II-II, 142

Seconda parte > Le azioni umane > La temperanza > I vizi opposti alla temperanza


Secunda pars secundae partis
Quaestio 142
Prooemium

[44681] IIª-IIae, q. 142 pr.
Deinde considerandum est de vitiis oppositis temperantiae. Et circa hoc quaeruntur quatuor.
Primo, utrum insensibilitas sit peccatum.
Secundo, utrum intemperantia sit vitium puerile.
Tertio, de comparatione intemperantiae ad timiditatem.
Quarto, utrum vitium intemperantiae sit maxime opprobriosum.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 142
Proemio

[44681] IIª-IIae, q. 142 pr.
Passiamo così a parlare dei vizi contrari alla temperanza.
Sull'argomento si pongono quattro quesiti:

1. Se l'insensibilità sia peccato;
2. Se l'intemperanza sia un vizio infantile;
3. Confronto tra intemperanza e codardia;
4. Se il vizio dell'intemperanza sia il più disonorante.




Seconda parte > Le azioni umane > La temperanza > I vizi opposti alla temperanza > Se l'insensibilità sia peccato


Secunda pars secundae partis
Quaestio 142
Articulus 1

[44682] IIª-IIae, q. 142 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod insensibilitas non sit vitium. Dicuntur enim insensibiles qui deficiunt circa delectationes tactus. Sed in his penitus deficere videtur esse laudabile et virtuosum, dicitur enim Dan. X, in diebus illis ego, Daniel, lugebam trium hebdomadarum tempus, panem desiderabilem non comedi, et caro et vinum non introierunt in os meum, sed neque unguento unctus sum. Ergo insensibilitas non est peccatum.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 142
Articolo 1

[44682] IIª-IIae, q. 142 a. 1 arg. 1
SEMBRA che l'insensibilità non sia peccato. Infatti:
1. Si chiamano insensibili coloro che esagerano nel privarsi dei piaceri del tatto. Ma privarsi totalmente di codesti piaceri sembra cosa lodevole e virtuosa; poiché nella Scrittura si legge: "In quei giorni io, Daniele, per tre settimane facevo lutto, cibi graditi non gustai, carne e vino non entrarono nella mia bocca, e neppure mi unsi d'unguento". Dunque l'insensibilità non è peccato.

[44683] IIª-IIae, q. 142 a. 1 arg. 2
Praeterea, bonum hominis est secundum rationem esse, secundum Dionysium, IV cap. de Div. Nom. Sed abstinere ab omnibus delectabilibus tactus maxime promovet hominem in bono rationis, dicitur enim Dan. I, quod pueris qui utebantur leguminibus dedit Deus scientiam et disciplinam in omni libro et sapientia. Ergo insensibilitas, quae universaliter repellit huiusmodi delectationes, non est vitiosa.

 

[44683] IIª-IIae, q. 142 a. 1 arg. 2
2. A detta di Dionigi, "il bene per l'uomo consiste nell'essere conforme alla ragione". Ma l'astinenza da tutti i piaceri del tatto è il massimo che l'uomo può fare per affermare il bene della ragione: infatti in Daniele si legge, che ai tre fanciulli i quali si cibavano di legumi "Dio concesse scienza e cognizione in ogni specie di libro e di sapienza". Perciò l'insensibilità, che ripudia tutti i piaceri di questo genere, non è peccaminosa.

[44684] IIª-IIae, q. 142 a. 1 arg. 3
Praeterea, illud per quod maxime receditur a peccato, non videtur esse vitiosum. Sed hoc est potissimum remedium abstinendi a peccato, quod aliquis fugiat delectationes, quod pertinet ad insensibilitatem, dicit enim philosophus, in II Ethic., quod abiicientes delectationem minus peccabimus. Ergo insensibilitas non est aliquid vitiosum.

 

[44684] IIª-IIae, q. 142 a. 1 arg. 3
3. Non può essere vizioso ciò che forma il mezzo migliore per fuggire il peccato. Ora, il mezzo migliore per fuggire il peccato è la fuga dei piaceri, la quale costituisce l'insensibilità: infatti il Filosofo afferma, che "fuggendo i piaceri peccheremo di meno". Quindi l'insensibilità non è qualche cosa di vizioso.

[44685] IIª-IIae, q. 142 a. 1 s. c.
Sed contra, nihil opponitur virtuti nisi vitium. Sed insensibilitas virtuti temperantiae opponitur, ut patet per philosophum, in II et III Ethic. Ergo insensibilitas est vitium.

 

[44685] IIª-IIae, q. 142 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: Alla virtù non si contrappone che il vizio. Ma l'insensibilità, come afferma il Filosofo, si contrappone alla temperanza. Dunque l'insensibilità è un vizio.

[44686] IIª-IIae, q. 142 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod omne illud quod contrariatur ordini naturali, est vitiosum. Natura autem delectationem apposuit operationibus necessariis ad vitam hominis. Et ideo naturalis ordo requirit ut homo intantum huiusmodi delectationibus utatur, quantum necessarium est saluti humanae, vel quantum ad conservationem individui vel quantum ad conservationem speciei. Si quis ergo intantum delectationem refugeret quod praetermitteret ea quae sunt necessaria ad conservationem naturae peccaret, quasi ordini naturali repugnans. Et hoc pertinet ad vitium insensibilitatis. Sciendum tamen quod ab huiusmodi delectationibus consequentibus huiusmodi operationes, quandoque laudabile, vel etiam necessarium est abstinere, propter aliquem finem. Sicut propter sanitatem corporalem, aliqui abstinent a quibusdam delectationibus, cibis et potibus et venereis. Et etiam propter alicuius officii executionem, sicut athletas et milites necesse est a multis delectationibus abstinere, ut officium proprium exequantur. Et similiter poenitentes, ad recuperandam animae sanitatem, abstinentia delectabilium quasi quadam diaeta utuntur. Et homines volentes contemplationi et rebus divinis vacare, oportet quod se magis a carnalibus abstrahant. Nec aliquid praedictorum ad insensibilitatis vitium pertinet, quia sunt secundum rationem rectam.

 

[44686] IIª-IIae, q. 142 a. 1 co.
RISPONDO: Tutto ciò che è contrario all'ordine naturale è peccaminoso. Ora, la natura ha legato il piacere alle funzioni necessarie per la vita dell'uomo. Perciò l'ordine naturale richiede che l'uomo usi di codesti piaceri, quanto è necessario al benessere umano, sia per la conservazione dell'individuo, che per la conservazione della specie. Perciò se uno si astenesse da questi piaceri al punto di trascurare ciò che è necessario per la conservazione della natura, commetterebbe peccato, violando così l'ordine naturale. Ed è questo appunto che rientra nel vizio dell'insensibilità.
Si deve però notare che talora è cosa lodevole e necessaria astenersi dai piaceri che accompagnano le suddette funzioni, per raggiungere un fine particolare. Così alcuni si astengono da certi piaceri, ossia dai cibi, dalle bevande e dai piaceri venerei, per la salute del corpo. Oppure per compiere le proprie mansioni: gli atleti e i soldati, p. es., son costretti ad astenersi da molti piaceri, per eseguire i loro esercizi. Parimenti, per ricuperare la salute dell'anima i penitenti ricorrono all'astinenza dai piaceri, come a una dieta. E coloro che vogliono attendere alla contemplazione delle cose divine, devono essere più liberi dalle cose della carne. Ma tutti questi casi non si riducono al vizio dell'insensibilità: poiché sono conformi alla retta ragione.

[44687] IIª-IIae, q. 142 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod Daniel illa abstinentia a delectabilibus utebatur, non quasi propter se abhorrens delectationes, ut secundum se malas, sed propter aliquem finem laudabilem, ut scilicet idoneum se ad altitudinem contemplationis redderet, abstinendo scilicet a corporalibus delectationibus. Unde et statim ibi subditur de revelatione facta.

 

[44687] IIª-IIae, q. 142 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Daniele ricorse a quell'astinenza dai piaceri, non perché li considerava cattivi in se stessi; ma per un fine lodevole, e cioè per predisporsi alla più alta contemplazione con l'astenersi dai piaceri della carne. Subito dopo infatti la Scrittura parla delle rivelazioni che gli furono fatte.

[44688] IIª-IIae, q. 142 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod, quia ratione homo uti non potest sine sensitivis potentiis, quae indigent organo corporali, ut in primo habitum est; necesse est quod homo sustentet corpus, ad hoc quod ratione utatur. Sustentatio autem corporis fit per operationes delectabiles. Unde non potest esse bonum rationis in homine si abstineat ab omnibus delectabilibus. Secundum tamen quod homo in exequendo actum rationis plus vel minus indiget corporali virtute, secundum hoc plus vel minus necesse habet delectabilibus corporalibus uti. Et ideo homines qui hoc officium assumpserunt ut contemplationi vacent, et bonum spirituale quasi quadam spirituali propagatione in alios transmittant, a multis delectabilibus laudabiliter abstinent, a quibus illi quibus ex officio competit operibus corporalibus et generationi carnali vacare, laudabiliter non abstinerent.

 

[44688] IIª-IIae, q. 142 a. 1 ad 2
2. L'uomo, come abbiamo spiegato nella Prima Parte, non può servirsi della ragione, senza far uso delle potenze sensitive, le quali hanno bisogno di un organo corporeo. Per questo l'uomo deve dare sostentamento al corpo, per servirsi della ragione. Ma il sostentamento del corpo si fa mediante funzioni piacevoli. Perciò in un uomo non può esserci il bene di ordine razionale, se egli si astiene da tutti i piaceri. A seconda però che uno nell'eseguire gli atti imposti dalla ragione ha maggiore o minore bisogno di forze fisiche, deve ricorrere di più o di meno ai piaceri del corpo. Perciò coloro che hanno preso l'ufficio di attendere alla contemplazione, e di trasmettere così in altri il bene spirituale, quasi mediante una generazione di ordine spirituale, è bene che si astengano da molti piaceri, di cui invece non è giusto che si privino coloro che hanno il dovere di attendere ad opere materiali e alla generazione carnale.

[44689] IIª-IIae, q. 142 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod delectatio fugienda est ad vitandum peccatum, non totaliter, sed ut non ultra quaeratur quam necessitas requirat.

 

[44689] IIª-IIae, q. 142 a. 1 ad 3
3. Per fuggire il peccato si devono fuggire i piaceri, però non totalmente, ma non cercandoli più di quanto la necessità lo richiede.




Seconda parte > Le azioni umane > La temperanza > I vizi opposti alla temperanza > Se l'intemperanza sia un peccato infantile


Secunda pars secundae partis
Quaestio 142
Articulus 2

[44690] IIª-IIae, q. 142 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod intemperantia non sit puerile peccatum. Quia super illud Matth. XVIII, nisi conversi fueritis sicut parvuli etc., dicit Hieronymus quod parvulus non perseverat in iracundia, laesus non meminit, videns pulchram mulierem non delectatur, quod contrariatur intemperantiae. Ergo intemperantia non est puerile peccatum.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 142
Articolo 2

[44690] IIª-IIae, q. 142 a. 2 arg. 1
SEMBRA che l'intemperanza non sia un peccato infantile. Infatti:
1. Commentando quel passo evangelico: "Se non vi cambierete e non diventerete bambini, ecc.", S. Girolamo afferma che "il bambino non persevera nell'ira, se è percosso non se ne ricorda, e nel vedere una bella donna non se ne compiace": il che è proprio il contrario della concupiscenza. Perciò l'intemperanza non è un peccato infantile.

[44691] IIª-IIae, q. 142 a. 2 arg. 2
Praeterea, pueri non habent nisi concupiscentias naturales. Sed circa naturales concupiscentias parum aliqui peccant per intemperantiam, ut philosophus dicit, in III Ethic. Ergo intemperantia non est peccatum puerile.

 

[44691] IIª-IIae, q. 142 a. 2 arg. 2
2. I bambini non hanno altri desideri, o concupiscenze, che quelli naturali. Ma in rapporto a questi desideri è raro peccare d'intemperanza, come nota il Filosofo. Dunque l'intemperanza non è un peccato puerile.

[44692] IIª-IIae, q. 142 a. 2 arg. 3
Praeterea, pueri sunt nutriendi et fovendi. Sed concupiscentia et delectatio, circa quae est intemperantia, est semper diminuenda et extirpanda, secundum illud Coloss. III, mortificate membra vestra super terram, quae sunt concupiscentia, et cetera. Ergo intemperantia non est puerile peccatum.

 

[44692] IIª-IIae, q. 142 a. 2 arg. 3
3. I bambini devono essere nutriti e allevati. Invece concupiscenza e piacere, che sono oggetto dell'intemperanza, vanno combattuti ed estirpati, secondo l'esortazione di S. Paolo: "Mortificate le vostre membra terrene, cioè... la concupiscenza, ecc.". Perciò l'intemperanza non è un peccato infantile.

[44693] IIª-IIae, q. 142 a. 2 s. c.
Sed contra est quod philosophus dicit, in III Ethic., quod nomen intemperantiae ferimus ad puerilia peccata.

 

[44693] IIª-IIae, q. 142 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: il Filosofo afferma, che "denominiamo l'intemperanza dai difetti dei bambini".

[44694] IIª-IIae, q. 142 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod aliquid dicitur esse puerile dupliciter. Uno modo, quia convenit pueris. Et sic non intendit philosophus dicere quod peccatum intemperantiae sit puerile. Alio modo, secundum quandam similitudinem. Et hoc modo peccata intemperantiae puerilia dicuntur. Peccatum enim intemperantiae est peccatum superfluae concupiscentiae, quae assimilatur puero quantum ad tria primo quidem, quantum ad id quod uterque appetit. Sicut enim puer, ita et concupiscentia appetit aliquid turpe. Cuius ratio est quia pulchrum in rebus humanis attenditur prout aliquid est ordinatum secundum rationem, unde Tullius dicit, in I de Offic., quod pulchrum est quod consentaneum est hominis excellentiae in eo in quo natura eius a reliquis animantibus differt. Puer autem non attendit ad ordinem rationis. Et similiter concupiscentia non audit rationem, ut dicitur in VII Ethic. Secundo conveniunt quantum ad eventum. Puer enim, si suae voluntati dimittatur, crescit in propria voluntate, unde dicitur Eccli. XXX, equus indomitus evadit durus, et filius remissus evadet praeceps. Ita etiam et concupiscentia, si ei satisfiat, maius robur accipit, unde Augustinus dicit, in VIII Confess., dum servitur libidini, facta est consuetudo, et dum consuetudini non resistitur, facta est necessitas. Tertio, quantum ad remedium quod utrique praebetur. Puer enim emendatur per hoc quod coercetur, unde dicitur Prov. XXIII, noli subtrahere a puero disciplinam, tu virga percuties eum, et animam eius de Inferno liberabis. Et similiter, dum concupiscentiae resistitur, reducitur ad debitum honestatis modum. Et hoc est quod Augustinus dicit, in VI musicae, quod, mente in spiritualia suspensa atque ibi fixa et manente, consuetudinis, scilicet carnalis concupiscentiae. Impetus frangitur, et paulatim repressus extinguitur. Maior enim erat cum sequeremur, non omnino nullus, sed certe minor, cum refrenamus. Et ideo philosophus dicit, in III Ethic., quod quemadmodum puerum oportet secundum praeceptum paedagogi vivere, sic et concupiscibile consonare rationi.

 

[44694] IIª-IIae, q. 142 a. 2 co.
RISPONDO: Una cosa può dirsi infantile per due motivi. Primo, perché propria dei bambini. E il Filosofo non intende dire in questo senso che l'intemperanza è un peccato infantile. - Secondo, per una certa somiglianza. Ed è in questo senso che i peccati d'intemperanza si dicono infantili. Infatti il peccato d'intemperanza è un eccesso di concupiscenza: e ciò somiglia al fanciullo sotto tre aspetti.
Primo, quanto all'oggetto che viene desiderato. Infatti, come il bambino, così anche la concupiscenza, brama qualche cosa di indecente. Questo perché il decoro negli atti umani dipende dall'essere ordinati conforme alla ragione: cosicché Cicerone afferma, che "è bello quanto si addice alla grandezza dell'uomo in quello che per natura si differenzia dagli altri animali". Invece il bambino non bada all'ordine della ragione. Così pure, a detta del Filosofo, "non ode ragione la concupiscenza".
Secondo, intemperanza e fanciullezza coincidono negli effetti. Infatti se il bambino viene lasciato al proprio volere, crescono le sue brame; nella Scrittura infatti si legge: "Un cavallo non domato diventa intrattabile, e un figliuolo abbandonato a se stesso diventa un rompicollo". Lo stesso vale per la concupiscenza, la quale se viene soddisfatta, acquista più vigore, come nota S. Agostino: "Mentre si serve alla passione, ecco si forma l'abitudine; e non resistendo all'abitudine, nasce la necessità".
Terzo, esse coincidono nei rimedi consigliati per l'una e per l'altra. Infatti il bambino viene corretto con la coercizione, secondo le parole dei Proverbi: "Non sottrarre il fanciullo alla disciplina; tu lo picchierai con la verga, ma lo scamperai dall'inferno". Così nel resistervi si riporta la concupiscenza alla misura dell'onestà. Ecco perché S. Agostino afferma, che "quando l'anima s'innalza e si fissa nelle cose spirituali, la forza dell'abitudine", cioè della concupiscenza carnale, "si spezza, e un po' per volta si smorza e si estingue. Se l'avessimo assecondata, sarebbe diventata più grande: col reprimerla non è annientata, ma è certo diventata più debole". E il Filosofo scrive, che "come il fanciullo deve stare al comando del pedagogo, così la concupiscenza deve adeguarsi alla ragione".

[44695] IIª-IIae, q. 142 a. 2 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod ratio illa procedit secundum illum modum quo puerile dicitur id quod in pueris invenitur. Sic autem non dicitur peccatum intemperantiae puerile, sed secundum similitudinem, ut dictum est.

 

[44695] IIª-IIae, q. 142 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La prima difficoltà è giusta, se il termine infantile si fa derivare dal fatto che una cosa si trova nei bambini. Infatti il peccato d'intemperanza non è infantile in questo senso, ma per una certa somiglianza, secondo le spiegazioni date.

[44696] IIª-IIae, q. 142 a. 2 ad 2
Ad secundum dicendum quod concupiscentia aliqua potest dici naturalis dupliciter. Uno modo, secundum suum genus. Et sic temperantia et intemperantia sunt circa concupiscentias naturales, sunt enim circa concupiscentias ciborum et venereorum, quae ordinantur ad conservationem naturae. Alio modo potest dici concupiscentia naturalis quantum ad speciem eius quod natura ad sui conservationem requirit. Et sic non multum contingit peccare circa naturales concupiscentias. Natura enim non requirit nisi id per quod subvenitur necessitati naturae, in cuius desiderio non contingit esse peccatum, nisi solum secundum quantitatis excessum; et secundum hoc solum peccatur circa naturalem concupiscentiam, ut philosophus dicit, in III Ethic. Alia vero, circa quae plurimum peccatur, sunt quaedam concupiscentiae incitamenta, quae hominum curiositas adinvenit, sicut cibi curiose praeparati, et mulieres ornatae. Et quamvis ista non multum requirant pueri, nihilominus tamen intemperantia dicitur puerile peccatum ratione iam dicta.

 

[44696] IIª-IIae, q. 142 a. 2 ad 2
2. Una concupiscenza, o desiderio, può dirsi naturale in due maniere. Primo in senso generico. E in tal senso la temperanza e l'intemperanza hanno per oggetto concupiscenze naturali: infatti riguardano concupiscenze di cibi e di piaceri venerei, che sono ordinate alla conservazione della natura. Secondo, una concupiscenza può dirsi naturale in senso specifico, e cioè per la specie di ciò che la natura richiede per la propria conservazione. E in tal senso non è frequente il peccato rispetto alle concupiscenze naturali. Infatti la natura non cerca, se non quanto esige la necessità naturale: ma in questo desiderio non c'è peccato, se non per un eccesso quantitativo; e a detta del Filosofo solo così si pecca nelle concupiscenze di ordine naturale. Invece le cose in cui maggiormente si pecca sono certi incentivi della concupiscenza escogitati dall'industria umana: come la squisitezza dei cibi, e l'abbigliamento delle donne. E sebbene i fanciulli non badino molto a queste cose, tuttavia l'intemperanza si dice puerile per le ragioni esposte.

[44697] IIª-IIae, q. 142 a. 2 ad 3
Ad tertium dicendum quod id quod ad naturam pertinet in pueris est augmentandum et fovendum. Quod autem pertinet ad defectum rationis in eis non est fovendum, sed emendandum, ut dictum est.

 

[44697] IIª-IIae, q. 142 a. 2 ad 3
3. Nei bambini si deve nutrire e incrementare tutto ciò che è proprio della natura. Invece, come abbiamo detto, si deve correggere e non incrementare quanto in essi è dovuto a un difetto di ragione.




Seconda parte > Le azioni umane > La temperanza > I vizi opposti alla temperanza > Se la codardia sia un peccato più grave dell'intemperanza


Secunda pars secundae partis
Quaestio 142
Articulus 3

[44698] IIª-IIae, q. 142 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod timiditas sit maius vitium quam intemperantia. Ex hoc enim aliquod vitium vituperatur quod opponitur bono virtutis. Sed timiditas opponitur fortitudini, quae est nobilior virtus quam temperantia, cui opponitur intemperantia, ut ex supra dictis patet. Ergo timiditas est maius vitium quam intemperantia.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 142
Articolo 3

[44698] IIª-IIae, q. 142 a. 3 arg. 1
SEMBRA che la codardia sia un peccato più grave dell'intemperanza. Infatti:
1. Un vizio è vituperevole perché contrario al bene della virtù. Ora, la codardia si contrappone alla fortezza che è una virtù superiore alla temperanza, come sopra abbiamo visto. Dunque la codardia è un vizio più grave dell'intemperanza.

[44699] IIª-IIae, q. 142 a. 3 arg. 2
Praeterea, quanto aliquis deficit in eo quod difficilius vincitur, tanto minus vituperatur, unde philosophus dicit, in VII Ethic., quod si quis a fortibus et superexcellentibus delectationibus vincitur vel tristitiis, non est admirabile, sed condonabile. Sed difficilius videtur vincere delectationes quam alias passiones, unde in II Ethic. dicitur quod difficilius est contra voluptatem pugnare quam contra iram, quae videtur esse fortior quam timor. Ergo intemperantia, quae vincitur a delectatione, minus peccatum est quam timiditas, quae vincitur a timore.

 

[44699] IIª-IIae, q. 142 a. 3 arg. 2
2. Quanto più difficile è la cosa in cui uno soccombe, tanto meno è biasimato: infatti il Filosofo scrive, che "se uno è vinto da forti ed eccezionali piaceri o tristezze, non c'è da far le meraviglie ma da compatirlo". Ora, è più difficile vincere i piaceri che le altre passioni: ché a detta del Filosofo, "è più difficile combattere il piacere che l'ira", la quale si mostra più violenta del timore. Perciò l'intemperanza, che è vinta dal piacere, è un peccato meno grave della codardia, la quale si lascia vincere dal timore.

[44700] IIª-IIae, q. 142 a. 3 arg. 3
Praeterea, de ratione peccati est quod sit voluntarium. Sed timiditas est magis voluntaria quam intemperantia, nullus enim concupiscit intemperatus esse; aliqui autem concupiscunt fugere mortis pericula, quod pertinet ad timiditatem. Ergo timiditas est gravius peccatum quam intemperantia.

 

[44700] IIª-IIae, q. 142 a. 3 arg. 3
3. Il peccato è essenzialmente volontario. Ma la codardia è più volontaria dell'intemperanza; nessuno infatti desidera di essere intemperante: invece alcuni desiderano fuggire i pericoli di morte, il che è proprio della codardia. Dunque la codardia è un peccato più grave dell'intemperanza.

[44701] IIª-IIae, q. 142 a. 3 s. c.
Sed contra est quod philosophus dicit, in III Ethic., quod intemperantia assimilatur magis voluntario quam timiditas. Ergo plus habet de ratione peccati.

 

[44701] IIª-IIae, q. 142 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: Il Filosofo insegna, che "l'intemperanza sembra essere più volontaria della codardia". Quindi ha più natura di peccato.

[44702] IIª-IIae, q. 142 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod unum vitium potest alteri comparari dupliciter, uno modo, ex parte materiae vel obiecti; alio modo, ex parte ipsius hominis peccantis. Et utroque modo intemperantia est gravius vitium quam timiditas. Primo namque ex parte materiae. Nam timiditas refugit pericula mortis, ad quae vitanda inducit maxima necessitas conservandae vitae. Intemperantia autem est circa delectationes, quarum appetitus non est adeo necessarius ad vitae conservationem, quia, ut dictum est, intemperantia magis est circa quasdam appositas delectationes seu concupiscentias quam circa concupiscentias seu delectationes naturales. Quanto autem illud quod commovet ad peccandum videtur esse magis necessarium, tanto peccatum levius est. Et ideo intemperantia est gravius vitium quam timiditas ex parte obiecti sive materiae moventis. Similiter etiam et ex parte ipsius hominis peccantis. Et hoc triplici ratione. Primo quidem, quia quanto ille qui peccat magis est compos suae mentis, tanto gravius peccat, unde alienatis non imputantur peccata. Timores autem et tristitiae graves, et maxime in periculis mortis, stupefaciunt mentem hominis. Quod non facit delectatio, quae movet ad intemperantiam. Secundo, quia quanto aliquod peccatum est magis voluntarium, tanto est gravius. Intemperantia autem habet plus de voluntario quam timiditas. Et hoc duplici ratione. Uno modo, quia ea quae per timorem fiunt principium habent ab exteriori impellente, unde non sunt simpliciter voluntaria, sed mixta, ut dicitur in III Ethic. Ea autem quae per delectationem fiunt sunt simpliciter voluntaria. Alio modo, quia ea quae sunt intemperati sunt magis voluntaria in particulari, minus autem voluntaria in universali, nullus enim vellet intemperatus esse; allicitur tamen homo a singularibus delectabilibus, quae intemperatum faciunt hominem. Propter quod, ad vitandum intemperantiam maximum remedium est ut non immoretur homo circa singularium considerationem. Sed in his quae pertinent ad timiditatem est e converso. Nam singula quae imminent sunt minus voluntaria, ut abiicere clipeum et alia huiusmodi, sed ipsum commune est magis voluntarium, puta fugiendo salvari. Hoc autem est simpliciter magis voluntarium quod est magis voluntarium in singularibus, in quibus est actus. Et ideo intemperantia, cum sit simpliciter magis voluntarium quam timiditas, est maius vitium. Tertio, quia contra intemperantiam potest magis de facili remedium adhiberi quam contra timiditatem, eo quod delectationes ciborum et venereorum, circa quas est intemperantia, per totam vitam occurrunt, et sine periculo potest homo circa ea exercitari ad hoc quod sit temperatus; sed pericula mortis et rarius occurrunt, et periculosius in his homo exercitatur ad timiditatem fugiendam. Et ideo intemperantia est simpliciter maius peccatum quam timiditas.

 

[44702] IIª-IIae, q. 142 a. 3 co.
RISPONDO: Un peccato si può confrontare con un altro sotto due aspetti: primo, rispetto alla materia, ossia all'oggetto; secondo, rispetto a colui che pecca. Ebbene, dall'uno e dall'altro lato l'intemperanza è un peccato più grave della codardia. E innanzi tutto rispetto alla materia. Infatti la codardia fugge i pericoli di morte, a evitare i quali si è indotti dal bisogno estremo di conservare la vita. Invece l'intemperanza ha per oggetto i piaceri, la cui brama non è così necessaria per la conservazione della vita: poiché, come abbiamo detto, l'intemperanza riguarda di più certi piaceri o desideri "annessi", che desideri o piaceri naturali. Ora, quanto più ciò che spinge a peccare è naturale, tanto più il peccato è leggero. Perciò l'intemperanza dal lato dell'oggetto, o della materia, è un peccato più grave della codardia.
Lo stesso si dica dal lato di colui che pecca. E questo per tre ragioni. Primo, perché chi fa peccato pecca tanto più gravemente, quanto più è padrone di sé: infatti ai pazzi i delitti non vengono imputati. Ora, i timori e i dolori gravi, e specialmente i pericoli di morte, sconvolgono la mente. Il che invece non avviene col piacere, il quale spinge all'intemperanza.
Secondo, perché quanto più un peccato è volontario, tanto più è grave. E l'intemperanza è più volontaria della codardia. E questo per due motivi. Primo, perché le cose fatte per paura hanno la loro causa in un fattore esterno che minaccia: cosicché tali atti, come dice Aristotele, non sono del tutto volontari, ma misti (di involontarietà). Invece le cose che si fanno per il piacere sono volontarie in senso assoluto. - Secondo, perché gli atti dell'intemperante sono più volontari nel particolare, e meno volontari in universale: nessuno infatti vorrebbe essere intemperante; ma ci si lascia attrarre dai singoli piaceri che rendono intemperanti. Ecco perché il rimedio migliore per fuggire l'intemperanza sta nel non fermarsi a considerare il singolare. Invece nella codardia avviene il contrario. Infatti i singoli gesti di paura sono meno volontari, come gettare lo scudo: invece è più volontario lo scopo universale, cioè salvarsi con la fuga. Ora, in senso assoluto è più volontario ciò che è più volontario sul piano dei singolari, in cui l'atto si produce. Perciò l'intemperanza, essendo in senso assoluto più volontaria della codardia, è un peccato più grave.
Terzo, perché contro l'intemperanza il rimedio è più facile che contro la codardia: poiché i piaceri gastronomici e venerei, che sono oggetto dell'intemperanza, capitano durante tutta la vita, e l'uomo può esercitarsi a resistervi senza pericolo, per acquistare la temperanza; invece i pericoli di morte capitano di rado, ed è rischioso esercitarsi in essi per fuggire la codardia.
Dunque l'intemperanza, assolutamente parlando, è un peccato più grave della codardia.

[44703] IIª-IIae, q. 142 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod excellentia fortitudinis supra temperantiam potest considerari dupliciter. Uno modo, ex parte finis, quod pertinet ad rationem boni, quia scilicet fortitudo magis ordinatur ad bonum commune quam temperantia. Ex hac etiam parte timiditas habet quandam excellentiam supra intemperantiam, inquantum scilicet per timiditatem aliqui desistunt a defensione boni communis. Alio modo, ex parte difficultatis, inquantum scilicet difficilius est subire pericula mortis quam abstinere a quibusdam delectabilibus. Et quantum ad hoc, non oportet quod timiditas praecellat intemperantiam. Sicut enim maioris virtutis est non vinci a fortiori, ita etiam e contrario minoris vitii est a fortiori vinci, et maioris vitii a debiliori superari.

 

[44703] IIª-IIae, q. 142 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La superiorità della fortezza sulla temperanza si può desumere da due motivi. Primo, dal fine, dal quale si desume la bontà di una cosa: la fortezza infatti è più ordinata al bene comune che la temperanza. E da questo lato la codardia ha una certa superiorità sull'intemperanza: poiché per codardia alcuni tralasciano di difendere il bene comune. - Secondo, si può desumere dalla difficoltà: infatti è più difficile affrontare i pericoli di morte che astenersi da qualsiasi piacere. Ma da questo non segue che la codardia sia più grave dell'intemperanza. Infatti come è indice di una virtù superiore non lasciarsi vincere da difficoltà più forti, così al contrario è un peccato meno grave lasciarsi vincere da una difficoltà maggiore, ed è un peccato più rilevante lasciarsi vincere da difficoltà più leggere.

[44704] IIª-IIae, q. 142 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod amor conservationis vitae, propter quam vitantur pericula mortis, est multo magis connaturalis quam quaecumque delectationes ciborum vel venereorum, quae ad conservationem vitae ordinantur. Et ideo difficilius est vincere timorem periculorum mortis quam concupiscentiam delectationum, quae est in cibis et venereis. Cui tamen difficilius est resistere quam irae, tristitiae et timori quorundam aliorum malorum.

 

[44704] IIª-IIae, q. 142 a. 3 ad 2
2. L'attaccamento alla vita, per il quale si scansano i pericoli di morte, è molto più connaturale di tutti i piaceri gastronomici o venerei, che sono ordinati alla conservazione della vita. Perciò è più difficile vincere il timore dei pericoli di morte, che il desiderio di tali piaceri. A questi però è più difficile resistere che non all'ira, alla tristezza e al timore di altri mali.

[44705] IIª-IIae, q. 142 a. 3 ad 3
Ad tertium dicendum quod in timiditate consideratur magis voluntarium in universali, minus tamen in particulari. Et ideo in ea est magis voluntarium secundum quid, sed non simpliciter.

 

[44705] IIª-IIae, q. 142 a. 3 ad 3
3. Nella codardia l'atto è più volontario considerato nella sua universalità, ma è meno volontario nel particolare concreto. Perciò essa è più volontaria in un certo senso, ma non in senso assoluto.




Seconda parte > Le azioni umane > La temperanza > I vizi opposti alla temperanza > Se il peccato di intemperanza sia quello più disonorante


Secunda pars secundae partis
Quaestio 142
Articulus 4

[44706] IIª-IIae, q. 142 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod peccatum intemperantiae non sit maxime exprobrabile. Sicut enim honor debetur virtuti, ita exprobratio debetur peccato. Sed quaedam peccata sunt graviora quam intemperantia, sicut homicidium, blasphemia et alia huiusmodi. Ergo peccatum intemperantiae non est maxime exprobrabile.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 142
Articolo 4

[44706] IIª-IIae, q. 142 a. 4 arg. 1
SEMBRA che il peccato di intemperanza non sia quello più disonorante. Infatti:
1. Come l'onore si deve alla virtù, così il disonore è dovuto al peccato. Ma tanti peccati sono più gravi dell'intemperanza: p. es., l'omicidio, la bestemmia, ecc. Dunque il peccato d'intemperanza non è il più disonorante.

[44707] IIª-IIae, q. 142 a. 4 arg. 2
Praeterea, peccata quae sunt magis communia videntur esse minus exprobrabilia, eo quod de his homines minus verecundantur. Sed peccata intemperantiae sunt maxime communia, quia sunt circa ea quae communiter in usum humanae vitae veniunt, in quibus etiam plurimi peccant. Ergo peccata intemperantiae non videntur esse maxime exprobrabilia.

 

[44707] IIª-IIae, q. 142 a. 4 arg. 2
2. I peccati più comuni sono meno disonoranti: poiché gli uomini se ne vergognano di meno. Ma i peccati d'intemperanza sono quelli più comuni: avendo essi per oggetto le cose di uso più comune nella vita umana, nelle quali molti peccano. Perciò i peccati d'intemperanza non sono i più disonoranti.

[44708] IIª-IIae, q. 142 a. 4 arg. 3
Praeterea, philosophus dicit, in VII Ethic., quod temperantia et intemperantia sunt circa concupiscentias et delectationes humanas. Sunt autem quaedam concupiscentiae et delectationes turpiores concupiscentiis et delectationibus humanis, quae dicuntur bestiales et aegritudinales, ut in eodem libro philosophus dicit. Ergo intemperantia non est maxime exprobrabilis.

 

[44708] IIª-IIae, q. 142 a. 4 arg. 3
3. Il Filosofo afferma, che "temperanza e intemperanza riguardano concupiscenze e piaceri umani". Ora, ci sono desideri e piaceri più turpi di questi, che il Filosofo denomina "bestiali e morbosi". Quindi l'intemperanza non è il vizio più disonorante.

[44709] IIª-IIae, q. 142 a. 4 s. c.
Sed contra est quod philosophus dicit, in III Ethic., quod intemperantia inter alia vitia videtur iuste exprobrabilis esse.

 

[44709] IIª-IIae, q. 142 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: Il Filosofo insegna, che l'intemperanza tra gli altri vizi "sembra giustamente disonorante".

[44710] IIª-IIae, q. 142 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod exprobratio opponi videtur honori et gloriae. Honor autem excellentiae debetur, ut supra habitum est, gloria autem claritatem importat. Est igitur intemperantia maxime exprobrabilis, propter duo. Primo quidem, quia maxime repugnat excellentiae hominis, est enim circa delectationes communes nobis et brutis, ut supra habitum est. Unde et in Psalmo dicitur, homo, cum in honore esset, non intellexit, comparatus est iumentis insipientibus, et similis factus est illis. Secundo, quia maxime repugnat eius claritati vel pulchritudini, inquantum scilicet in delectationibus circa quas est intemperantia, minus apparet de lumine rationis, ex qua est tota claritas et pulchritudo virtutis. Unde et huiusmodi delectationes dicuntur maxime serviles.

 

[44710] IIª-IIae, q. 142 a. 4 co.
RISPONDO: Il disonore si contrappone all'onore e alla gloria. Ora, l'onore, come sopra abbiamo visto, è dovuto all'eccellenza; mentre la gloria implica lustro o distinzione. Perciò l'intemperanza è sommamente disonorante per due motivi. Primo, perché è la cosa più incompatibile con l'eccellenza, o grandezza dell'uomo: infatti essa ha per oggetto i piaceri comuni a noi e alle bestie, come sopra abbiamo notato. Di qui le parole dei Salmi: "L'uomo non ha compreso il proprio onore: si è messo alla pari dei giumenti irragionevoli e diviene simile ad essi". - Secondo, perché essa ripugna al massimo alla distinzione e alla bellezza dell'uomo: poiché nei piaceri che sono oggetto dell'intemperanza la luce della ragione, da cui dipende tutto lo splendore e la bellezza della virtù, viene oscurata al massimo. Cosicché questi piaceri si dicono sommamente servili.

[44711] IIª-IIae, q. 142 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod, sicut Gregorius dicit, vitia carnalia, quae sub intemperantia continentur, etsi sint minoris culpae, sunt tamen maioris infamiae. Nam magnitudo culpae respicit deordinationem a fine, infamia autem respicit turpitudinem, quae maxime consideratur secundum indecentiam peccantis.

 

[44711] IIª-IIae, q. 142 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice S. Gregorio, i vizi carnali, compresi sotto il nome d'intemperanza, sebbene siano di minore gravità, sono però più infamanti. Infatti la gravità della colpa si desume dal suo allontanamento dal fine: invece l'infamia si desume dalla turpitudine, che risulta specialmente dalla degradazione di chi pecca.

[44712] IIª-IIae, q. 142 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod consuetudo peccandi diminuit turpitudinem et infamiam peccati secundum opinionem hominum, non autem secundum naturam ipsorum vitiorum.

 

[44712] IIª-IIae, q. 142 a. 4 ad 2
2. Il generalizzarsi di un peccato ne diminuisce la turpitudine e l'infamia nell'opinione degli uomini; ma non nella natura stessa del peccato.

[44713] IIª-IIae, q. 142 a. 4 ad 3
Ad tertium dicendum quod cum dicitur intemperantia maxime esse exprobrabilis, est intelligendum inter vitia humana, quae scilicet attenduntur secundum passiones humanae naturae aliqualiter conformes. Sed illa vitia quae excedunt modum humanae naturae, sunt magis exprobrabilia. Et tamen illa etiam videntur reduci ad genus intemperantiae secundum quendam excessum, sicut si aliquis delectaretur in comestione carnium humanarum, aut in coitu bestiarum aut masculorum.

 

[44713] IIª-IIae, q. 142 a. 4 ad 3
3. Quando si dice che l'intemperanza è il vizio più disonorante, s'intende tra i peccati umani, cioè nell'ambito delle passioni che in qualche modo sono conformi alla natura umana. Ma quei peccati che sorpassano i limiti della natura umana sono ancora più disonoranti. Tuttavia anche questi sembrano ridursi per eccesso al genere dell'intemperanza: il fatto, p. es., di provar gusto nel mangiare carne umana, o nel coito bestiale od omosessuale.

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