“L’Europa nella crisi
delle culture” di Joseph Ratzinger
Nel
ricevere a Subiaco,
mercoledì, 27 aprile 2005 il “Premio San Benedetto”
Riportiamo di seguito il testo
integrale della conferenza tenuta venerdì 1° aprile scorso a Subiaco, presso il
Monastero di Santa Scolastica, dal cardinale Joseph Ratzinger in occasione
della consegna del "Premio San Benedetto per la promozione della vita e
della famiglia in Europa", conferitogli dalla Fondazione Sublacense Vita e
Famiglia.
Nella motivazione del Premio
si legge: “La capacità di discernimento e la vastissima preparazione teologica
e culturale, rendono il Card. J. Ratzinger una tra le voci più autorevoli e più
ascoltate della cultura contemporanea. Nella sua opera la Giuria ha
riconosciuto la via maestra per un rinnovato umanesimo europeo e per questo è
onorata di assegnare a Sua Eminenza il Premio S. Benedetto edizione
* * *
L’EUROPA NELLA CRISI
DELLE CULTURE
di Joseph Ratzinger
Viviamo un momento di grandi pericoli e di grandi opportunità per l’uomo e per
il mondo, un momento che è anche di grande responsabilità per tutti noi.
Durante il secolo passato le possibilità dell’uomo e il suo dominio sulla
materia sono cresciuti in misura davvero impensabile. Ma il suo poter disporre
del mondo ha anche fatto sì che il suo potere di distruzione abbia raggiunto
delle dimensioni che, a volte, ci fanno inorridire.
A tale proposito viene spontaneo pensare alla minaccia del terrorismo, questa
nuova guerra senza confini e senza fronti. Il timore che esso possa presto
impossessarsi delle armi nucleari e biologiche non è infondato e ha fatto sì
che, all’interno degli Stati di diritto, si sia dovuti ricorrere a sistemi di
sicurezza simili a quelli che prima esistevano soltanto nelle dittature; ma
rimane comunque la sensazione che tutte queste precauzioni in realtà non
possano mai bastare, non essendo possibile né desiderabile un controllo
globale.
Meno visibili, ma non per questo meno inquietanti, sono le possibilità di
automanipolazione che l’uomo ha acquisito. Egli ha scandagliato i recessi
dell’essere, ha decifrato le componenti dell’essere umano, e ora è in grado,
per così dire, di “costruire” da sé l’uomo, che così non viene più al mondo
come dono del Creatore, ma come prodotto del nostro agire, prodotto che,
pertanto, può anche essere selezionato secondo le esigenze da noi stessi
fissate.
Così, su quest’uomo non brilla più lo splendore del suo essere immagine di Dio,
che è ciò che gli conferisce la sua dignità e la sua inviolabilità, ma soltanto
il potere delle capacità umane. Egli non è più altro che immagine dell’uomo –
di quale uomo? A questo si aggiungono i grandi problemi planetari: la
disuguaglianza nella ripartizione dei beni della terra, la crescente povertà,
anzi l’impoverimento, lo sfruttamento della terra e delle sue risorse, la fame,
le malattie che minacciano tutto il mondo, lo scontro delle culture.
Tutto ciò mostra che al crescere delle nostre possibilità non corrisponde un
uguale sviluppo della nostra energia morale. La forza morale non è cresciuta
assieme allo sviluppo della scienza, anzi, piuttosto è diminuita, perché la
mentalità tecnica confina la morale nell’ambito soggettivo, mentre noi abbiamo
bisogno proprio di una morale pubblica, una morale che sappia rispondere alle
minacce che gravano sull’esistenza di tutti noi. Il vero, più grave pericolo di
questo momento sta proprio in questo squilibrio tra possibilità tecniche ed
energia morale.
La sicurezza, di cui abbiamo bisogno come presupposto della nostra libertà e
della nostra dignità, non può venire in ultima analisi da sistemi tecnici di
controllo, ma può, appunto, scaturire soltanto dalla forza morale dell’uomo:
laddove essa manca o non è sufficiente, il potere che l’uomo ha si trasformerà
sempre di più in un potere di distruzione.
È vero che oggi esiste un nuovo moralismo le cui parole-chiave sono giustizia,
pace, conservazione del creato, parole che richiamano dei valori morali
essenziali di cui abbiamo davvero bisogno. Ma questo moralismo rimane vago e
scivola così, quasi inevitabilmente, nella sfera politico-partitica. Esso è
anzitutto una pretesa rivolta agli altri, e troppo poco un dovere personale
della nostra vita quotidiana. Infatti, cosa significa giustizia? Chi lo
definisce? Che cosa serve alla pace? Negli ultimi decenni abbiamo visto
ampiamente nelle nostre strade e sulle nostre piazze come il pacifismo possa
deviare verso un anarchismo distruttivo e verso il terrorismo. Il moralismo
politico degli anni Settanta, le cui radici non sono affatto morte, fu un
moralismo che riuscì ad affascinare anche dei giovani pieni di ideali. Ma era
un moralismo con indirizzo sbagliato in quanto privo di serena razionalità, e
perché, in ultima analisi, metteva l’utopia politica al di sopra della dignità
del singolo uomo, mostrando persino di poter arrivare, in nome di grandi
obbiettivi, a disprezzare l’uomo.
Il moralismo politico, come l’abbiamo vissuto e come lo viviamo ancora, non
solo non apre la strada a una rigenerazione, ma la blocca. Lo stesso vale, di
conseguenza, anche per un cristianesimo e per una teologia che riducono il
nocciolo del messaggio di Gesù, il “Regno di Dio”, ai “valori del Regno”,
identificando questi valori con le grandi parole d’ordine del moralismo
politico, e proclamandole, nello stesso tempo, come sintesi delle religioni.
Dimenticandosi però, così, di Dio, nonostante sia proprio Lui il soggetto e la
causa del Regno di Dio. Al suo posto rimangono grandi parole (e valori) che si
prestano a qualsiasi tipo di abuso.
Questo breve sguardo sulla situazione del mondo ci porta a riflettere
sull’odierna situazione del cristianesimo, e perciò anche sulle basi
dell’Europa; quell’Europa che un tempo, possiamo dire, è stata il continente
cristiano, ma che è stata anche il punto di partenza di quella nuova
razionalità scientifica che ci ha regalato grandi possibilità e altrettanto
grandi minacce. Il cristianesimo non è certo partito dall’Europa, e dunque non
può essere neanche classificato come una religione europea, la religione dell’ambito
culturale europeo. Ma proprio in Europa ha ricevuto la sua impronta culturale e
intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciato in modo
speciale all’Europa.
D’altra parte è anche vero che quest’Europa, sin dai tempi del Rinascimento, e
in forma compiuta dai tempi dell’illuminismo, ha sviluppato proprio quella
razionalità scientifica che non solo nell’epoca delle scoperte portò all’unità
geografica del mondo, all’incontro dei continenti e delle culture, ma che
adesso, molto più profondamente, grazie alla cultura tecnica resa possibile
dalla scienza, impronta di sé veramente tutto il mondo, anzi, in un certo senso
lo uniforma. E sulla scia di questa forma di razionalità, l’Europa ha
sviluppato una cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità,
esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia che
la sua esistenza venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque
appartenente all’ambito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque irrilevante
per la vita pubblica.
Questa razionalità puramente funzionale, per così dire, ha comportato uno
sconvolgimento della coscienza morale altrettanto nuovo per le culture finora
esistite, poiché sostiene che razionale è soltanto ciò che si può provare con
degli esperimenti. Siccome la morale appartiene ad una sfera del tutto diversa,
essa, come categoria a sé, sparisce e deve essere rintracciata in altro modo,
in quanto bisogna ammettere che comunque la morale, in qualche modo, ci vuole.
In un mondo basato sul calcolo, è il calcolo delle conseguenze che determina
cosa bisogna considerare morale oppure no. E così la categoria di bene, come
era stata evidenziata chiaramente da Kant, sparisce. Niente in sé è bene o
male, tutto dipende dalle conseguenze che un’azione lascia prevedere.
Se il cristianesimo, da una parte, ha trovato la sua forma più efficace in
Europa, bisogna d’altra parte anche dire che in Europa si è sviluppata una
cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del
cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’umanità. Da qui si
capisce che l’Europa sta sperimentando una vera e propria “prova di trazione”;
da qui si capisce anche la radicalità delle tensioni alle quali il nostro
continente deve far fronte. Ma qui emerge anche e soprattutto la responsabilità
che noi europei dobbiamo assumerci in questo momento storico: nel dibattito
intorno alla definizione dell’Europa, intorno alla sua nuova forma politica,
non si gioca una qualche nostalgica battaglia “di retroguardia” della storia,
ma piuttosto una grande responsabilità per l’umanità di oggi.
Diamo uno sguardo più accurato a questa contrapposizione tra le due culture che
hanno contrassegnato l’Europa. Nel dibattito sul preambolo della Costituzione europea,
tale contrapposizione si è evidenziata in due punti controversi: la questione
del riferimento a Dio nella Costituzione e quella della menzione delle radici
cristiane dell’Europa. Visto che nell’articolo 52 della Costituzione sono
garantiti i diritti istituzionali delle Chiese, possiamo stare tranquilli, si
dice. Ma ciò significa che esse, nella vita dell’Europa, trovano posto
nell’ambito del compromesso politico, mentre, nell’ambito delle basi
dell’Europa, l’impronta del loro contenuto non trova alcuno spazio. Le ragioni
che si danno nel dibattito pubblico per questo netto “no” sono superficiali, ed
è evidente che più che indicare la vera motivazione, la coprono. L’affermazione
che la menzione delle radici cristiane dell’Europa ferisce i sentimenti dei
molti non-cristiani che ci sono in Europa, è poco convincente, visto che si
tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può seriamente negare.
Naturalmente questo cenno storico contiene anche un riferimento al presente,
dal momento che, con la menzione delle radici, si indicano le fonti residue di
orientamento morale, e cioè un fattore d’identità di questa formazione che è
l’Europa. Chi verrebbe offeso? L’identità di chi viene minacciata? I musulmani,
che a tale riguardo spesso e volentieri vengono tirati in ballo, non si sentono
minacciati dalle nostre basi morali cristiane, ma dal cinismo di una cultura
secolarizzata che nega le proprie basi. E anche i nostri concittadini ebrei non
vengono offesi dal riferimento alle radici cristiane dell’Europa, in quanto
queste radici risalgono fino al monte Sinai: portano l’impronta della voce che
si fece sentire sul monte di Dio e ci uniscono nei grandi orientamenti
fondamentali che il decalogo ha donato all’umanità. Lo stesso vale per il
riferimento a Dio: non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad
altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana
assolutamente senza Dio.
Le motivazioni per questo duplice “no” sono più profonde di quel che lasciano
pensare le motivazioni avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cultura
illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro
tempo, potrebbe essere costitutiva per l’identità europea. Accanto ad essa
possono dunque coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi
diritti, a condizione che e nella misura in cui rispettino i criteri della
cultura illuminista e si subordinino ad essa.
Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà;
essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la
libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello
Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta
in dubbio proprio questo canone; l’ordinamento democratico dello Stato, e cioè
il controllo parlamentare sugli organismi statali; la libera formazione di
partiti; l’indipendenza della magistratura; e infine la tutela dei diritti
dell’uomo ed il divieto di discriminazioni. Qui il canone è ancora in via di formazione,
visto che ci sono anche diritti dell’uomo contrastanti, come per esempio nel
caso del contrasto tra la voglia di libertà della donna e il diritto alla vita
del nascituro.
Il concetto di discriminazione viene sempre più allargato, e così il divieto di
discriminazione può trasformarsi sempre di più in una limitazione della libertà
di opinione e della libertà religiosa. Ben presto non si potrà più affermare
che l’omosessualità, come insegna la Chiesa cattolica, costituisce un obiettivo
disordine nello strutturarsi dell’esistenza umana. Ed il fatto che la Chiesa è
convinta di non avere il diritto di dare l’ordinazione sacerdotale alle donne
viene considerato, da alcuni, fin d’ora inconciliabile con lo spirito della
Costituzione europea.
È evidente che questo canone della cultura illuminista, tutt’altro che
definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani,
non vogliamo e non possiamo fare a meno; ma è altrettanto evidente che la
concezione mal definita o non definita affatto di libertà, che sta alla base di
questa cultura, inevitabilmente comporta contraddizioni; ed è evidente che
proprio per via del suo uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni
della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche ad immaginarci. Una
confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando
sempre più ostile verso la libertà.
Dovremo senz’altro tornare ancora sulla questione delle contraddizioni interne
alla forma attuale della cultura illuminista. Ma prima dobbiamo finire di
descriverla. Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha
finalmente completa coscienza di se stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi
come compiuta in se stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso
altri fattori culturali.
Entrambe queste caratteristiche si vedono chiaramente quando si pone la
questione su chi possa diventare membro della Comunità europea, e soprattutto
nel dibattito circa l’ingresso della Turchia in questa Comunità. Si tratta di
uno Stato, o forse meglio, di un ambito culturale, che non ha radici cristiane,
ma che è stato influenzato dalla cultura islamica. Ataturk ha poi cercato di
trasformare la Turchia in uno Stato laicista, tentando di impiantare il
laicismo maturato nel mondo cristiano dell’Europa su un terreno musulmano.
Ci si può chiedere se ciò sia possibile: secondo la tesi della cultura
illuminista e laicista dell’Europa, soltanto le norme e i contenuti della
stessa cultura illuminista potranno determinare l’identità dell’Europa e, di
conseguenza, ogni Stato che fa suoi questi criteri, potrà appartenere
all’Europa. Non importa, alla fine, su quale intreccio di radici questa cultura
della libertà e della democrazia viene impiantata. È proprio per questo, si
afferma, che le radici non possono entrare nella definizione dei fondamenti
dell’Europa, trattandosi di radici morte che non fanno parte dell’identità
attuale. Di conseguenza, questa nuova identità, determinata esclusivamente
dalla cultura illuminista, comporta anche che Dio non c’entri niente con la
vita pubblica e con le basi dello Stato.
Così tutto diventa logico, e anche plausibile in qualche modo. Infatti, che
cosa potremmo augurarci di più bello se non che dappertutto vengano rispettati
la democrazia e i diritti umani? Ma qui si impone comunque la domanda se questa
cultura illuminista laicista sia davvero la cultura, scoperta come finalmente
universale, di una ragione comune a tutti gli uomini; cultura che dovrebbe
avere accesso dappertutto, seppure su di un humus storicamente e culturalmente
differenziato. E ci si chiede anche se è davvero compiuta in sé stessa, tanto
da non avere bisogno di alcuna radice al di fuori di sé.
Significato e limiti della attuale cultura razionalista
Dobbiamo ora affrontare queste ultime
due domande. Alla prima, e cioè alla domanda se si sia raggiunta la filosofia
universalmente valida e finalmente diventata del tutto scientifica, nella quale
si esprimerebbe la ragione comune a tutti gli uomini, bisogna rispondere che
indubbiamente si è arrivati a delle acquisizioni importanti che possono
pretendere una validità generale: l’acquisizione che la religione non può
essere imposta dallo Stato, ma che può essere accolta soltanto nella libertà;
il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo uguali per tutti; la separazione
dei poteri e il controllo del potere.
Non si può pensare, comunque, che questi valori fondamentali, riconosciuti da
noi come generalmente validi, possano essere realizzati nello stesso modo in
ogni contesto storico. Non in tutte le società ci sono i presupposti
sociologici per una democrazia basata su partiti, come si dà in Occidente;
così, la completa neutralità religiosa dello Stato, nella maggior parte dei
contesti storici, è da considerarsi un’illusione.
E con ciò veniamo ai problemi sollevati dalla seconda domanda. Ma chiariamo
prima la questione se le moderne filosofie illuministe, complessivamente
considerate, si possano ritenere l’ultima parola della ragione comune a tutti
gli uomini. Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono
positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che, alla fine, Dio non può
avere in esse alcun posto. Esse sono basate su una autolimitazione della
ragione positiva, che è adeguata nell’ambito tecnico, ma che, laddove viene
generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo. Ne consegue che
l’uomo non ammette più alcuna istanza morale al di fuori dei suoi calcoli e,
come abbiamo visto, anche che il concetto di libertà, che a tutta prima
potrebbe sembrare espandersi in modo illimitato, alla fine porta
all’autodistruzione della libertà.
È vero che le filosofie positivistiche contengono importanti elementi di
verità. Questi sono però basati su un’autolimitazione della ragione tipica di
una determinata situazione culturale – quella dell’Occidente moderno –, non
potendo di certo essere come tali l’ultima parola della ragione. Nonostante
sembrino totalmente razionali, non sono la voce della ragione stessa, ma sono
anch’esse vincolate culturalmente, vincolate cioè alla situazione
dell’Occidente di oggi. Perciò non sono affatto quella filosofia che un giorno
dovrebbe essere valida in tutto il mondo. Ma soprattutto bisogna dire che
questa filosofia illuminista e la sua rispettiva cultura sono incomplete. Essa
taglia coscientemente le proprie radici storiche privandosi delle forze sorgive
dalle quali essa stessa è scaturita, quella memoria fondamentale dell’umanità,
per così dire, senza la quale la ragione perde l’orientamento.
Infatti adesso vale il principio che la capacità dell’uomo sia la misura del
suo agire. Ciò che si sa fare, si può anche fare. Un saper fare separato dal
poter fare non esiste più, perché sarebbe contro la libertà, che è il valore
supremo in assoluto. Ma l’uomo sa fare tanto, e sa fare sempre di più; e se
questo saper fare non trova la sua misura in una norma morale, diventa, come
possiamo già vedere, potere di distruzione. L’uomo sa clonare uomini, e perciò
lo fa. L’uomo sa usare uomini come “magazzino” di organi per altri uomini, e
perciò lo fa; lo fa perché sembrerebbe essere questa una esigenza della sua
libertà. L’uomo sa costruire bombe atomiche, e perciò le fa, essendo, in linea
di principio, anche disposto ad usarle. Anche il terrorismo, alla fine, si basa
su questa modalità di “auto-autorizzazione” dell’uomo, e non sugli insegnamenti
del Corano.
Il radicale distacco della filosofia illuminista dalle sue radici diventa, in
ultima analisi, un fare a meno dell’uomo. L’uomo, in fondo, non ha alcuna
libertà, ci dicono i portavoce delle scienze naturali, in totale contraddizione
col punto di partenza di tutta la questione. Egli non deve credere di essere
qualcos’altro rispetto a tutti gli altri esseri viventi, e perciò dovrebbe
anche essere trattato come loro, ci dicono persino i portavoce più avanzati di
una filosofia nettamente separata dalle radici della memoria storica
dell’umanità.
Ci eravamo posti due domande: se la filosofia razionalista (positivistica) sia
strettamente razionale, e di conseguenza universalmente valida, e se sia
completa. Basta a se stessa? Può, o addirittura deve, relegare le sue radici
storiche nell’ambito del puro passato, e quindi nell’ambito di ciò che può
essere valido soltanto soggettivamente? Dobbiamo rispondere a tutte due le
domande con un netto “no”. Questa filosofia non esprime la compiuta ragione
dell’uomo, ma soltanto una parte di essa, e per via di questa mutilazione della
ragione non la si può considerare affatto razionale. Per questo è anche
incompleta, e può guarire soltanto ristabilendo di nuovo il contatto con le sue
radici. Un albero senza radici si secca…
Affermando questo non si nega tutto ciò che questa filosofia dice di positivo e
importante, ma si afferma piuttosto il suo bisogno di compiutezza, la sua
profonda incompiutezza. E così ci troviamo di nuovo a parlare dei due punti
controversi del preambolo della Costituzione europea. L’accantonamento delle
radici cristiane non si rivela espressione di una superiore tolleranza che rispetta
tutte le culture allo stesso modo, non volendo privilegiarne alcuna, bensì come
l’assolutizzazione di un pensare e di un vivere che si contrappongono
radicalmente, fra l’altro, alle altre culture storiche dell’umanità.
La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra
diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da
Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose
dall’altra. Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per lo
scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma
che, alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre –, ma sarà
per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture
storiche.
Così, anche il rifiuto del riferimento a Dio, non è espressione di una
tolleranza che vuole proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli
atei e degli agnostici, ma piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe
vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita pubblica dell’umanità e
accantonato nell’ambito soggettivo di residue culture del passato. Il
relativismo, che costituisce il punto di partenza di tutto questo, diventa così
un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della
ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio
dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato. In
realtà ciò significa che abbiamo bisogno di radici per sopravvivere e che non
dobbiamo perdere Dio di vista, se vogliamo che la dignità umana non sparisca.
Il significato permanente della
fede cristiana
Questo è un semplice rifiuto dell’illuminismo e della modernità? Assolutamente
no. Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la
religione del logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i
suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’illuminismo
filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla
ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di
tutti gli dèi.
In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là
dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione
come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede.
Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di
Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei
limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità.
In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso
proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il
cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e
religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità -
anche della nostra fede - sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la
voce della ragione era stata troppo addomesticata.
É stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali
del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio
Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha
nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed
illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e
modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti.
Con tutto ciò, bisogna che tutte e due le parti riflettano su se stesse e siano
pronte a correggersi. Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la
religione del logos. Esso è fede nel Creator
spiritus, nello Spirito creatore, dal quale proviene tutto il reale.
Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in quanto il problema
è se il mondo provenga dall’irrazionale, e la ragione non sia dunque altro che
un “sottoprodotto”, magari pure dannoso, del suo sviluppo, o se il mondo
provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua
meta.
La fede cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di
vista puramente filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante
sia la prima tesi ad essere considerata oggi da tanti la sola “razionale” e
moderna. Ma una ragione scaturita dall’irrazionale, e che è, alla fin fine,
essa stessa irrazionale, non costituisce una soluzione ai nostri problemi.
Soltanto la ragione creatrice, e che nel Dio crocifisso si è manifestata come
amore, può veramente mostrarci la via. Nel dialogo, così necessario, tra laici
e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restare fedeli a
questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal logos, dalla ragione
creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale.
Ma a questo punto vorrei, nella mia qualità di credente, fare una proposta ai
laici. Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le
norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non
daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle
confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i
valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro
un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e
incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le
basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca
sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal
cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più
così.
La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata
al di là di tutte le differenze, è fallita. Neppure lo sforzo, davvero
grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa.
Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura
ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e
l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente,
per lui non era possibile alcun agire morale.
La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa
aver ragione? Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all’estremo,
di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre
di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo.
Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non
riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di
vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci
fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il
consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così
nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un
sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno.
Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono
uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in
questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e
vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta
all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso
Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui
intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo
che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore
possa aprire il cuore degli altri.
Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso
gli uomini. Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un
tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più
estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire
alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con
tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo.
Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli. Le raccomandazioni
ai suoi monaci poste alla fine della sua regola, sono indicazioni che mostrano
anche a noi la via che conduce in alto, fuori dalle crisi e dalle macerie.
“Come c’è uno zelo amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è
uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. È a
questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: si
prevengano l’un l’altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza a
vicenda le loro infermità fisiche e morali… Si vogliano bene l’un l’altro con
affetto fraterno… Temano Dio nell’amore… Nulla assolutamente antepongano a
Cristo il quale ci potrà condurre tutti alla vita eterna” (capitolo 72).