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Libertà e religione nell'identità
dell'Europa
Per i
politici di ogni partito è oggi ovvio promettere cambiamenti - naturalmente
in meglio. Mentre è attualmen-te in ribasso il successo una volta mitico
della parola rivoluzione, tanto più vengono richieste e promesse decise
riforme di ampia portata. Si dovrebbe pertanto concludere che nella società moderna domina un profondo sen-so
di insoddisfazione e questo proprio laddove benessere e libertà hanno
raggiunto un livello finora sconosciuto. Il mondo viene sentito come
difficilmente sopportabile, deve diventare migliore, e realizzare questo sembra es-sere il compito
della politica. Poiché dunque secondo l’opinione comune il miglioramento del
mondo, l’edificazione di un mondo nuovo costituisce il compito essenziale
della politica, si può comprendere anche perché la parola «conservatore» è
divenuta sospetta e difficilmente qualcuno vuole essere considerato come
conservatore: si tratta infatti, così sembra, non di conservare la condizione
attuale, ma di superarla. Con questo orientamento di fondo la concezione moderna della
politica, anzi, della vita in questo mondo si colloca decisamente in evidente
contrapposizione con le visioni di periodi antecedenti, per i quali valeva
quale grande compito dell’agire politico proprio la conservazione e la difesa
dell’esistente di fronte alla sua minaccia. Qui può essere chiarificatrice
una piccola osservazione linguistica. Quando il cristianesimo cercò nel mondo romano una parola, con
la quale potesse esprimere, in modo sintetico e comprensibile per tutti, cosa
significava Gesù Cristo per loro, ci si imbatté nella parola Conservator, con
la quale era descritto a Roma il compito essenziale e il servizio più
elevato, che era necessario rendere all’umanità. Ma proprio questo titolo i cristiani non poterono e non
vollero trasferire sul loro redentore; non potevano proprio tradurre in tal
modo la parola Messia-Cristo, il compito del salvatore del mondo. Dal punto di vista dell’impero romano doveva in realtà
apparire come il più importante compito quello di conservare la situazione
dell’impero contro tutte le sue minacce interne ed esterne, poiché questo
impero incarnava uno spazio di pace e di diritto, nel quale gli uomini
potevano vivere in sicurezza e dignità. Di fatto i cristiani - già anche la
generazione apostolica - hanno saputo apprezzare questa garanzia di diritto e
di pace che l’impero romano offriva. Ai padri della Chiesa davanti al caos minacciante, che si
annunciava con le invasioni di altri popoli, interessava certamente il
mantenimento dell’impero, delle sue garanzie giuridiche, del suo ordinamento
di pace. Nondimeno i cristiani non potevano semplicemente volere che
tutto rimanesse come era; l’Apocalisse, che certamente con la sua visione
dell’impero si colloca al margine del Nuovo Testamento, dimostrava
chiaramente per tutti che vi era anche qualcosa che non poteva essere
conservato, ma doveva essere cambiato. Che Cristo non potesse essere
designato come Conservator, ma come Salvator, non aveva certamente alcun
significato politico-rivoluzionario, ma indicava nondimeno i limiti della
pura conservazione e rinviava a una dimensione dell’esistenza umana, che va
al di là delle funzioni di pace e di ordine proprie della politica. Cerchiamo di approfondire un poco questo episodio particolare
di una forma della comprensione esistenziale del compito della politica. Dietro l’alternativa, che si era a noi mostrata finora in modo
piuttosto indistinto nella contrapposizione fra il titolo di Conservator e di
Salvator, si evidenziano in realtà due diverse visioni di ciò che l’agire
politico ed etico deve e può realizzare, in cui non solo politica e morale,
ma anche politica, religione e morale appaiono reciprocamente intrecciate in
diverse modalità. Da una parte vi è la visione statica, orientata alla
conservazione, che forse si manifesta nel modo più evidente
nell’universalismo cinese: l’ordine del cielo, eternamente eguale, offre il
suo criterio anche all’agire terreno. È il Tao, la legge dell’essere e della
realtà, che gli uomini devono riconoscere e riprendere nell’agire. Il Tao è
legge sia cosmica che morale. Garantisce l’armonia di cielo e terra e così
anche l’armonia della vita politica e sociale. Disordine, turbamento della pace, caos insorgono quando l’uomo
si rivolge contro il Tao, vive ignorandolo o contro di esso. Allora contro
tali turbamenti e devastazioni della vita comune deve essere restaurato il
Tao e così il mondo reso nuovamente vivibile. Tutto dipende dalla
conservazione dell’ordine durevole o dal ritorno a esso, qualora fosse stato
abbandonato. Qualcosa di analogo è espresso nel concetto indiano del
Dharma, che significa l’ordine tanto cosmico che etico e sociale, al quale
l’uomo deve adeguarsi, perché la vita si sviluppi armonicamente. Il buddismo ha relativizzato questa visione insieme cosmica,
politica e religiosa, in quanto ha spiegato tutto quanto il mondo come un
ciclo di sofferenze; la salvezza non va cercata nel cosmo, ma nell’uscire da
esso. Ma non ha creato nessuna nuova visione politica, in quanto la ricerca
della salvezza è concepita in modo non mondano - come orientamento al
Nirvana; per il mondo in quanto tale non vengono proposti nuovi modelli. Diversamente la fede d’Israele. Anch’essa in realtà con
l’alleanza stretta da Dio con Noè conosce qualcosa come un ordine cosmico e
la promessa della sua stabilità. Ma per la fede dello stesso Israele
l’orientamento verso il futuro diventa sempre più evidente. Non l’eternamente
immobile, l’oggi sempre uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non
ancora presente appare come il luogo della salvezza. Il libro di Daniele, la cui redazione si colloca per altro nel
corso del Secondo secolo avanti Cristo, offre due grandi visioni
storico-teologiche, che divennero di enorme significato per l’ulteriore
sviluppo del pensiero politico e religioso. Nel secondo capitolo si trova la visione della statua, che è
costituita in parte d’oro, in parte d’argento, in parte di ferro e infine
anche di argilla. Questi quattro elementi indicano una successione di quattro
regni. Alla fine tutti vengono distrutti da una pietra che si stacca da una
montagna senza partecipazione di mano d’uomo e che riduce il tutto in
polvere, così che il vento ne porta via i resti e di essi non ne rimane più alcuna
traccia. La pietra invece diventa una grande montagna e riempie tutta
quanta la terra - simbolo di un regno, che il Dio del cielo e della terra
erigerà e che non verrà meno per l’eternità (2,44). Nel settimo capitolo del medesimo libro appare con un
simbolismo forse ancora più impressionante la successione dei regni come il
susseguirsi di quattro belve, sulle quali alla fine Dio - presentato come
«vegliardo» - esercita un giudizio. Le quattro belve - i grandi imperi della
storia del mondo - erano salite dal mare, che rappresenta il simbolo della
potenza di minaccia contro la vita per mezzo della morte e dei suoi poteri;
dopo il giudizio tuttavia giunge dal cielo l’uomo («un figlio d’uomo»), e gli
vengono consegnati tutti i popoli, le nazioni e le lingue per un regno, che è
eterno, intramontabile e che mai passerà. Mentre nelle concezioni del Tao e del Dharma gli ordinamenti
eterni del cosmo hanno un ruolo, l’idea di «storia» quindi non appare
affatto, qui ora la «storia» è concepita come una realtà specifica, non
riconducibile al cosmo, e con questa realtà antropologica e dinamica
precedentemente non avvertita si inaugura una visione totalmente diversa. È evidente che una tale rappresentazione di una successione
storica di regni, che sono belve voraci in forme sempre più spaventose, non
poteva formarsi in uno dei popoli dominatori, ma presuppone quale suo
supporto sociologico un popolo che ha coscienza di essere esso stesso
minacciato dalla voracità di queste belve e ha anche sperimentato un
susseguirsi di potenze che gli hanno conteso il diritto all’esistenza. È la visione degli oppressi, che guardano a una svolta della
storia e non possono essere interessati alla conservazione dell’esistente.
Nella visione di Daniele la svolta della storia si realizza non per un’azione
politica o militare - a questo fine mancano semplicemente le forze
necessarie. Essa subentra solo per un intervento di Dio: la pietra, che
distrugge i regni, si stacca da una montagna «non per mano di uomo» (2,34). I Padri della Chiesa videro qui un misterioso preannuncio
della nascita di Gesù dalla vergine, solo per la potenza di Dio; in Cristo
essi vedono la pietra, che alla fine diventa montagna e riempie la terra. Nuovo
rispetto alle visioni cosmiche, nelle quali semplice-mente il Tao o il Dharma
stesso si presentano come la potenza del divino, come il «divino», è dunque
non solo l’apparire della storia non riducibile al cosmo, ma questa terza
realtà e allo stesso tempo prima: un Dio che agisce, al quale si rivolge la
speranza degli oppressi. Ma già con i Maccabei, che sono da collocare all’incirca nella
stessa epoca delle visioni di Daniele, anche l’uomo stesso deve prendere in
mano la causa di Dio con un’azione politica e militare; in alcune parti della
letteratura di Qumran la fusione di speranza teologica e di azione
propriamente umana diventa ancora più evidente. Infine la lotta di Bar
Kocheba ha il senso di una chiara politicizzazione del messianismo: Dio si serve
per la svolta di un «Messia», che per incarico e con l’autorità di Dio
introduce la novità per mezzo di un’azione politica e militare. Il Sacrum imperium dei cristiani sia nella sua variante
bizantina che in quella latina non ha potuto né voluto riprendere tali
concezioni, tanto più in quanto impegnato nuovamente nella conservazione
dell’ordine mondiale fondato ora cristianamente, con la convinzione per altro
che si era nella sesta epoca della storia, nell’età della vecchiaia e poi
sarebbe venuto l’altro mondo, che come ottavo giorno di Dio già correva
parallelamente alla storia e quindi sarebbe a questa definitivamente
subentrato. In realtà l’apocalittica - come si definisce la corrente della
speranza critica della storia, al cui inizio sta il libro di Daniele - non è
mai del tutto scomparsa. Essa emerge nuovamente con crescente virulenza a
partire dall’illuminismo e diviene ora a partire dal Diciannove-simo secolo
in forma secolarizzata e in variazioni contrastanti, la visione politica
dominante. La sua forma radicale si trova nel marxismo, che si ricollega
a Daniele in quanto valuta negativamente tutta la storia precedente come
storia di oppressione e inoltre presuppone come supporto sociologico la
classe degli sfruttati, degli operai innanzitutto privati di ogni diritto e
dei contadini dipendenti. Con un capovolgimento sorprendente, sui motivi del quale non
si è ancora riflettuto abba-stanza, è però poi divenuto sempre più la
religione degli intellettuali, mentre i lavoratori erano giunti per mezzo di
riforme a diritti che rendevano per essi superflua la rivoluzione - la grande
evasione dall’attuale forma storica. Per essi non era più necessaria la pietra che distruggeva i
regni: puntavano piuttosto sull’altra figura di Daniele, quella del leone,
che fu messo sui due piedi come un uomo e al quale fu dato un cuore di uomo
(7,4). Ma dobbiamo forse esaminare ancora un poco più da vicino la
fisionomia del nuovo messianismo secolare, come esso si è manifestato nel
marxismo, perché esso si aggira ancora come uno spettro in forme diverse
nelle anime di molti. Il fondamento di questa nuova concezione della storia è
costituito da una parte dalla teoria dell’evoluzione trasferita sulla storia,
dall’altra - non senza un legame con la precedente - dalla fede nel progresso
nella versione che Hegel le aveva dato. Il collegamento con la teoria dell’evoluzione significa che la
storia è vista in modo biologistico, anzi, materialistico e deterministico:
essa ha le sue leggi e il suo corso, contro il quale si può lottare, ma che
alla fine non può essere arrestato. L’evoluzione è subentrata al posto di Dio. «Dio» significa
ora: sviluppo, progresso. Ma questo progresso - qui entra Hegel - si realizza
in movimenti dialettici; anch’esso ultimamente è compreso in forma
deterministica. L’ultima tappa dialettica è il salto dalla storia
dell’oppressione nella definitiva storia della salvezza - il passaggio dalle
belve al figlio dell’uomo, si potrebbe dire con Daniele. Il regno del Figlio
dell’uomo si chiama ora «società senza classi». Sebbene da una parte i salti dialettici come eventi naturali
avvengano necessariamente, concretamente essi si verificano di fatto
attraverso un cammino politico. Il corrispondente politico del salto dialettico è la
rivoluzione. Esso è l’opposto della riforma, che si deve respingere, poiché
essa in realtà suscita l’im-pressione che alla belva sia dato un cuore d’uomo
e non sia più necessario combatterla. Le riforme distruggono lo slancio
rivoluzionario; pertanto si collocano contro la logica interna della storia,
sono un’involuzione invece di un’evo-luzione, quindi alla fine nemiche del
progresso. Rivoluzione e utopia - la nostalgia di un mondo perfetto -
sono collegate: sono la forma concreta di questo nuovo messianismo, politico
e secolarizzato. L’idolo del futuro divora il presente; l’idolo della
rivoluzione è l’avversario dell’agire politico razionale in vista di un
concreto miglioramento del mondo. La visione teologica di Daniele, dell’apocalittica
in genere, è applicata alla realtà secolare, ma allo stesso tempo mitizzata.
Infatti entrambe le due idee politiche portanti - rivoluzione e utopia -
sono, nel loro legame con l’evoluzione e la dialettica, un mito assolutamente
antirazionale: la smitizzazione è urgentemente necessaria, perché la politica
possa svolgere la sua opera in modo veramente razionale. Dove si colloca ora però, prescindendo da Daniele e dal
messianismo politico, la fede cristiana? Qual è la sua visione della storia e
per quanto riguarda il nostro agire storico? Prima che io possa tentare di formulare un giudizio
complessivo, dobbiamo dare uno sguardo ai più importanti testi del Nuovo
Testamento. Qui si possono, senza grandi analisi, distinguere facilmente
due gruppi di testi: da una parte vi sono i testi dei Vangeli e degli Atti
degli apostoli, che al massimo da lontano lasciano intravedere legami con
l’apocalittica; dall’altra parte vi è l’Apocalisse di Giovanni, che - come
già dice il nome - appartiene alla corrente dell’apocalittica. È noto che i testi delle lettere degli apostoli - in
consonanza con la visione tratteggiata nei Vangeli - non sono affatto toccate
dal pathos della rivoluzione, anzi, vi si oppongono chiaramente. I due testi
fondamentali di Rom 13,1-6 e di 1 Petr 2,13-17 sono molto chiari e da sempre
una spina nell’occhio per tutti i rivoluzionari. Romani 13 chiede che
«ciascuno» (letteralmente: ogni anima) stia sottomesso alle autorità
costituite, perché non c’è alcuna autorità se non da Dio. Un’opposizione
all’autorità sarebbe pertanto un’opposizione contro l’ordine stabilito da
Dio. Ci si deve sottomettere quindi non solo per costrizione, ma per ragioni
di coscienza. In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede
sottomissione alle autorità legittime «per amore del Signore»: «Perché questa
è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca
all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi
della libertà come di un velo per coprire la malizia...». Né Paolo né Pietro
esprimono qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi
affermino l’origine divina degli ordinamenti giuridici statali, sono ben
lontani da una divinizzazione dello Stato. Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio
e non si può presentare come Dio, riconoscono la funzione dei suoi
ordinamenti e il suo valore morale. Si collocano così in una buona tradizione
biblica, pensiamo a Geremia, che esorta gli israeliti esiliati alla lealtà
nei confronti dello Stato oppressore di Babilonia, nella misura in cui questo
Stato garantisce il diritto e la pace e così anche il relativo benessere di
Israele, che è la condizione della sua restaurazione come popolo. Pensiamo al Deutero-Isaia, che non ha paura di designare Ciro
come l’unto di Dio: il re dei persiani, che non conosce il Dio d’Israele e fa
ritornare il popolo in patria per considerazioni puramente
pragmatico-politiche, agisce nondimeno, dal momento che si impegna per il
ristabilimento del diritto, come strumento di Dio. In questa linea si muove la risposta di Gesù ai farisei e agli
erodiani in merito alla questione delle tasse: ciò che è di Cesare, deve
essere dato a Cesare (Mc 13,12-17). Nella misura in cui l’imperatore romano è
garante del diritto, egli può esigere obbedienza; naturalmente l’ambito del
dovere di obbedienza viene allo stesso tempo ridotto: esiste ciò che è di
Cesare e ciò che è di Dio. Laddove Cesare si innalza a Dio, ha superato i
suoi limiti e l’obbedienza sarebbe allora rinnegamento di Dio.
Sostanzialmente è in questa linea anche la risposta di Gesù a Pilato, nella
quale il Signore proprio di fronte al giudice ingiusto riconosce tuttavia che
il potere per l’esercizio del ruolo di giudice, del servizio al diritto, può
essere dato solo dall’alto (Gv 19,11). Se si considerano queste correlazioni, appare una concezione
dello Stato molto sobria: non è determinante la credibilità personale o le
buone intenzioni soggettive degli organi dello Stato. Nella misura in cui
garantiscono la pace e il diritto, corrispondono a una disposizione divina;
con una terminologia di oggi diremmo: rappresentano un ordinamento
creaturale. Lo Stato è da rispettare proprio nella sua profanità; è
necessario a partire dall’essenza dell’uo-mo come animal sociale et
politicum, si fonda su questa natura umana e così è corrispon-dente alla
creazione. In tutto questo è allo stesso tempo contenuta una
delimitazione dello Stato: esso ha il suo ambito, che non può superare; deve
rispettare il più alto diritto di Dio. Il rifiuto dell’adorazione dell’imperatore e in genere il
rifiuto del culto dello Stato è in fondo semplicemente il rifiuto dello Stato
totalitario. Nella prima lettera di Pietro si manifesta molto chiaramente
questa linea di demarcazione, quando l’apostolo dice: «Nessuno di voi abbia a
soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come
cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome» (4,15s).
Il cristiano è vincolato all’ordine giuridico dello Stato come a un
ordinamento morale. Qualcosa di diverso è quando egli soffre «come cristiano»:
laddove lo Stato punisce l’essere cristiano come tale, non esercita il potere
come garante, ma come distruttore del diritto. Allora non è vergogna, ma un
onore, essere puniti. Chi soffre per questo motivo, si pone proprio nella
sofferenza nella sequela di Cristo: il Cristo crocifisso indica i limiti del
potere statale e mostra ove hanno fine i suoi diritti e la resistenza nella
sofferenza diventa una necessità. La fede del Nuovo Testamento non conosce il rivoluzionario, ma
il martire: il martire riconosce l’autorità dello Stato, conosce però anche i
suoi limiti. La sua resistenza consiste nel fatto che egli fa tutto ciò che è
al servizio del diritto e della comunità organizzata, anche se proviene da
autorità estranee o ostili alla fede, ma egli non obbedisce laddove gli viene
ordinato di fare il male, cioè di mettersi contro la volontà di Dio. La sua
resistenza non è la resistenza della violenza attiva, ma la resistenza di
colui che è pronto a soffrire per la volontà di Dio: il combattente della
resistenza, che muore con l’arma in mano, non è un martire nel senso del
Nuovo Testamento. La medesima linea si rivela anche se guardiamo ad altri testi
del Nuovo Testamento, che prendono posizione nei confronti del problema
dell’atteggiamento cristiano davanti allo Stato. Tito 3,1 dice: «Ricorda loro di essere sottomessi ai
magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona...».
Molto indicativo è 2 Tess 3,10-12, laddove l’apostolo si rivolge contro
coloro che - certamente con il pretesto dell’attesa cristiana del ritorno del
Signore - non lavorano e non vogliono fare niente di utile. Essi vengono
invece esortati a lavorare pacificamente, perché «chi non lavora, non
mangia». L’escatologia entusiasta viene fortemente richiamata a
ridimensionarsi. Un aspetto importante appare anche in 1 Tim 2,2, dove i
cristiani vengono esortati a pregare per il re e per tutte le autorità, «perché
possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla». Due cose appaiono qui chiaramente: i cristiani pregano per il
re e per le autorità, ma non adorano il re. Il testo data o dal tempo di
Nerone - se ne è autore Paolo - o, se è da collocare più tardi, all’incirca
dal tempo di Domiziano, quindi due tiranni ostili ai cristiani. Nondimeno i cristiani pregano per colui che governa, perché
egli possa adempiere il suo compito. Naturalmente qualora
egli si faccia Dio, gli rifiutano obbedienza. Il secondo elemento consiste nel fatto che viene formulato il
compito dello Stato in una forma straordinariamente sobria, che sembra quasi
banale: deve preoccuparsi della pace interna ed esterna. Ciò può, come detto,
suonare piuttosto banale, ma in realtà vi è espressa una istanza
essenzialmente morale: la pace interna ed esterna sono possibili solo quando
sono assicurati i diritti essenziali dell’uomo e della comunità. Cerchiamo ora brevemente di inserire queste indicazioni nelle
prospettive che abbiamo incontrato in precedenza. A me sembra che si potrebbero dire due cose. La visione storica dinamicizzata dell’apocalittica e delle
speranze messianiche fa la sua apparizione solo indirettamente; il
messianismo è essenzialmente modificato dalla figura di Gesù. Esso rimane
politicamente rilevante, in quanto indica il punto in cui il martirio diventa
necessario e così viene precisato il limite dei diritti dello Stato. Ogni
martirio tuttavia sta sotto la promessa del Cristo risorto e che ritornerà;
in questo senso rinvia al di là del mondo presente a una nuova, definitiva
comunione degli uomini con Dio e fra di loro. Ma questa delimitazione
dell’ambito dello Stato e questa apertura dell’orizzonte a un futuro mondo
nuovo non dissolve gli attuali ordinamenti statali che sulla base della
ragione naturale e della sua logica devono continuare a governare e sono
ordinamenti validi per il tempo della storia. Un messianismo entusiasta escatologico-rivoluzionario è
assolutamente estraneo al Nuovo Testamento. La storia è per così dire il
regno della ragione; la politica non instaura il Regno di Dio, ma certamente
deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo, ciò vuol dire: creare i
presupposti per una pace interna ed esterna e per una giustizia, nella quale tutti
«possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità»
(1 Tim 2,2). Si potrebbe dire che qui è espresso anche il postulato della
libertà di religione, come viceversa si ritiene la ragione capace di
conoscere i fondamenti morali essenziali dell’essere umano e di realizzarli
politicamente. In questo senso vi è una vicinanza con le posizioni che il Tao
o il Dharma propongono a fondamento dello Stato. Per questo i cristiani
potevano guardare positivamente all’idea stoica della legge morale naturale,
che proponeva analoghe concezioni nel contesto della filosofia greca. La dinamicizzazione della storia, particolarmente visibile nel
libro di Daniele, che non considera la storia semplicemente in modo cosmico,
ma la interpreta come dinamica di bene e male in movimento progressivo,
rimane presente attraverso la speranza messianica. Essa evidenzia i criteri morali della politica e indica i
limiti del potere politico; grazie all’oriz-zonte della speranza, che lascia
intravedere al di là della storia e in essa dà il coraggio per il retto agire
e per il retto soffrire. In questo senso si può parlare di una sintesi della
visione cosmica e storica. Io credo che a partire di qui si può perfino definire
esattamente dove corre il confine fra l’apocalittica cristiana e quella non
cristiana, gnostica. L’apocalittica è cristiana allorquando mantiene il legame con
la fede nella creazione; laddove la fede nella creazione, la sua permanenza e
la sua fiducia nella ragione vengono abbandonate, là si compie il trapasso
dalla fede cristiana alla gnosi. All’interno di queste opzioni di fondo vi è senza dubbio una
grande possibilità di variazioni, ma certamente una opzione di fondo comune.
Un’analisi dei testi, che qui non è possibile, potrebbe mostrare che
l’Apocalisse di Giovanni, per quanto il suo pathos di resistenza la distingua
dagli scritti apostolici, resta molto chiaramente all’interno dell’opzione
cristiana. ***** Cosa
ne consegue da tutto questo per il rapporto fra visione politica e prassi politica
oggi? Sull’argomento ci sarebbe senza dubbio da fare una discussione molto
ampia, per la quale io non mi sento competente. Ma in due tesi vorrei
brevemente raccogliere indicazioni per la traduzione di questi elementi
nell’oggi. 1.La
politica è l’ambito della ragione, e più precisamente non di una ragione
semplicemente tecnica-calcolatrice, ma morale, poiché il fine dello Stato e
così il fine ultimo di ogni politica è di natura morale, cioè la pace e la
giustizia. Ciò
significa che la ragione morale o - forse meglio - il discernimento razionale
di ciò che serve alla giustizia e alla pace, e quindi è morale, deve essere
continuamente esercitato e difeso contro oscuramenti che diminuiscono la
capacità di discernimento della ragione. Lo spirito di parte, che si
accompagna al potere, produrrà continuamente miti in diverse forme che si
presentano come la vera via della realtà morale nella politica, ma in verità
sono mascheramenti e rivestimenti del potere. Nel
secolo scorso abbiamo sperimentato due grandi elaborazioni mitiche con
conseguenze terribili: il razzismo con la sua falsa promessa di salvezza da
parte del nazionalsocialismo; la divinizzazione della rivoluzione sullo
sfondo dell’evoluzionismo storico dialettico; in entrambi i casi furono di
fatto cancellate le intuizioni morali originarie dell’uomo sul bene e sul
male. Tutto
ciò che serve il dominio della razza, ovvero tutto ciò che serve
l’instaurazione del mondo futuro, è bene - così ci veniva detto -, anche se
ciò, secondo le conoscenze dell’u-manità finora acquisite, fosse stato un
male. Dopo
la caduta delle grandi ideologie oggi i miti politici sono presentati in modo
meno chiaro, ma esistono anche oggi forme di mitizzazione di valori reali che
appaiono credibili, proprio per il fatto che si ancorano ad autentici valori,
ma appunto anche per questo sono pericolosi, per il fatto che
unilateralizzano questi valori in un modo che si può definire mitico. Direi
che oggi tre valori sono dominanti nella coscienza comune, la cui
unilateralizzazione mitica rappresenta allo stesso tempo un pericolo per la
ragione morale di oggi. Questi tre valori continuamente miticamente
unilateralizzati sono il progresso, la scienza, la libertà. Il
progresso è da sempre una parola mitica, che si impone come norma dell’agire
politico e umano in generale e appare come la sua più alta qualificazione
morale. Chi guarda anche solo al cammino degli ultimi cento anni, non può
negare che sono stati raggiunti progressi enormi nella medicina, nella
tecnica, nella conoscenza e nello sfruttamento delle forze della natura e
progressi ulteriori possono essere sperati. Nondimeno
permane di attualità anche l’ambivalenza di questo progresso: il progresso
comincia a minacciare la creazione - la base della nostra esistenza; esso
produce disu-guaglianze fra gli uomini e produce anche sempre nuove minacce
al mondo e all’umanità. In
questo senso orientare il progresso secondo criteri morali è indispensabile. Secondo
quali criteri? Questo è il problema. Innanzitutto
però deve essere chiaro che il progresso si estende al rapporto dell’uomo con
il mondo materiale ma non dà luogo in quanto tale - come il marxismo e il
liberalismo ave-vano insegnato - all’uomo nuovo, alla nuova società. L’uomo
come uomo resta uguale nelle situazioni primitive come in quelle tecnicamente
sviluppate e non cresce di livello semplicemente per il fatto che ha imparato
ad adoperare strumenti meglio sviluppati. L’essere
uomo ricomincia da capo in ogni essere umano. Perciò
non può esistere la definitivamente nuova, progredita e sana società, nella
quale non solo hanno sperato le grandi ideologie, ma che diviene sempre più -
dopo che la speranza nell’aldilà è stata demolita - l’obiettivo generale da
tutti sperato. Una
società definitivamente sana presupporrebbe la fine della libertà. Poiché
però l’uomo rimane sempre libero, ricomincia a ogni generazione, pertanto si
deve anche di nuovo operare per la forma giusta di società nelle sempre nuove
condizioni. L’ambito
della politica pertanto è il presente e non il futuro - il futuro solo nella
misura in cui la politica odierna cerca di creare forme di diritto e di pace
che possano valere anche domani e invitare a corrispondenti riforme, che
riprendano e continuino ciò che si è raggiunto. Ma non possiamo garantirlo. Io
penso che è molto importante tenere presenti questi limiti del progresso ed
evitare false scappatoie nel futuro. Al
secondo posto vorrei menzionare il concetto di scienza. La
scienza è un grande bene, proprio perché è una forma di razionalità
controllata e confermata dall’esperienza. Ma
vi sono anche patologie della scienza, stravolgimenti delle sue possibilità
in favore del potere, in cui allo stesso tempo viene intaccata la dignità
dell’uomo. La scienza può anche servire alla disumanità, se pensiamo alle
armi di distruzione di massa o agli esperimenti umani o al commercio di
persone per l’esplantazione di organi ecc. Pertanto
deve essere chiaro che anche la scienza deve sottostare a criteri morali e la
sua vera natura va sempre perduta allorquando invece che della dignità
dell’uomo si mette al servizio del potere o del commercio o semplicemente del
successo come unico criterio. Infine
vi è il concetto di libertà. Anch’esso
nell’epoca moderna ha assunto diversi tratti mitici. La
libertà non di rado viene concepita in modo anarchico e semplicemente
antistituzionale e così diviene un idolo: la libertà umana può essere sempre
solo la libertà del giusto rapportarsi reciproco, la libertà nella giustizia,
altrimenti diventa menzogna e conduce alla schiavitù. 2.
Il fine di ogni sempre necessaria smitizzazione è la restituzione della
ragione a se stessa. Qui
però deve ancora una volta essere smascherato un mito che solo ci mette
davanti all’ultima decisiva questione di una politica ragionevole: la
decisione a maggioranza è in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, la
via «più ragionevole» per giungere a soluzioni comuni. Ma
la maggioranza non può essere il principio ultimo; ci sono valori che nessuna
maggioranza ha il diritto di abrogare. L’uccisione degli innocenti non può
mai divenire un diritto e non può essere elevato a diritto da alcun potere. Anche
qui si tratta ultimamente della difesa della ragione: la ragione, la ragione
morale, è superiore alla maggioranza. Ma come possono essere conosciuti
questi valori ultimi, che costituiscono i fondamenti di ogni politica
«ragionevole», moralmente giusta e pertanto vincolano tutti al di là di ogni
cambiamento delle maggioranze? Quali sono questi valori? La
dottrina dello Stato sia nell’antichità e nel Medioevo come anche nei
contrasti dell’epoca moderna ha fatto appello al diritto naturale che la
recta ratio può riconoscere. Ma
oggi questa recta ratio sembra non dare più una risposta e il diritto
naturale non viene più considerato come ciò che è evidente per tutti, ma
piuttosto come una dottrina cattolica particolare. Questo
significa una crisi della ragione politica, il che equivale a una crisi della
politica come tale. Sembra che ormai esista solo la ragione partitica, non
più la ragione comune a tutti gli uomini almeno nei grandi ordinamenti
fondamentali dei valori. Lavorare
al superamento di questa situazione è un compito urgente di tutti coloro che
hanno nel mondo responsabilità per la pace e la giustizia - e questo in
definitiva lo siamo di fatto noi tutti. Questo
impegno non è affatto senza prospettive, non lo è proprio per il fatto che la
ragione si fa continuamente sentire contro il potere e lo spirito di parte. Esiste
oggi un canone dei valori mutato, che praticamente non è messo in
discussione, ma in realtà resta troppo indeterminato e mostra zone oscure. La
triade pace, giustizia, integrità della creazione è universalmente
riconosciuta, ma dal punto di vista del contenuto totalmente indeterminata:
che cosa è al servizio della pace? che cosa è la giustizia? come si protegge
nel modo migliore la creazione? Altri
valori universalmente praticamente riconosciuti sono l’uguaglianza degli
uomini in opposizione al razzismo, la pari dignità dei sessi, la libertà di
pensiero e di fede. Anche
qui vi sono mancanze di chiarezza dal punto di vista dei contenuti, che
possono perfino diventare di nuovo minacce per la libertà del pensiero e
della fede, ma gli orientamenti di fondo sono da approvare e sono importanti.
Un
punto essenziale resta controverso: il diritto alla vita per ciascuno, che
sia un essere umano, l’inviolabilità della vita umana in tutte le sue fasi. In
nome della libertà e in nome della scienza vengono inferte ferite sempre più
gravi nei confronti di questo diritto: laddove l’aborto è considerato un
diritto di libertà, la libertà di uno è posta al di sopra del diritto alla
vita dell’altro. Laddove
esperimenti umani con embrioni vengono reclamati in nome della scienza, la
digni-tà dell’uomo viene negata e calpestata nell’essere più indifeso. Qui
si deve dare spazio alle smitizzazioni dei concetti di libertà e di scienza,
se non vogliamo perdere i fondamenti di ogni diritto, il rispetto per l’uomo
e per la sua dignità. Un
secondo punto oscuro consiste nella libertà di deridere ciò che è sacro per
altri. Grazie
a Dio presso di noi nessuno si può permettere di deridere ciò che è sacro per
un ebreo o per un musulmano. Ma si annovera fra i diritti di libertà
fondamentali il diritto di dileggiare e di coprire di ridicolo ciò che è
sacro per i cristiani. E
infine vi è un ulteriore punto oscuro: matrimonio e famiglia sembrano non
essere più valori fondamentali di una società moderna. È
richiesto con urgenza un completamento della tavola dei valori e una
smitizzazione di valori miticamente alterati. Nel
mio dibattito con il filosofo Paolo Flores d’Arcais si toccò proprio questo
punto - i limiti del principio del consenso. Il filosofo non poteva negare
che esistono valori, i quali non possono essere messi in discussione anche da
maggioranze. Ma quali? Davanti a questo problema il moderatore del dibattito,
Gad Lerner, ha posto la domanda: perché non prendere come criterio il
Decalogo? E in realtà il Decalogo non è una proprietà privata dei cristiani o
degli ebrei. È un’altissima espressione di ragione morale che come tale si
incontra largamente anche con la sapienza delle altre grandi culture. Riferirsi
nuovamente al Decalogo potrebbe essere essenziale proprio per il risanamento
della ragione, per un nuovo rilancio della recta ratio. Qui
emerge ora anche con chiarezza ciò che la fede può fare per una buona
politica: essa non sostituisce la ragione, ma può contribuire all’evidenza
dei valori essenziali. Attraverso la concretezza della vita nella fede
conferisce a essi una credibilità, che poi illumina e risana anche la
ragione. Nel secolo trascorso - come in tutti i secoli - proprio la
testimonianza dei martiri ha posto dei limiti agli eccessi del potere e ha
così contribuito in modo decisivo al risanamento della ragione. |