di Francesco Ognibene
Quando dalle colonne del Foglio iniziò a chiedere col suo piglio provocatoriamente energico se l’embrione fosse «qualcosa» o «qualcuno», chi lo conosceva capì subito come sarebbe andata a finire: Giuliano Ferrara la battaglia sulla "questione bioetica" l’avrebbe combattuta sino in fondo, senza sconti intellettuali.
Dal giorno in cui è vita ha fatto capolino per la prima volta dal
cuore di Avvenire (13 febbraio 2005), 100 numeri fa, si è così trovato
più di una volta in buona compagnia ad argomentare sui grandi nodi della
bioetica. Un anno e mezzo dopo, Ferrara – che si dichiara lettore attento del
quotidiano dei cattolici, è vita incluso – parla ormai da veterano della bioetica.
Veterano, non certo reduce.
Direttore, a un certo punto nella vita degli italiani sono spuntati i
grandi temi della bioetica...
«Per me non è stata una sorpresa: la bioetica fa parte della mia vita
intellettuale e anche militante. Nel 1986 lavorando al Corriere della Sera
come opinionista fronteggiai le notizie sulla pillola Ru
486, da poco nata. Lo feci in due articoli che suscitarono scalpore perché vi
esprimevo una posizione eccentrica rispetto a un giornale rigorosamente laico.
Scrivevo quello che scrivo ancora oggi sulla
banalizzazione dell’aborto, l’isolamento della donna, il divorzio tra modernità
e vita che mi pareva sotteso a quello che veniva proposto come un simbolo
ingannevole della libertà femminile. In tutte le persone sanamente
conservatrici in realtà il tema della bioetica è presente da tempo. Gli inganni
ideologici sulla libertà e la salute della donna, su tecno-scienza
e vita sono all’opera da molto tempo».
Cos’è cambiato con l’affiorare della "questione bioetica" nel
dibattito pubblico?
«Ragionare sulle frontiere della vita vuol dire riflettere su tutto, e
questo ha un impatto dirompente sullo status quo: la ragione è chiamata a
misurarsi con lo sguardo del cuore, e dall’interno della stessa razionalità nasce
l’esigenza di una battaglia a favore dell’essere umano e dell’umanità
dell’essere, battaglia che ha una natura intimamente religiosa».
Quanto ha pesato la campagna referendaria nell’affermarsi di una
coscienza sui temi della vita?
«Il referendum è stato un fatto che forse non abbiamo saputo comunicare
sufficientemente bene all’Europa e al mondo, dove su temi come la vita e la
famiglia si coltiva dell’Italia una visione caricaturale. L’Italia invece è un
Paese dove per la prima volta è stata messa ai voti una questione sulla quale
concezioni che divinizzano il desiderio e lo trasformano in un diritto ne
fronteggiavano altre – le nostre – che assolutizzano
un dovere verso l’umanità della persona e lo trasformano in un freno, un
limite. L’abbiamo fatto in nome di valori non barbarici, medioevali, feroci,
come ci hanno accusato i nostri interlocutori, ma altamente
laici. Sì, anche
Quali segnali vede?
«Sono ad esempio molto preoccupato dall’idea che per il nuovo Comitato
nazionale di bioetica si possa provvedere a nomine dettate da scelte radicalmente laiciste. Se la legge
fa cultura, il Comitato è l’organo istituzionale che legittima le scelte da
fare. Vedo avanzare l’idea di impostarne il lavoro sostituendo al dialogo tra
identità forti la mediazione diplomatica. Ma non accetterò mai che si trattino
con indifferenza filosofica, morale e – per chi ci crede – anche religiosa le
grandi questioni della bioetica. Le posizioni di chi caldeggia questa soluzione
dispongono già di infinite tribune, che però nel caso
dei referendum si sono rivelate senza popolo».
Si sente ripetere ancora che la bioetica sarebbe una battaglia
"cattolica". Perché lei invece la considera "laica"?
«Perché, specie in Italia, dovrebbe unire tutti i laici consapevoli del
senso dei tempi che stiamo vivendo. Invece vedo in giro molti
laici conformisti, abbandonati alla corrente che riconosce a una scienza in sé
dispotica tutte le risorse per controllarsi e correggersi, senza alcuna
vigilanza sociale, filosofica o morale. Sono quei laici che giochicchiano
da irresponsabili con la vita e la sessualità, con istituzioni plurimillenarie come il matrimonio e la famiglia, e così
facendo stendono una patina di conformismo sull’insieme della vita sociale. Ma
non sono "laici": sono i moderni, i neosecolaristi,
coloro che accettano lo status quo e si scavano una nicchia per cercare di non
ostacolare il vento dominante. I laici veri invece mettono in discussione le
certezze e allo stesso tempo sanno che chi si è posto il problema della verità
non può essere considerato un fanatico ma un interlocutore
che propone argomenti ai quali rispondere».
Tutto questo dibattere di bioetica allora ha permesso di mettere a nudo
un difetto di laicità nel nostro Paese?
«Sicuramente. Era per esempio puro fanatismo ideologico un certo approdo
inerte del femminismo. Abbiamo invece scoperto che ci sono molte donne capaci
di attaccare l’idolo della nostra epoca: che cioè attorno alla liberazione
della donna si possa costruire una teoria dei diritti che in realtà avvilisce
il suo corpo, nuoce alla sua salute, e negando la specificità femminile (tutt’altro che "arcaica") compromette
l’equilibrio della società. Ci sono tratti peculiari e differenze che un
femminismo più maturo – laicamente in dissenso con il
femminismo ideologico – sa di dover comprendere, rispettare e custodire proprio
in nome di valori che fino all’esplodere della questione bioetica erano
considerati "retrogradi"».
C’è stata una sorta di accelerazione del dibattito culturale causata
dal confronto sulle grandi questioni della vita?
«Di fronte alla noia devastante di una politica che non riesce a uscire
dalla transizione, la bioetica ha dato una spinta formidabile. La discussione
pubblica si è spostata di colpo molto più avanti,
verso temi che interessano davvero la vita della gente. L’affacciarsi improvviso
della domanda attorno al fatto che l’embrione sia qualcuno o qualcosa ha fatto
sì che gli italiani per una volta abbiano dovuto
preoccuparsi di una questione vera, sentendo che era necessario metterla a
tema, capire, discutere, costruirsi un giudizio».
A volte è sembrato che spuntasse una nuova ideologia su base tecno-scientifica. Che idea di uomo va
affermando?
«Un’idea nichilista, priva non solo di un contenuto positivo ma, nella sua
sostanziale indifferenza, persino di uno negativo. L’unico contenuto pare
essere la libertà di fare ciò che più aggrada. Ed è davvero un pensiero povero,
auto-indulgente, perché nega persino lo spazio al peccato disegnando un mondo irenistico dove tutti fanno quello che vogliono e non si
preoccupano delle conseguenze».
E i mass media come si comportano?
«Con qualche eccezione, il circuito mediatico è
politicamente, ideologicamente, filosoficamente, spiritualmente corretto: dal
profondo del suo cuore non sgorga più da tempo un solo grido
"scorretto", capace cioè di instillare dubbi. Si legge quello che già
si sa, con una sostanziale incapacità di comprendere il nuovo».
Cosa ci attende ora?
«Mi sono messo il cuore in pace: avendo fatto molte esperienze, ho capito
che le cose importanti vanno costruite, devono circolare, penetrare
profondamente. È il lavoro certosino, quotidiano, paziente di dire sempre la
cosa che si ritiene giusta, senza superbia né presunzione, sapendo usare un
linguaggio accogliente e rispettoso. Bisogna possedere, esporre e mettere a
disposizione di tutti una posizione rigorosa e insieme
variamente argomentata, facendo capire che le cose, se le chiamiamo col loro
nome, non significano quello che la cultura dominante vuol far credere. Non
esiste pluralismo e democrazia se è negata la possibilità di vivere e battersi
perché le proprie idee diventino socialmente produttive di un modo di vita
veramente umano».