangelo che il ricco posto nell'inferno parlava ad Abramo, senza che lo impedisse la distanza di luogo. Molto meno dunque la distanza locale può impedire il parlare di un angelo con l'altro.

[32911] Iª q. 107 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod locutio Angeli in intellectuali operatione consistit, ut ex dictis patet. Intellectualis autem operatio Angeli omnino abstracta est a loco et tempore, nam etiam nostra intellectualis operatio est per abstractionem ab hic et nunc, nisi per accidens ex parte phantasmatum, quae in Angelis nulla sunt. In eo autem quod est omnino abstractum a loco et tempore, nihil operatur neque temporis diversitas, neque loci distantia. Unde in locutione Angeli nullum impedimentum facit distantia loci.

 

[32911] Iª q. 107 a. 4 co.
RISPONDO: Il parlare dell'angelo consiste, come abbiamo spiegato, in un'operazione intellettiva. Ma l'operazione intellettiva dell'angelo prescinde totalmente dalle condizioni di luogo e di tempo: infatti anche la nostra intellezione prescinde dalle circostanze di luogo e di tempo, e solo ne risente a causa dei fantasmi, che non si trovano negli angeli. Ora, la successione del tempo e la distanza locale non influiscono affatto in ciò che prescinde del tutto dalle condizioni di luogo e di tempo. Quindi la distanza locale non può costituire un impedimento per la locuzione degli angeli.

[32912] Iª q. 107 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod locutio Angeli, sicut dictum est, est locutio interior, quae tamen ab alio percipitur, et ideo est in Angelo loquente, et per consequens ubi est Angelus loquens. Sed sicut distantia localis non impedit quin unus Angelus alium videre possit; ita etiam non impedit quin percipiat quod in eo ad se ordinatur, quod est eius locutionem percipere.

 

[32912] Iª q. 107 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La locuzione degli angeli, come si è detto, è una parola interiore, che però viene percepita; essa quindi è nell'angelo che parla e, conseguentemente, anche nel luogo dove l'angelo parla. Ma come la distanza locale non impedisce a un angelo di vedere l'altro; così neppure gli impedisce di percepire in lui quanto l'altro gli rivolge, cioè di percepire la sua parola.

[32913] Iª q. 107 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod clamor ille non est vocis corporeae, qui fit propter distantiam loci; sed significat magnitudinem rei quae dicebatur, vel magnitudinem affectus, secundum quod dicit Gregorius, II Moral., tanto quisque minus clamat, quanto minus desiderat.

 

[32913] Iª q. 107 a. 4 ad 2
2. Il grido di cui si parla non è il grido materiale, che viene emesso a causa della distanza; ma sta a indicare la grandiosità delle cose che venivano dette, oppure l'intensità grande degli affetti, secondo l'espressione di S. Gregorio: "Tanto meno uno grida, quanto meno desidera".




Parte prima > La derivazione delle creature da Dio > Gli angeli > La locuzione degli angeli > Se la locuzione di un angelo con l'altro sia conosciuta da tutti


Prima pars
Quaestio 107
Articulus 5

[32914] Iª q. 107 a. 5 arg. 1
Ad quintum sic proceditur. Videtur quod locutionem unius Angeli ad alterum omnes cognoscant. Quod enim unius hominis locutionem non omnes audiant, facit inaequalis loci distantia. Sed in locutione Angeli nihil operatur localis distantia, ut dictum est. Ergo uno Angelo loquente ad alterum, omnes percipiunt.

 
Prima parte
Questione 107
Articolo 5

[32914] Iª q. 107 a. 5 arg. 1
SEMBRA che la locuzione di un angelo con l'altro sia conosciuta da tutti. Infatti:
1. Il fatto che non tutti odono il parlare di un uomo con un altro dipende dalla distanza di luogo. Ma nel parlare degli angeli la distanza locale non influisce affatto, come abbiamo spiegato. Quindi, quando un angelo parla all'altro, è inteso da tutti.

[32915] Iª q. 107 a. 5 arg. 2
Praeterea, omnes Angeli communicant in virtute intelligendi. Si ergo conceptus mentis unius ordinatus ad alterum cognoscitur ab uno, pari ratione cognoscitur ab aliis.

 

[32915] Iª q. 107 a. 5 arg. 2
2. La capacità d'intendere è comune a tutti gli angeli. Se quindi il pensiero di un angelo è capito da quello a cui è indirizzato, sarà capito anche dagli altri.

[32916] Iª q. 107 a. 5 arg. 3
Praeterea, illuminatio est quaedam species locutionis. Sed illuminatio unius Angeli ab altero, pervenit ad omnes Angelos, quia, ut Dionysius dicit XV cap. Cael. Hier., unaquaeque caelestis essentia intelligentiam sibi traditam aliis communicat. Ergo et locutio unius Angeli ad alterum, ad omnes perducitur.

 

[32916] Iª q. 107 a. 5 arg. 3
3. L'illuminazione è una specie di locuzione. Ma quando un angelo illumina l'altro, la sua illuminazione giunge a tutti gli angeli: perché, come dice Dionigi, "ciascuna sostanza celeste comunica alle altre l'intellezione ricevuta". Quindi anche la locuzione di un angelo con l'altro giunge a tutti.

[32917] Iª q. 107 a. 5 s. c.
Sed contra est quod unus homo potest alteri soli loqui. Multo igitur magis hoc in Angelis esse potest.

 

[32917] Iª q. 107 a. 5 s. c.
IN CONTRARIO: All'uomo è possibile parlare da solo a un altro. Molto più dunque questo dev'essere possibile all'angelo.

[32918] Iª q. 107 a. 5 co.
Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, conceptus mentis unius Angeli percipi potest ab altero, per hoc quod ille cuius est conceptus, sua voluntate ordinat ipsum ad alterum. Potest autem ex aliqua causa ordinari aliquid ad unum, et non ad alterum. Et ideo potest conceptus unius ab aliquo uno cognosci, et non ab aliis. Et sic locutionem unius Angeli ad alterum potest percipere unus absque aliis, non quidem impediente distantia locali, sed hoc faciente voluntaria ordinatione, ut dictum est.

 

[32918] Iª q. 107 a. 5 co.
RISPONDO: Il pensiero di un angelo può essere percepito dall'altro, come abbiamo spiegato, per il fatto che il soggetto pensante con la sua volontà lo indirizza a un altro. Ora, può esserci un motivo per cui una cosa deve essere indirizzata a uno e non a un altro. Perciò, il pensiero di un angelo potrà essere conosciuto da uno, e non dagli altri. Cosicché la locuzione di un angelo con un altro non sarà percepita dagli altri, non per colpa della distanza locale, ma perché così determina la volontà.

[32919] Iª q. 107 a. 5 ad 1
Unde patet responsio ad primum et secundum.

 

[32919] Iª q. 107 a. 5 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. 2. Abbiamo così risposto anche alla prima e alla seconda difficoltà.

[32920] Iª q. 107 a. 5 ad 3
Ad tertium dicendum quod illuminatio est de his quae emanant a prima regula veritatis, quae est principium commune omnium Angelorum, et ideo illuminationes sunt omnibus communes. Sed locutio potest esse de his quae ordinantur ad principium voluntatis creatae, quod est proprium unicuique Angelo, et ideo non oportet quod huiusmodi locutiones sint omnibus communes.

 

[32920] Iª q. 107 a. 5 ad 3
3. L'illuminazione riguarda le verità che emanano dalla prima regola di verità, la quale è la causa universale di tutti gli angeli: perciò le illuminazioni sono comuni a tutti. La locuzione invece può riguardare cose che si riferiscono direttamente all'esercizio della volontà creata, che è proprio di ciascun angelo: perciò non è necessario che siffatte locuzioni siano rivolte a tutti.

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