LIBERTAS
Di fronte ai tanti problemi, anche nuovi, che la
società presenta, a partire dall’aspra lotta di classe che si concretizza in
scioperi e serrate, torna quanto mai attuale l’interrogativo sul concetto di
libertà. Pertanto, Leone XIII, che aveva già esaminato i problemi di fondo
della vita politica e amministrativa del mondo moderno nell’Enciclica Diuturnum illud del
29 giugno 1881, e quelli della costituzione degli Stati nell’Enciclica Immortale Dei
dell’1 novembre 1885, in questo documento si diffonde nell’esame minuzioso
della libertà, dono di natura concesso da Dio alle creature dotate d’intelletto
e di ragione.
Condanna gli errori del liberalismo che,
patrocinando una libertà ad oltranza, favorisce l’anarchia, cui segue
inevitabilmente la tirannide. Condanna quanti, in nome della libertà,
sostengono la separazione dello Stato dalla Chiesa. Mette in guardia contro i
rischi della libertà illimitata, senza regole, in materia di parola, di stampa
e d’insegnamento. Afferma che la Chiesa è sempre stata ed è fautrice delle
libertà civili praticate senza intemperanza.
A tutti i Patriarchi,
Primati, Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico che sono in grazia e
comunione con la Sede Apostolica.
Il
Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
La
libertà, nobilissimo dono di natura, proprio unicamente di creature dotate
d’intelletto e di ragione, attribuisce all’uomo la dignità di essere «in mano
del proprio arbitrio» e di essere padrone delle proprie azioni. Tuttavia è
molto importante stabilire in che modo tale dignità debba manifestarsi, poiché
dall’uso della libertà possono derivare grandi vantaggi ma anche grandi mali.
Infatti, è facoltà dell’uomo ubbidire alla ragione, seguire il bene morale,
tendere direttamente al suo fine ultimo. Ma egli può anche deviare verso
tutt’altri scopi e, perseguendo false immagini del bene, può turbare l’ordine
prestabilito e precipitare in volontaria rovina. Gesù Cristo, liberatore del genere
umano, restaurando ed elevando la primitiva dignità di natura, giovò moltissimo
alla volontà dell’uomo e la innalzò verso miglior segno, ora soccorrendola con
la sua grazia, ora proponendo la sempiterna felicità nei cieli. Per tale motivo
la Chiesa cattolica ha giovato e gioverà sempre a questo eccellente bene di
natura, poiché è sua missione diffondere in tutto il corso dei secoli i
benefici recati a noi da Gesù Cristo. Eppure sono molti coloro che considerano
la Chiesa contraria alla libertà umana. La causa di tale pregiudizio proviene
da un perverso e confuso concetto di libertà, che viene snaturato nella sua
essenza o allargato più del giusto, in modo da coinvolgere situazioni nelle
quali l’uomo non può essere libero, se si vuol giudicare rettamente.
In
altre occasioni, e soprattutto nella Enciclica Immortale Dei, discorremmo delle cosiddette libertà moderne,
facendo distinzione tra ciò che è onesto e il suo contrario; dimostrammo ad un
tempo che ciò che vi è di buono in quelle libertà è tanto antico quanto la
verità e che la Chiesa lo ha sempre favorevolmente approvato e messo in
pratica. Ciò che vi aggiunse di nuovo, a dire il vero, consiste nella parte più
corrotta che provenne da tempi turbolenti e da eccessiva brama di novità. Ma
poiché vi sono molti che si ostinano nella opinione che quelle libertà, anche
quando siano segnate dal male, sono da considerare come il sommo vanto della
nostra età e il necessario fondamento delle formazioni statali, così che, senza
di quelle, negano che si possa concepire un perfetto governo dello Stato, Ci
sembra sia necessario trattare specificamente tale argomento, avendo come
obiettivo il pubblico bene.
Noi
perseguiamo direttamente la libertà morale, sia che riguardi le singole
persone, sia il civile consorzio. Prima però è opportuno trattare brevemente
della libertà naturale poiché, sebbene si distingua affatto da quella morale,
tuttavia costituisce la fonte e il principio donde scaturisce spontaneamente
ogni forma di libertà. La ragione e il generale senso comune, autentica voce di
natura, riconoscono la libertà soltanto in quegli esseri che sono dotati
d’intelligenza o di razionalità, e in ciò sta il motivo per cui l’uomo è
considerato giustamente responsabile delle sue azioni. Infatti, mentre gli
altri animali sono guidati soltanto dai sensi e per solo istinto di natura
cercano ciò che loro giova, e fuggono da quanto loro nuoce, l’uomo invece ha
come guida la ragione nelle singole vicende della vita. La ragione giudica se
tutti e i singoli beni che esistono sulla terra hanno o non hanno carattere di
necessità e perciò, constatando che nessuno di essi è da considerare
necessario, concede alla volontà il potere di scegliere ciò che preferisce.
Ma
l’uomo può giudicare il carattere contingente (come suol dirsi) dei beni
sopraddetti per il motivo che ha un’anima semplice per natura, spirituale,
dotata di pensiero; e proprio perché siffatta, non trae origine dalla materia
né dipende da essa per sussistere, ma creata direttamente da Dio e trascendendo
di gran lunga la comune condizione dei corpi, ha un suo proprio genere di vita
e di azione; ne deriva che, conosciute le immutabili e necessarie ragioni del
vero e del bene, si rende conto che quei beni particolari non sono necessari.
Pertanto, quando si stabilisce che l’anima umana è separata da ogni concrezione
mortale e ha facoltà di pensare, nello stesso tempo si colloca la naturale
libertà sul suo più saldo fondamento.
Invero,
la natura semplice, spirituale e immortale dell’anima umana, e la libertà non
sono state proclamate a gran voce, né con maggiore costanza da nessuno come
dalla Chiesa cattolica, la quale insegnò in ogni tempo l’uno e l’altro
principio e lo sostenne come un dogma. Non solo: contro i predicatori di eresie
e i fautori di nuove dottrine, la Chiesa assunse il patrocinio della libertà e
preservò dalla distruzione un così grande bene dell’uomo. A questo proposito,
opere letterarie testimoniano con quale vigore essa respinse gl’insani attacchi
dei Manichei e di altri; nessuno ignora con quanto zelo e con quanta energia,
in epoca più recente, sia nel Concilio di Trento, sia poi contro i seguaci di
Giansenio, essa abbia combattuto a favore del libero arbitrio dell’uomo, non
consentendo in alcun tempo o in alcun luogo che potesse sussistere il
fatalismo.
Pertanto
la libertà, come abbiamo detto, appartiene a coloro che sono dotati di ragione
o d’intelligenza; se si considera la sua natura, essa non è altro che la
facoltà di scegliere i mezzi idonei allo scopo che ci si è proposti, in quanto
chi ha la facoltà di scegliere una cosa tra molte, è padrone dei propri atti.
Invero, poiché ogni cosa che sia assunta come causa di desiderio, ha carattere
di bene che prende il nome di utile, il bene è tale per natura in quanto
sollecita un desiderio e perciò il libero arbitrio appartiene alla volontà, o
piuttosto è la volontà stessa, in quanto nell’agire ha facoltà di scelta. Ma la
volontà non si manifesta, se prima non si accese la cognizione intellettuale,
quasi come una fiaccola; cioè, il bene desiderato dalla volontà, è
necessariamente un bene in quanto riconosciuto tale dalla ragione. Tanto più
che in tutti gli atti volontari, la scelta è sempre preceduta dal giudizio
sulla verità dei beni e sul bene da anteporre agli altri. Nessun filosofo
dubita che l’atto di giudicare appartenga alla ragione e non alla volontà.
Dunque, se la libertà è tutt’uno con la volontà che per sua natura è desiderio
sottomesso alla ragione, ne consegue che anch’essa, come la volontà, inclini al
bene conforme a ragione.
Sennonché,
poiché entrambe le facoltà sono lontane dalla perfezione, può accadere, e
spesso accade, che la mente proponga alla volontà ciò che in realtà non è
affatto un bene, ma ha solo un’apparenza di bene e che ad esso la volontà si
adegui. Ma come la possibilità di errare, e l’errare di fatto, è un vizio che
denuncia l’imperfezione della mente, similmente l’appigliarsi a beni fallaci e
apparenti è una prova di libero arbitrio, come la malattia è prova di vita, e
tuttavia denota un vizio di libertà. Così la volontà, in quanto dipende dalla
ragione, quando desidera alcunché di difforme dalla retta ragione, inquina
profondamente la libertà e fa un uso perverso di essa. Per questo motivo Dio
infinitamente perfetto, essendo sommamente intelligente e solo bontà, è anche
sommamente libero e perciò in nessun modo può volere il male della colpa; né lo
possono i beati celesti in quanto contemplano il bene supremo. Saggiamente
Agostino ed altri, contro i Pelagiani, avvertivano che se il sottrarsi al bene
era conforme alla natura e alla perfezione della libertà, allora Dio, Gesù
Cristo, gli Angeli, i Beati, nei quali non sussiste quel potere, o non
sarebbero liberi o certamente lo sarebbero meno perfettamente dell’uomo
pellegrino e imperfetto. Su questo argomento il Dottore Angelico disserta
spesso ampiamente e da lui si può evincere che la facoltà di peccare non
significa libertà ma schiavitù. Acutamente egli dice, commentando le parole di
Gesù Cristo «chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8,34): «Ogni cosa è ciò che le
conviene secondo la propria natura. Quando dunque è mossa per impulso estraneo,
non agisce in modo autonomo, ma per influenza altrui, cioè servilmente. Ora,
l’uomo è ragionevole per natura. Quando dunque agisce secondo ragione, agisce
di propria iniziativa e secondo la propria natura: questa è libertà. Quando
invece commette peccato, agisce contro ragione e allora egli è sospinto quasi
da un altro e imprigionato entro limiti altrui; “perciò chiunque commette il
peccato è schiavo del peccato”». Questa verità era stata individuata
chiaramente anche dagli antichi filosofi, e soprattutto da coloro che per
principio ritenevano essere libero soltanto il sapiente; definivano sapiente,
come è noto, chi avesse appreso a vivere costantemente secondo natura, cioè
onestamente e virtuosamente.
Poiché
tale è nell’uomo la condizione della libertà, era necessario proteggerla con
idonei e saldi presidi che indirizzassero al bene tutti i suoi impulsi e la
ritraessero dal male; altrimenti il libero arbitrio avrebbe recato grave danno
all’uomo. Dapprima fu necessaria la legge, vale a dire una norma che regolasse
le azioni e le omissioni; legge che in senso proprio non può esistere tra gli
animali che agiscono per necessità comunque si comportino: agiscono per impulso
di natura e non possono seguire altro modo di agire. Invece, coloro che godono
della libertà, hanno facoltà di agire, di non agire, di agire in un modo o
altrimenti poiché scelgono ciò che vogliono, facendo precedere quel giudizio
razionale a cui già accennammo. In virtù di tale giudizio non solo si
stabilisce che cosa sia onesto e che cosa sia turpe, ma anche che cosa in
concreto sia il bene da compiere e il male da evitare; la ragione cioè
prescrive alla volontà ove dirigere il desiderio e da dove rimuoverlo, in modo
che l’uomo possa raggiungere il suo fine ultimo, in vista del quale si deve
agire in ogni momento. Ora, questo ordinamento della ragione si chiama legge.
Perciò
la causa prima della necessità della legge va ricercata, come in radice, nello
stesso libero arbitrio dell’uomo, ossia nel fatto che le nostre volontà non
siano in disaccordo con la retta ragione. Nulla si potrebbe dire o pensare di
più perverso e assurdo che il considerare l’uomo esente da legge in quanto
libero per natura: se così fosse, ne conseguirebbe che per essere libero
dovrebbe sottrarsi alla ragione; invece è assai evidente che deve sottostare
alla legge proprio perché libero per natura. Dunque la legge è guida all’uomo
nell’azione, e con premi e castighi lo induce al ben fare e lo allontana dal
peccato. Sovrana su tutto: tale è la legge naturale, scritta e scolpita
nell’anima di ogni uomo, poiché essa non è altro che l’umana ragione che ci
ordina di agire rettamente e ci vieta di peccare. Invero questa norma della
ragione umana non può avere forza di legge se non perché è voce ed interprete
di una ragione più alta, a cui devono essere soggette la nostra mente e la
nostra libertà. La forza della legge infatti consiste nell’imporre doveri e nel
sancire diritti; perciò si fonda tutta sull’autorità, ossia sul potere di
stabilire i doveri e di fissare i diritti, nonché di sanzionare tali
disposizioni con premi e castighi; è chiaro che tutto ciò non potrebbe esistere
nell’uomo, se, legislatore sommo di se stesso, prescrivesse a sé la norma delle
proprie azioni. Dunque ne consegue che la legge di natura sia la stessa legge
eterna, insita in coloro che hanno uso di ragione, e che per essa inclinano
all’azione e al fine dovuto: essa è la medesima eterna ragione di Dio creatore
e reggitore dell’intero universo.
A
questa regola nell’agire e alle remore nel peccare sono stati aggiunti, per
grazia di Dio, altri speciali soccorsi, adattissimi a rafforzare e a regolare
la volontà umana. Sovrasta tra essi ed eccelle la virtù della divina grazia;
essa illumina la mente; sospinge sempre la volontà, rinvigorita da salutare
costanza, verso il bene morale; rende più facile e insieme più sicuro l’uso
della libertà naturale. È ben lontano dalla verità il supporre che l’intervento
di Dio renda meno liberi gl’impulsi volontari: infatti è intima nell’uomo e
conforme alle sue naturali inclinazioni la forza della divina grazia, poiché
deriva dallo stesso Autore dell’anima e della volontà nostra; da Lui ogni cosa
è mossa in conformità della propria natura. Anzi, la grazia divina, come
afferma il Dottore Angelico, per il motivo che deriva dal Creatore della
natura, è mirabilmente concepita ed idonea a tutelare ogni creatura, a
conservare i costumi, la forza, l’efficienza degl’individui.
Quanto
si è detto circa la libertà dei singoli uomini può essere facilmente riferito
agli uomini tra loro uniti in civile consorzio. Infatti, ciò che la ragione e
la legge naturale operano nei singoli uomini, del pari agisce nella società la
legge umana promulgata per il bene comune dei cittadini. Tra le leggi degli
uomini alcune riguardano ciò che per natura è bene o male; esse, corredate
dalla debita sanzione, insegnano a seguire l’uno e a fuggire l’altro. Ma
siffatte disposizioni non traggono origine dalla società umana, poiché come la
stessa società non ha generato la natura umana, così del pari non crea il bene
che conviene alla natura, né il male che ripugna alla natura; piuttosto
precorrono la stessa società civile e sono assolutamente da ricondurre alla
legge naturale e perciò alla legge eterna. Dunque i precetti di diritto
naturale contenuti nelle leggi umane, non hanno solo la forza di legge umana ma
soprattutto comprendono quell’autorità molto più alta e molto più augusta che
proviene dalla stessa legge di natura e dalla legge eterna. In questo genere di
leggi, il dovere del legislatore civile è comunemente quello di condurre
all’obbedienza i cittadini, dopo aver adottato una comune disciplina,
reprimendo i malvagi inclini ai vizi, affinché, distolti dal male, perseguano
la rettitudine o almeno non siano d’impedimento e danno alla società.
Invero,
altre ordinanze del potere civile non derivano subito e direttamente dal
diritto naturale, ma da più lontano e in modo obliquo, e definiscono varie
questioni che la natura non ha definito se non in generale e in modo
indeterminato. Così la natura comanda che i cittadini contribuiscano alla
tranquillità e alla prosperità pubblica: ma quanto, come, in quali occasioni
non è stabilito da natura, bensì dalla saggezza degli uomini. Ora, in queste
particolari regole di vita suggerite dalla prudenza della ragione e introdotte
dal legittimo potere, consiste la legge umana propriamente detta. Questa legge
impone a tutti i cittadini di concorrere al fine indicato dalla società e vieta
di abbandonarlo; la stessa legge, finché segue dolcemente e consenziente i
dettami di natura, conduce alla rettitudine e distoglie dal male. Da quanto
detto si comprende che sono tutte riposte nella eterna legge di Dio la norma e
la regola della libertà dei singoli individui, non solo, ma anche della
comunità e delle relazioni umane.
Dunque
nella società umana la libertà nel vero senso della parola, non è riposta nel
fare ciò che piace, nel qual caso subentrerebbe il maggior disordine che si
risolverebbe nella oppressione della cittadinanza, ma consiste nel vivere
agevolmente in virtù di leggi civili ispirate ai dettami della legge eterna.
D’altra parte la libertà di coloro che governano non risiede nel poter comandare
in modo sconsiderato e capriccioso, il che sarebbe parimenti dannoso e
deleterio per lo Stato: per contro, la forza delle leggi umane deve derivare
dalla legge eterna e non deve sancire alcuna norma che sia estranea ad essa,
fonte del diritto universale. Scrive il sapientissimo Agostino : «Penso che in
quella (legge) temporale tu non possa vedere alcunché di giusto e di legittimo
che gli uomini non abbiano derivato a proprio beneficio da questa (legge)
eterna». Se dunque un qualunque potentato sancisce una norma che sia in
contrasto con i principi della retta ragione e sia funesto per lo Stato, essa
non ha nessuna forza di legge, poiché non è regola di giustizia e allontana gli
uomini dal bene, per il quale la società è nata.
Pertanto
la natura della libertà umana, comunque la si consideri, tanto nelle persone
singole quanto consociate, e non meno in coloro che comandano come in coloro
che ubbidiscono, presuppone la necessità di ottemperare alla suprema ed eterna
ragione, che altro non è se non l’autorità di Dio che comanda e vieta. Questa
sacrosanta sovranità di Dio sugli uomini è ben lontana dal sopprimere la
libertà o dal limitarla in alcun modo, tanto che, se mai, la protegge e la
perfeziona. Infatti la vera perfezione di tutte le creature consiste nel
perseguire e conseguire il proprio fine; il fine supremo a cui deve tendere la
libertà umana, è Dio.
La
Chiesa, ammaestrata dagli esempi e dalla sapienza del divino Fondatore, ovunque
diffuse e affermò questi precetti di una veritiera e sublime dottrina, da noi
conosciuta soltanto alla luce della ragione; né mai desistette dal prenderli a
norma della propria missione e di inculcarli nei popoli cristiani. Per quanto
riguarda i costumi, le leggi evangeliche non solo sovrastano di gran lunga
tutta la sapienza pagana, ma apertamente chiamano e educano l’uomo a una
santità ignota agli antichi, e nell’avvicinarlo a Dio lo rendono capace di più
perfetta libertà. Pertanto apparve sempre grandissima l’influenza della Chiesa
nel custodire e proteggere la libertà civile e politica dei popoli. A tal
riguardo, non è questo il momento di enumerare i suoi meriti. Basti ricordare
l’abolizione della schiavitù, antica vergogna delle genti pagane, soprattutto
per opera ed interessamento della Chiesa. Primo fra tutti, Gesù Cristo affermò
l’imparzialità del diritto e la vera fratellanza tra gli uomini: a Lui fece eco
la voce dei suoi Apostoli, per cui non esiste né Giudeo, né Greco, né Barbaro,
né Sciita, ma tutti sono fratelli in Cristo. A questo proposito è tanto grande
e tanto conosciuta la forza della Chiesa, che in qualunque plaga della terra
imprima la sua orma, è certo che i rozzi costumi non possono resistere a lungo;
in breve la mansuetudine dovrà succedere alla crudeltà, la luce della verità
alle tenebre della barbarie. Parimenti la Chiesa non desistette mai dal recare
grandi benefici ai popoli ingentiliti dalla civiltà, o resistendo all’arbitrio
dei prepotenti o allontanando le offese dal capo degli innocenti e dei più
deboli, o infine facendo in modo che prevalesse l’ordinamento statale preferito
dai cittadini per la sua equità, e temuto dagli stranieri per la sua potenza.
Inoltre,
uno dei doveri più ragionevoli sta nel rispettare l’autorità e nell’obbedire
alle leggi giuste: ne deriva che i cittadini sono tutelati contro la violenza
dei malvagi, dall’equità e dalla vigilanza delle leggi. Il potere legittimo
deriva da Dio e chi resiste al potere, resiste all’ordine di Dio; in tal modo
l’obbedienza acquista molto in nobiltà, divenendo ossequio verso un’autorità giustissima
ed elevata in sommo grado. Invero, dove il diritto di comandare è assente o
dove si prescrive alcunché di contrario alla ragione, alla legge eterna, alla
sovranità di Dio, è giusto non obbedire agli uomini per obbedire a Dio.
Precluso in tal modo l’adito alla tirannide, lo Stato non dovrà avocare tutto a
sé: sono salvi i diritti dei singoli cittadini, della famiglia, di tutti i
componenti la società, concedendo ampiamente a tutti la vera libertà che
consiste, come dimostrammo, nel poter vivere ciascuno secondo le leggi e la
retta ragione.
Se
quando si discute di libertà ci si riferisse a quella legittima e onesta quale
or ora la ragione e la parola hanno descritta, nessuno oserebbe perseguitare la
Chiesa accusandola iniquamente di essere nemica della libertà dei singoli e dei
liberi Stati. Ma già sono assai numerosi gli emuli di Lucifero, che lanciò
quell’empio grido non servirò, i quali in nome della libertà praticano
un’assurda e schietta licenza. Sono siffatti i seguaci di quella dottrina così
diffusa e potente che hanno voluto darsi il nome di Liberali traendolo dalla
parola libertà.
Ovviamente,
là dove mirano in filosofia i Naturalisti o i Razionalisti, ivi mirano, in tema
di morale e di politica, i fautori del Liberalismo i quali applicano nei
costumi e nella condotta di vita i principi affermati dai Naturalisti. Ora, il
primato della ragione umana è il caposaldo di tutto il Razionalismo, il quale
rifiuta l’obbedienza dovuta alla divina ed eterna ragione, si definisce
artefice della propria legge, e perciò considera se stesso il sommo principio,
la fonte e l’unico giudice della verità. Così i seguaci del Liberalismo, di cui
si è detto, nella vita pratica pretendono che non vi sia alcun divino potere a
cui si debba obbedienza e che ognuno debba essere legge per se stesso; perciò
nasce quella filosofia morale che chiamano indipendente e che, dietro
l’apparenza di libertà, tende a rimuovere la volontà dalla osservanza dei
divini precetti e quindi suole concedere all’uomo infinita licenza. È facile
comprendere quali conseguenze abbiano tali affermazioni sulla società umana.
Infatti, accettato e stabilito il principio per cui nessuno è al di sopra
dell’uomo, ne consegue che la causa che determina la concordia e la società
civile è da ricercare non già in un principio esterno o superiore all’uomo ma
nella libera volontà dei singoli; che il potere pubblico emana, come da fonte
primaria, dal popolo. Inoltre, come la ragione di ciascuno è la sola guida e
norma della condotta privata, così la ragione di tutti deve essere guida per
tutti nella vita pubblica. Perciò la maggioranza ha poteri maggiori; la maggior
parte del popolo è sorgente dei diritti e dei doveri universali.
Ma
è evidente, da quanto si è detto, che queste affermazioni contrastano con la
ragione. Non volere che tra l’uomo e la società civile interceda alcun vincolo
con Dio creatore e supremo legislatore, ripugna assolutamente alla natura, e
non solo alla natura dell’uomo ma di tutte le creature; poiché è necessario che
tutti gli effetti abbiano qualche attinenza con la causa da cui sono scaturiti,
riguarda tutte le creature; attiene alla perfezione di ciascuna rimanere nel
posto e nel grado che l’ordine naturale ha stabilito, in modo che il mondo inferiore
sia sottoposto e obbedisca a quello che lo sovrasta. Per di più, siffatta
dottrina è gravemente perniciosa sia per i singoli che per la società. Una
volta confinato nella sola e unica ragione umana il criterio del vero e del
bene, la corretta distinzione tra il bene e il male sparisce; le infamie non
differiscono dalla rettitudine in modo oggettivo ma secondo l’opinione e il
giudizio dei singoli; il libito diventa lecito; stabilita una regola morale che
non ha praticamente il potere d’infrenare e di placare le torbide passioni
dell’animo, si spalancherà spontaneamente la porta ad ogni corruttela.
Nell’ordine pubblico, poi, il potere di comandare viene separato dal giusto e
naturale principio da cui esso attinge ogni virtù generatrice del bene comune;
la legge, nello stabilire i limiti del lecito e dell’illecito, è lasciata
all’arbitrio della maggioranza, che è la via inclinata verso il regime
tirannico. Ripudiato il dominio di Dio sull’uomo e sul consorzio civile, ne
consegue l’abolizione di ogni culto pubblico e la massima incuria per tutto ciò
che ha attinenza con la religione. Del pari, la moltitudine, armata della
convinzione di essere sovrana, degenera in sedizioni e tumulti e, tolti i freni
del dovere e della coscienza, non resta altro che la forza, la quale, tuttavia,
non è così grande da potere da sola contenere la passioni popolari. Lo dimostra
la lotta pressoché quotidiana contro i socialisti ed altre schiere di sediziosi
che da tempo tentano di sovvertire radicalmente la società civile. Chi è in
grado di giudicare rettamente, valuti dunque e stabilisca se tali dottrine
giovino a una vera libertà degna dell’uomo, o piuttosto la pervertano e la
corrompano del tutto.
Certo,
non tutti i seguaci del Liberalismo concordano con quelle opinioni, spaventose
per la loro assurdità, che considerammo nemiche della verità e causa di mali
assai funesti. Anzi, molti di essi, sospinti dalla forza della verità, non
esitano ad ammettere o addirittura affermano spontaneamente che la libertà
diventa viziata e degenera in licenza se osa varcare certi limiti e trascurare
la verità e la giustizia. Perciò è necessario che la libertà sia guidata e
governata con retto raziocinio e sia soggetta, di conseguenza, al diritto
naturale e alla sempiterna legge divina. Ma i liberali qui si fermano; sono
convinti che un uomo libero non debba sottostare alle leggi che Dio volle
imporre; fanno eccezione per le leggi ispirate dalla ragione naturale.
Ma
tale affermazione non è affatto coerente. Infatti se, come essi ammettono e
come tutti devono ragionevolmente convenire, si deve obbedire alla volontà di
Dio legislatore, poiché ogni uomo è in potere di Dio e tende a Dio, ne consegue
che nessuno può stabilire norma e confini alla Sua autorità legislatrice, senza
andar contro la dovuta obbedienza. Anzi, se la mente umana fosse così
presuntuosa da voler stabilire quali e quanti diritti appartengano a Dio e
quali doveri a se stessa, il rispetto delle leggi divine sarà più apparente che
reale e il suo arbitrio prevarrà sull’autorità e la provvidenza di Dio. È
pertanto necessario assumere, con devozione costante, una norma di vita sia
dalla legge eterna, sia da tutte e da ogni singola legge che Dio, d’infinita
sapienza e potenza, tramandò nel modo che a Lui piacque, e che noi possiamo
conoscere con certezza attraverso segnali chiari e immuni da ogni dubbio. Tanto
più che siffatte leggi, poiché hanno la stessa origine della legge eterna e lo
stesso autore, del tutto armonizzano con la ragione e aggiungono perfezione al
diritto naturale; inoltre contengono il magistero di Dio stesso che, per
evitare che la mente o la volontà nostra cadano nell’errore, regge benignamente
entrambe col suo cenno e con la sua guida. Sia dunque congiunto con salda pietà
ciò che non può né deve essere disgiunto, e in ogni occasione, come prescrive
la stessa ragione naturale, si presti a Dio umile obbedienza.
Alquanto
più moderati, ma per nulla più coerenti, sono coloro che dicono che la vita e i
costumi dei privati devono essere regolati dal dettato delle leggi divine, ma
non quelli dello Stato; che è lecito sottrarsi ai comandamenti di Dio nei
pubblici affari e non rifarsi ad essi in alcun modo nel formulare le leggi. Ne
deriva quel funesto corollario per cui è necessario dissociare la Chiesa dallo
Stato. Ma non è difficile comprendere l’assurdità di queste affermazioni.
Infatti la stessa natura prescrive che ai cittadini siano dati mezzi e
opportunità per condurre una vita onesta, cioè conforme alla legge di Dio,
poiché Dio è il principio della rettitudine e della giustizia e quindi è
inconcepibile che lo Stato ignori quelle stesse leggi o che possa fondare una
convivenza ad esse ostile. Inoltre coloro che governano i popoli hanno il
dovere verso la comunità di provvedere non solo al benessere e ai beni
materiali, ma soprattutto ai beni spirituali con la sapienza delle leggi. E
invero non si può immaginare nulla di più adatto ad accrescere questi beni che
quelle leggi di cui Dio è autore; perciò, nel governo della società, coloro che
rifiutano di applicare le leggi divine, fanno sì che il potere politico si svii
dal suo scopo e dall’ordine di natura. Ma ciò che più importa e che già da Noi
stessi fu più volte ricordato, è il fatto che, sebbene il governo civile miri a
fini diversi rispetto al potere sacrale, e non percorra lo stesso itinerario,
tuttavia nell’esercizio del potere è inevitabile che talora l’uno e l’altro
s’incontrino. Infatti entrambi hanno il dominio sulle stesse persone e accade
spesso che entrambi affrontino le stesse questioni sia pure con diverso criterio.
Ogni volta che un tal caso si presenta, poiché il conflitto è assurdo e
profondamente ripugna alla sapientissima volontà di Dio, è necessario che vi
sia un metodo e un ordine per cui possa sussistere un ragionevole accordo
nell’operare, dopo aver rimosso le cause di dispute e di conflitti. Una
siffatta concordia fu già paragonata, non senza ragione, all’unione che esiste
tra l’anima e il corpo, con vantaggio di entrambe le parti; la loro disunione è
soprattutto nociva al corpo, in quanto ne spegne la vita.
Ad
ulteriore chiarimento, è opportuno considerare separatamente quelle varie
conquiste di libertà che sono un’esigenza dell’epoca nostra. In primo luogo
notiamo nelle singole persone un atteggiamento che è profondamente contrario
alla virtù religiosa, ossia la cosiddetta libertà di culto. Questa libertà si
fonda sul principio che è facoltà di ognuno professare la religione che gli
piace, oppure di non professarne alcuna. Eppure, fra tutti i doveri umani,
senza dubbio il più nobile e il più santo consiste nell’obbligo di onorare Dio
con profonda devozione.
Tale
obbligo deriva dal fatto che noi siamo sempre in potere di Dio, siamo governati
dalla volontà e dalla provvidenza di Dio e, da Lui partiti, a Lui dobbiamo
ritornare. Si aggiunga che senza religione non può esservi virtù nel vero senso
della parola; infatti è virtù morale quella che ha per dovere di condurre a
Dio, ultimo e sommo bene per l’uomo; perciò la religione, che determina le
azioni che direttamente e immediatamente hanno il fine di onorare Dio , è
sovrana e moderatrice di tutte le virtù. E a chi si chiede quale unica
religione sia doveroso seguire, tra le molte esistenti e tra loro discordi, la
ragione e la natura rispondono: certamente quella che Dio ha prescritto e che
gli uomini possono facilmente riconoscere da certi aspetti esteriori con cui la
divina provvidenza volle distinguerla, poiché in una questione di tanta
importanza ogni errore produrrebbe immense rovine. Perciò, una volta concessa
quella libertà di cui stiamo parlando, si attribuisce all’uomo la facoltà di
pervertire o abbandonare impunemente un sacrosanto dovere, e conseguentemente
di volgersi al male rinunciando a un bene immutabile; questa non è libertà,
come dicemmo, ma licenza e schiavitù di un’anima avvilita nel peccato.
La
stessa libertà, se considerata nell’ambito della società, pretende che lo Stato
non faccia propria alcuna forma di culto divino e non voglia professarlo
pubblicamente; pretende che nessun culto sia anteposto ad un altro, ma che
tutti abbiano gli stessi diritti, senza tener conto della volontà popolare, se
il popolo si dichiara cattolico. Ma perché fossero corretti tali principi,
dovrebbe essere vero che gli obblighi della società civile verso Dio o sono
nulli o possono essere impunemente disattesi: e ciò è falso in entrambi i casi.
Infatti non si può dubitare che gli uomini siano uniti in società per volontà
di Dio, sia che si consideri la società stessa nelle sue parti, sia nella forma
che assume l’autorità, sia nello scopo, sia nell’abbondanza di quei cospicui
vantaggi che ne provengono all’uomo. È Dio che ha creato l’uomo socievole e lo
ha posto nel consorzio dei suoi simili, affinché ciò che secondo natura
desiderava e non poteva conseguire da solo, divenisse un facile acquisto
vivendo in società. Perciò è necessario che la società civile, proprio in
quanto società, riconosca Dio come padre e creatore suo proprio, e che tema e
veneri il suo potere e la sua sovranità. Pertanto, la giustizia e la ragione
vietano che lo Stato sia ateo o che, cadendo di nuovo nell’ateismo, conceda la
stessa desiderata cittadinanza a tutte le cosiddette religioni, e gli stessi
diritti ad ognuna indistintamente.
Dunque,
dal momento che è necessaria la professione di un sola religione nello Stato, è
necessario praticare quella che è unicamente vera e che non è difficile
riconoscere, soprattutto nei Paesi cattolici, per le note di verità che in essa
appaiono suggellate. Conseguentemente i governanti la conservino, la
proteggano, se vogliono provvedere con prudenza e profitto, come devono, alla
comunità dei cittadini. Il potere pubblico è stato costituito per il vantaggio
dei sudditi, e sebbene il suo scopo immediato sia quello di condurre i
cittadini alla felicità della vita che si trascorre in terra, tuttavia non deve
ridurre ma accrescere nell’uomo la facoltà di conseguire quel supremo ed
estremo bene in cui consiste l’eterna felicità degli uomini e a cui non si può
pervenire se si trascura la religione.
Ma
di ciò parlammo più diffusamente altra volta: in questo momento vogliamo
soltanto che ci si renda conto che una siffatta libertà è assai nociva alla
vera libertà, sia dei governanti che dei governati. Giova invece mirabilmente
la religione, in quanto essa riconosce da Dio stesso l’origine del potere, e
severamente ammonisce i sovrani perché siano memori dei loro doveri, perché non
comandino nulla di ingiusto o di crudele, e governino i sudditi benevolmente e
quasi con carità paterna. Essa impone ai cittadini di sottostare alla legittima
potestà, come a ministri di Dio; essa li unisce ai reggitori dello Stato non
solo con l’obbedienza, ma con il rispetto e l’amore, vietando le sedizioni e
tutte quelle imprese che possono turbare l’ordine e la pubblica tranquillità, e
che infine producono l’effetto di limitare con più stretti vincoli la libertà
dei cittadini. Tralasciamo di dire quanto la religione conduca a buoni costumi,
e quanto i buoni costumi conducano alla libertà. Infatti la ragione dimostra, e
la storia conferma, che le nazioni, quanto più sono morigerate, tanto più
prosperano per libertà, ricchezza e potenza.
Ora
si consideri un poco la libertà di parola e ciò che piace esprimere per mezzo
della stampa. È appena il caso di dire che questa libertà non può essere un
diritto se non è temperata dalla moderazione ed esorbita oltre la misura.
Infatti il diritto è una facoltà morale: come dicemmo e come dovremo più spesso
ridire, è assurdo pensare che essa sia concessa dalla natura in modo promiscuo
e accomunata alla verità e alla menzogna, alla onestà e alla turpitudine. La
verità e l’onestà hanno il diritto di essere propagate nello Stato con saggezza
e libertà, in modo che diventino retaggio comune; le false opinioni, di cui non
esiste peggior peste per la mente, nonché i vizi che corrompono l’animo e i
costumi, devono essere giustamente e severamente repressi dall’autorità
pubblica, perché non si diffondano a danno della società. Gli abusi
dell’ingegno sregolato, che si risolvono in oppressione delle moltitudini
ignoranti, devono essere repressi dall’autorità delle leggi non meno che le
offese recate con la forza ai più deboli. Tanto più che una gran parte di
cittadini non può affatto, o talvolta lo può con estrema difficoltà, guardarsi
dai sofismi e dagli artifici dialettici, soprattutto se blandiscono le
passioni. Concessa a chiunque illimitata libertà di parola e di stampa, nulla
rimarrà d’intatto e d’inviolato; non saranno neppure risparmiati quei supremi e
veritieri principi di natura che sono da considerare come un comune e
nobilissimo patrimonio del genere umano. Così oscurata a poco a poco la verità
dalla tenebre, come spesso accade, facilmente prenderà il sopravvento il regno
dell’errore dannoso e proteiforme. Perciò quanto più la licenza avrà spazio,
tanto maggiore danno avrà la libertà; tantopiù sarà ampia e sicura la libertà,
quanto più efficaci i freni alla licenza. Invero, ove natura non si opponga, è
concesso, su questioni opinabili permesse da Dio alla discussione degli uomini,
esprimere liberamente ciò che piace e ciò che si sente; infatti una tale libertà
non conduce mai gli uomini a conculcare la verità, ma semmai ad indagarla e a
rivelarla.
Su
quella che è chiamata libertà d’insegnamento occorre esprimere un giudizio non
diversamente motivato. È fuor di dubbio che solo la verità deve informare le
menti, poiché in essa sono posti il bene, il fine e la perfezione degli esseri
intelligenti; quindi la dottrina non deve insegnare altro che la verità, tanto
a chi la ignora quanto a chi la conosce, in modo che al primo rechi la
conoscenza del vero, nell’altro la conservi. Per questo motivo è stretto dovere
degli insegnanti svellere l’errore dalle menti e con validi argomenti sbarrare
la via alle opinioni fallaci. Pertanto appare del tutto contraria alla ragione
e predisposta a pervertire totalmente le menti quella libertà, cui si riferisce
il nostro discorso, in quanto essa pretende per sé il diritto d’insegnare
secondo il proprio arbitrio; licenza che il pubblico potere non può accordare
alla società senza venir meno al proprio dovere. Tanto più che l’autorità dei
maestri ha molta influenza sui discepoli, e raramente l’alunno può giudicare in
modo autonomo se sia vero ciò che il maestro insegna.
Perciò
occorre che anche questa libertà, per essere giusta, sia circoscritta da
precisi confini, affinché non accada impunemente che l’arte di insegnare si
trasformi in veicolo di corruzione. Inoltre la verità, a cui deve unicamente
mirare la dottrina degli insegnanti, è di due specie: naturale o
soprannaturale. Le verità naturali, quali sono i principi di natura e quelli
che da essi la ragione deduce, sono come il patrimonio comune del genere umano.
Su di esso, come su solidissime fondamenta, poggiano la morale, la giustizia,
la religione e la stessa coesione della società umana, e perciò nulla vi è di
tanto empio e di tanto stolidamente inumano, quanto permettere che quel
patrimonio sia violato e dilapidato impunemente.
Né
va conservato meno devotamente il prezioso e santissimo tesoro di quelle realtà
che conosciamo per rivelazione divina. Con numerosi e limpidi argomenti che gli
Apologeti usarono spesso, si possono stabilire certi punti essenziali che sono
quelli divinamente rivelati da Dio: l’Unigenito Figlio di Dio si è incarnato
per rendere testimonianza alla verità; da Lui è stata fondata una società
perfetta, quale è la Chiesa, di cui Egli stesso è il capo e con la quale
promise di rimanere fino alla consumazione dei secoli. Tutte le verità che Egli
ha insegnato volle affidate a questa società perché le custodisse, le
difendesse, le divulgasse con legittima autorità; ad un tempo prescrisse a
tutti i popoli di ascoltare la parola della sua Chiesa come fosse la propria:
chi agirà diversamente, si perderà nell’eterna dannazione. Per questo motivo
risulta evidente che Dio è il migliore e più sicuro maestro per l’uomo, fonte e
principio di ogni verità; che l’Unigenito, in unione col Padre, è la via, la
verità, la vita, la vera luce che illumina ogni uomo; al suo insegnamento
devono essere docili tutti gli uomini: «E saranno tutti discepoli di Dio» (Gv 5,45).
Ma
Dio stesso volle la Chiesa partecipe del divino magistero in materia di fede e
di morale, rendendola infallibile per sua divina grazia; perciò la Chiesa è la
più alta e sicura maestra dei mortali e in essa è presente l’inviolabile
diritto alla libertà d’insegnamento. In realtà, vivendo della sapienza di
origine divina, la chiesa nulla ritenne più importante che l’adempiere
santamente la missione a lei affidata da Dio: più forte delle difficoltà che
l’assediavano da ogni lato in nessun momento cessò di combattere per il libero
esercizio del proprio magistero. In questo modo la terra, respinta la
miserabile superstizione, fu rinnovata alla luce della sapienza cristiana.
La
stessa ragione insegna chiaramente che le verità rivelate da Dio e le verità
naturali non possono ovviamente essere tra loro contrarie; per questo motivo
deve essere falso tutto ciò che con esse non concorda; perciò il divino
magistero della Chiesa è tanto lontano dall’ostacolare l’impegno di apprendere
i progressi delle scienze o dal ritardare in alcun modo l’avanzamento di una
più civile umanità, ma piuttosto è portatrice d’intensa luce e di sicura
tutela.
La
stessa Chiesa giova non poco alla perfezione della libertà umana, avendo
presente quella sentenza di Gesù Cristo Salvatore per cui l’uomo è reso libero
dalla verità: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Pertanto non vi è motivo per
cui la vera libertà debba indignarsi o la scienza degna di questo nome debba
dolersi delle leggi giuste e necessarie che secondo i concordi dettami della
Chiesa e della ragione debbono regolare l’apprendimento umano. Anzi la Chiesa,
mentre agisce soprattutto a tutela della fede cristiana, si adopera altresì per
favorire e far progredire ogni forma di umano sapere, come la realtà stessa
dimostra diffusamente. Infatti è onesto di per sé e lodevole e desiderabile il
decoro della cultura; inoltre l’erudizione che derivi da un sano raziocinio e
che corrisponda alla verità oggettiva, serve non poco ad illuminare quegli
articoli di fede in cui crediamo perché dettati da Dio. Davvero sono dovuti
alla Chiesa questi grandi benefici: l’aver nobilmente conservato i monumenti
dell’antica sapienza; l’aver aperto ovunque istituti scientifici; l’aver sempre
incoraggiato il progresso intellettuale, alimentando con grande zelo quelle
stesse arti medesime per le quali soprattutto si distingue la civiltà
contemporanea.
Infine
non si può tacere che un campo immenso si spalanca in cui l’iniziativa e
l’intelligenza degli uomini possono liberamente spaziare ed esercitarsi: cioè
sui temi che non hanno alcun necessario rapporto con i principi di fede e di
morale cristiana o sui quali la Chiesa, senza far uso della sua autorità,
lascia libero e integro il giudizio dei dotti. Da quanto si è detto si comprende
quale sia nella fattispecie quella libertà che con pari ardore rivendicano e
predicano i seguaci del Liberalismo. Per un verso pretendono per sé e per lo
Stato una licenza così eccessiva che non esitano ad aprire un varco anche alle
opinioni più perverse; d’altra parte intralciano in tanti modi la Chiesa e
restringono la sua libertà entro i più angusti limiti, per quanto è loro
possibile, quantunque dalla dottrina della Chiesa non solo non si deve temere
alcun danno ma ci si deve aspettare ogni sorta di benefici.
Inoltre
si predica assiduamente quella che viene chiamata libertà di coscienza; la
quale, se interpretata nel senso che a ciascuno è giustamente lecito, a piacer
suo, di venerare o di non onorare Dio, trova la sua smentita negli argomenti
svolti in precedenza. Ma può avere anche questo significato: all’uomo è lecito,
nel civile consorzio, seguire la volontà e i comandamenti di Dio secondo
coscienza e senza impedimento alcuno. Questa vera libertà, degna dei figli di
Dio, che assai giustamente tutela la dignità della persona umana, è più forte
di qualunque violenza e offesa, ed è sempre desiderata e soprattutto amata
dalla Chiesa. Con costanza, gli Apostoli rivendicarono per sé una siffatta
libertà; gli Apologisti la sancirono con gli scritti; i Martiri la consacrarono
in gran numero col loro sangue. E meritatamente, in quanto questa libertà
cristiana attesta ad un tempo il supremo e giustissimo potere di Dio sugli
uomini e l’assoluto e primario dovere degli uomini verso Dio. Essa non ha nulla
in comune con uno spirito sedizioso e ribelle, né la si può in alcun modo
incolpare di voler sottrarsi all’ossequio verso il pubblico potere, poiché
comandare e pretendere obbedienza, nella misura che tale diritto appartiene al
potere umano, per nulla contrasta col potere divino e si mantiene nell’ordine
voluto da Dio. Ma quando si danno ordini che palesemente contrastano con la
divina volontà, allora si esce da quella misura e nello stesso tempo si entra
in conflitto con la divina autorità: perciò è giusto non obbedire.
Al
contrario i seguaci del Liberalismo che considerano lo Stato padrone assoluto e
onnipotente, e affermano che la vita deve essere vissuta senza rispetto alcuno
verso Dio, non riconoscono affatto la libertà di cui parliamo, congiunta a
onestà e religione; se si fa qualcosa per conservarla, accusano di aver agito a
danno dello Stato. Se dicessero il vero, esisterebbe una tirannide così
crudele, alla quale non si dovrebbe né sottostare né ubbidire.
La
Chiesa vorrebbe ardentemente che in tutti gli ordini statali penetrassero e
fossero praticati quegli insegnamenti cristiani di cui abbiamo parlato
sommariamente. Infatti essi sono molto efficaci come rimedio dei mali dell’età
nostra, non pochi né lievi e in gran parte generati da quelle stesse libertà
che con tanta enfasi sono esaltate e nelle quali sembrava di scorgere semi di
salute e di gloria. L’esito ingannò la speranza. Invece di frutti dolci e
salutari ne provennero altri acerbi e avvelenati. Se si cerca un rimedio, lo si
trovi nel ripristino di sane dottrine, dalle quali soltanto ci si può aspettare
con fiducia la conservazione dell’ordine e infine la tutela della vera libertà.
Tuttavia la Chiesa, con intelligenza materna, considera il grave peso della
umana fragilità e non ignora quale sia il corso degli animi e delle vicende da
cui è trascinata la nostra età. Per queste ragioni, senza attribuire diritti se
non alla verità e alla rettitudine, la Chiesa non vieta che il pubblico potere
tolleri qualcosa non conforme alla verità e alla giustizia, o per evitare un
male maggiore o per conseguire e preservare un bene. Dio stesso
provvidentissimo, infinitamente buono e potente, consentì tuttavia che nel
mondo esistesse il male, in parte perché non siano esclusi beni più rilevanti,
in parte perché non si conseguano mali maggiori.
Nel
governo delle nazioni è giusto imitare il Reggitore del mondo: anzi, non
potendo l’umana autorità impedire ogni male, deve «concedere e lasciare
impunite molte cose che invece sono punite giustamente dalla divina Provvidenza»
. Tuttavia, come complemento a quanto detto, se a causa del bene comune e
soltanto per questo motivo la legge degli uomini può o anche deve tollerare il
male, non può né deve approvarlo o volerlo in quanto tale: infatti il male,
essendo di per sé privazione di bene, ripugna al bene comune che il
legislatore, per quanto gli è possibile, deve volere e tutelare. E anche in
questo caso è necessario che la legge umana si proponga di imitare Dio il
quale, nel consentire che il male esista nel mondo «non vuole che il male si
faccia, né vuole che il male non si faccia, ma vuole permettere che il male si
faccia, e questo è bene» . Questa affermazione del dottore Angelico contiene in
sintesi tutta la dottrina sulla tolleranza del male. Ma bisogna riconoscere, se
si vuole giudicare rettamente, che quanto più in uno Stato è necessario
tollerare il male, tanto più questo tipo di Stato è lontano da una condizione
ottimale; così pure, quando si opera secondo i precetti della prudenza
politica, è necessario circoscrivere la tolleranza dei mali entro i limiti che
il motivo, cioè la salute pubblica, richiede.
Perciò,
se la tolleranza reca danno alla salute pubblica e procura mali maggiori allo
Stato, ne consegue che non è lecito praticarla, poiché in tali circostanze viene
a mancare il movente del bene. Se poi accade che, per particolari condizioni
dello Stato, la Chiesa si adegui a certe moderne libertà, non perché le
prediliga in quanto tali, ma perché giudica opportuno permetterle, nel caso che
i tempi volgessero al meglio, adotterebbe certamente la propria libertà e
persuadendo, esortando, pregando si dedicherebbe, come deve, all’adempimento
della missione a lei assegnata da Dio, che consiste nel provvedere all’eterna
salute degli uomini.
Tuttavia
è pur sempre eternamente vero che codesta libertà di tutti e per tutti non è
desiderabile di per se stessa, come più volte abbiamo detto, poiché ripugna
alla ragione che la menzogna abbia gli stessi diritti della verità. E per
quanto riguarda la tolleranza, sorprende quanto siano distanti dalla equità e
dalla prudenza della Chiesa coloro che professano il Liberalismo. Infatti, con
l’assoluta licenza di concedere tutto ai cittadini, come dicemmo, varcano
completamente la misura e giungono al punto di non attribuire alla onestà e
alla verità maggior valore che alla falsità e alla malvagità. Essi poi accusano
di essere priva di pazienza e di mitezza la Chiesa, colonna e firmamento di
verità, incorrotta maestra di moralità, perché ripudia costantemente, come
deve, una tale dissoluta e perniciosa specie di tolleranza e nega che sia
lecito praticarla; comportandosi in questo modo non si accorgono di trasformare
in colpa ciò che è motivo di encomio. Ma in tanta ostentazione di tolleranza,
di fatto accade spesso che i liberali siano tenacemente restrittivi verso il
cattolicesimo e che prodighi di libertà verso il volgo, rifiutino in molti casi
di lasciar libera la Chiesa.
Ma
ricapitoliamo brevemente tutto il discorso con i suoi corollari, per motivi di
chiarezza: è per necessità suprema che l’uomo si trovi completamente sotto il
vero e perpetuo potere di Dio: perciò non si può affatto concepire la libertà
dell’uomo se non dipendente da Dio e soggetta alla Sua volontà. Negare in Dio
tale sovranità o non assoggettarsi ad essa non è comportamento di uomo libero,
ma di chi abusa della libertà per tradirla; in verità da tale disposizione
d’animo si forma e si realizza il vizio capitale del Liberalismo. Il quale
tuttavia si distingue in molteplici forme: infatti la volontà, in modo e in grado
diversi, può rifiutare l’obbedienza che è dovuta a Dio o a coloro che sono
partecipi del potere divino.
Certamente,
ricusare radicalmente la sovranità del sommo Dio e rifiutargli ogni obbedienza,
sia nella vita pubblica, sia nella vita privata e domestica, è la massima
perversione della libertà come anche la peggiore specie di Liberalismo: in tale
senso deve essere inteso quanto finora abbiamo detto contro tale dottrina.
Affine
è la concezione di coloro che sono d’accordo sulla necessità di sottomettersi a
Dio, creatore e signore del mondo, in quanto dal suo potere riceve armonia la
natura, però temerariamente ripudiano le leggi della fede e della morale in
quanto non rientrano nella natura ma provengono dall’autorità di Dio, o almeno,
dicono, non vi è alcun motivo di tenerle in considerazione, soprattutto nella
società civile. Abbiamo visto più sopra quanto costoro siano involti
nell’errore e quanto poco siano coerenti con se stessi. Da questa dottrina,
come da una sorgente, deriva la funesta opinione che la Chiesa deve essere
separata dallo Stato; è invece evidente che entrambi i poteri, dissimili nei
doveri e diversi di grado, devono tuttavia essere tra loro consenzienti
nell’agire concorde e nello scambio dei compiti.
Tale
opinione è soggetta a una duplice interpretazione. Molte persone infatti
vogliono lo Stato totalmente separato dalla Chiesa, in modo che in ogni norma
che regola la convivenza umana, nelle istituzioni, nei costumi, nelle leggi,
negli impieghi statali, nella educazione della gioventù, si debba considerare
la Chiesa come se non esistesse, pur concedendo infine ai singoli cittadini la
facoltà di dedicarsi alla religione in forma privata, se così piace. Contro
costoro vale la forza di tutti gli argomenti coi quali confutammo l’opinione
relativa alla separazione della Chiesa e della società civile, ma con questa
postilla: è assurdo che il cittadino onori la Chiesa e che la società la
disprezzi.
Altri
non contestano che la Chiesa esista, né potrebbero affermare diversamente; essi
tuttavia le negano il carattere e i diritti propri di una società perfetta e la
facoltà di fare le leggi, di giudicare, di punire, ma soltanto di esortare,
persuadere, governare coloro che spontaneamente le si sottomettono. Pertanto
con tale opinione snaturano il carattere di questa divina società; debilitano e
restringono l’autorità, il magistero e tutta la sua influenza, amplificando al
contempo la forza e il potere del principato civile fino al punto di sottoporre
la Chiesa di Dio al dominio e all’arbitrio dello Stato, come fosse un
qualsivoglia associazione volontaria di cittadini. Per respingere questi
argomenti valgono quelli usati dagli Apologisti e da Noi ricordati
particolarmente nell’Enciclica Immortale
Dei, dai quali si evince che, per istituzione divina, alla Chiesa
compete tutto quanto appartiene alla natura e ai diritti di una legittima,
suprema e perfetta società.
Vi
sono molti, infine, che non approvano la separazione della Chiesa dallo Stato,
ma ritengono che la Chiesa debba adeguarsi ai tempi e si pieghi e si adatti a
quelle misure che nella amministrazione degli Stati sono suggerite dalla
moderna avvedutezza. È onesto il parere di costoro, se lo si intende come
ragionevole equità che possa coesistere con la verità e la giustizia: cioè in
modo che la Chiesa, accolta la speranza di qualche gran bene, si mostri
indulgente e conceda ai tempi quanto più le è possibile, fatta salva la
sacralità della sua missione. Ma non è così quando si tratta di fatti e
dottrine che siano introdotte dalla mutazione dei costumi e da fallaci
opinioni. Nessuna epoca può fare a meno della religione, della verità, della
giustizia; Dio ordinò che questi sommi e santissimi beni fossero posti a tutela
della Chiesa e perciò nulla è tanto assurdo quanto pretendere che la Chiesa
ipocritamente accetti sia la falsità che l’ingiustizia, o sia connivente con
ciò che nuoce alla religione.
Da
quanto si è detto consegue che non è assolutamente lecito invocare, difendere,
concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, di parola, d’insegnamento
o di culto, come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito
all’uomo. Infatti, se veramente la natura li avesse concessi, sarebbe lecito
ricusare il dominio di Dio, e la libertà umana non potrebbe essere limitata da
alcuna legge. Ne consegue del pari che queste varie libertà possono essere
tollerate se vi sia un giusto motivo, ma entro certi limiti di moderazione, in
modo che non degenerino nell’arbitrio e nell’arroganza. Dove infatti vige la
consuetudine di queste libertà, i cittadini le trasformino in facoltà di agire
correttamente e di esse abbiano il concetto medesimo che ne ha la Chiesa.
Pertanto ogni libertà è da ritenere legittima finché procura più frequenti
occasioni di onesta condotta, altrimenti no.
Dove
la tirannide opprima o sovrasti in modo tale da sottomettere la cittadinanza
con iniqua violenza, o costringa la Chiesa ad essere priva della dovuta
libertà, è lecito chiedere una diversa organizzazione dello Stato, in cui sia
concesso agire liberamente; in questo caso non si rivendica quella smodata e
colpevole libertà, ma qualche sollievo a vantaggio di tutti e si agisce così
solamente perché non sia impedita la facoltà di comportarsi onestamente là dove
si concede licenza al malaffare.
Inoltre,
non è vietato preferire un tipo di Stato regolato dalla partecipazione
popolare, fatta salva la dottrina cattolica circa l’origine e l’esercizio del
pubblico potere. Tra i vari tipi di Stato, purché siano di per se stessi in
grado di provvedere al benessere dei cittadini, nessuno è riprovato dalla
Chiesa; essa pretende tuttavia ciò che anche la natura comanda: che i singoli
Stati si reggano senza recare danno ad alcuno, e soprattutto rispettino i
diritti della Chiesa.
È
onesto partecipare alla pubblica amministrazione, a meno che in qualche luogo,
per eccezionali circostanze di tempo e di cose, non venga disposto
diversamente; anzi la Chiesa approva che ognuno dedichi l’opera sua al comune
vantaggio e che con ogni sua iniziativa, nei limiti del possibile, difenda,
consolidi, renda prospero lo Stato. La Chiesa non condanna una nazione che
voglia essere indipendente dallo straniero o da un tiranno, purché sia salva la
giustizia. Infine non rimprovera neppure coloro che propugnano uno Stato retto da
proprie leggi, e una cittadinanza dotata della più ampia facoltà di accrescere
il proprio benessere.
La
Chiesa fu sempre coerente fautrice delle libertà civili, purché non
intemperanti: ne sono validi testimoni le città d’Italia che, attraverso i
Comuni, raggiunsero la prosperità, la ricchezza, la gloria esercitando i propri
diritti, nel tempo in cui la virtù salutare della Chiesa si era diffusa in ogni
parte dello Stato, senza alcun contrasto.
Venerabili
Fratelli, confidiamo che questi concetti, che abbiamo espresso guidati ad un
tempo dalla fede e dalla ragione nell’adempimento del Nostro dovere apostolico,
riescano fruttuosi per molti, soprattutto se coopererete con Noi. E Noi,
nell’umiltà del Nostro cuore, alziamo supplici gli occhi a Dio e con ardore Lo
preghiamo perché voglia benevolmente infondere negli uomini il lume della sua
sapienza e del suo consiglio, in modo che, confortati da queste virtù, possano
distinguere la verità in situazioni così difficili, e di conseguenza possano
vivere in privato, in pubblico, in ogni tempo, con inalterabile costanza fedeli
alla verità. Come auspicio di celesti doni e come testimonianza della Nostra
benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e al popolo a Voi affidato,
impartiamo con grande affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.
LEONE
XIII
Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 giugno 1888,
nell’anno undecimo del Nostro Pontificato.