Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani
Joseph Cardinal Ratzinger
Biblioteca del Senato
Sala Capitolare del Chiostro della Minerva
13 maggio 2004
L’Europa - Cos’è essa propriamente? Questa domanda è
stata sempre nuovamente posta, in maniera espressa, dal cardinal Józef Glemp in uno dei circoli
linguistici del Sinodo Episcopale sull’Europa: dove comincia, dove finisce
l’Europa? Perché ad esempio la Siberia non appartiene all’Europa, sebbene essa
sia abitata anche da europei, la cui modalità di pensare e di vivere è inoltre
del tutto europea? E dove si perdono i confini dell’Europa nel sud della
comunità di popoli della Russia? Dove corre il suo confine nell’Atlantico?
Quali isole sono Europa, e quali invece non lo sono, e perché non lo sono? In
questi incontri divenne perfettamente chiaro che Europa solo in maniera del tutto secondaria è un concetto
geografico: l’Europa non è un continente nettamente afferrabile in termini
geografici, ma è invece un concetto culturale e storico.
1. Il sorgere dell’Europa
Questo risulta in modo assai evidente se tentiamo di
risalire alle origini dell’Europa. Chi parla dell’origine dell’Europa, rinvia
solitamente ad Erodoto (ca. 484-
In oriente la trasformazione del mondo antico si compì
più lentamente che in occidente: l’Impero Romano con Costantinopoli come punto
centrale resistette laggiù - anche se sempre più spinto ai margini - fino al XV
secolo. Mentre la parte meridionale del Mediterraneo attorno all’anno 700 è
completamente caduta fuori di quello che fino ad allora era un continente
culturale, si verifica nel medesimo tempo una sempre più forte estensione verso
il nord. Il limes,
che sino ad allora era stato un confine continentale, scompare e si apre verso
un nuovo spazio storico, che ora abbraccia la Gallia,
la Germania, la Britannia come terre-nucleo vere e
proprie, e si protende in maniera crescente verso la Scandinavia.
In questo processo di spostamento dei confini la continuità ideale con il
precedente continente mediterraneo, misurato geograficamente in termini
differenti, venne garantita da una costruzione di teologia della storia: in
collegamento con il libro di Daniele, si considerava l’Impero Romano rinnovato
e trasformato dalla fede cristiana come l’ultimo e permanente regno della
storia del mondo in generale, e si definiva perciò la compagine di popoli e di
stati che era in via di formazione come il permanente Sacrum Imperium Romanum.
Questo processo di una nuova identificazione storica e
culturale è stato compiuto in maniera del tutto consapevole sotto il regno di
Carlo Magno, e qui emerge ora nuovamente anche l’antico nome di Europa, in un significato
mutato: questo vocabolo venne ora impiegato addirittura come definizione del
regno di Carlo Magno, ed esprimeva al tempo stesso la coscienza della
continuità e della novità con cui la nuova compagine di stati si presentava
come la forza propriamente carica di futuro. Carica di futuro proprio perché si
concepiva in continuità con la storia del mondo fino ad allora e ultimamente
ancorata in ciò che permane sempre.
Nell’autocomprensione che
andava così formandosi è espressa parimenti la consapevolezza della definitività, così come al tempo stesso la consapevolezza
di una missione.
È vero che il concetto di Europa è pressoché nuovamente
scomparso dopo la fine del regno carolingio ed è
rimasto solamente conservato nel linguaggio dei dotti; nel linguaggio popolare
esso trapassa solamente all’inizio dell’epoca moderna - certo in connessione
con il pericolo dei Turchi, come modalità di autoidentificazione
-, per imporsi in generale nel XVIII secolo. Indipendentemente da questa storia
del termine, il costituirsi del regno dei Franchi come l’Impero Romano mai
tramontato e ora rinato significa di fatto il passo decisivo verso ciò che noi
oggi intendiamo quando parliamo di Europa.
Certo non possiamo dimenticare che c’è anche una seconda
radice dell’Europa, di un’Europa non occidentale: l’Impero Romano aveva in
effetti, come già detto, resistito a Bisanzio contro
le tempeste della migrazione dei popoli e dell’invasione islamica. Bisanzio intendeva se stessa come la vera Roma; qui di
fatto l’Impero non era mai tramontato, ragion per cui si continuava ad avanzare
una rivendicazione nei confronti dell’altra metà, quella occidentale,
dell’Impero. Anche questo Impero Romano d’Oriente si è esteso ulteriormente
verso il nord, fin dentro il mondo slavo, e si è creato un proprio mondo,
greco-romano, che si differenzia rispetto all’Europa latina dell’occidente in
virtù di una diversa liturgia, una diversa costituzione ecclesiastica, una
diversa scrittura, e in virtù della rinuncia al latino come comune lingua
insegnata.
Certamente ci sono anche sufficienti elementi unificanti,
che possono fare dei due mondi un unico, comune continente: in primo luogo la
comune eredità della Bibbia e della Chiesa antica, la quale del resto in
entrambi i mondi rinvia aldilà di se stessa verso un’origine che ora giace al
di fuori dell’Europa, e cioè in Palestina; inoltre la stessa comune idea di
Impero, la comune comprensione di fondo della Chiesa e quindi anche la
comunanza delle fondamentali idee del diritto e degli strumenti giuridici;
infine io menzionerei anche il monachesimo, che nei grandi sommovimenti della
storia è rimasto l’essenziale portatore non solamente della continuità
culturale, bensì soprattutto dei fondamentali valori religiosi e morali, degli
orientamenti ultimi dell’uomo, e in quanto forza pre-politica
e sovra-politica divenne portatore delle sempre nuovamente necessarie
rinascite.
Tra le due Europe, pur in mezzo
alla comunanza dell’essenziale eredità ecclesiale, c’è tuttavia ancora una
profonda differenza, alla cui importanza ha accennato specialmente Endre von Ivanka:
a Bisanzio Impero e Chiesa appaiono quasi
identificati l’uno con l’altro; l’imperatore è capo anche della Chiesa. Egli
intende se stesso come rappresentante di Cristo, e in collegamento con la
figura di Melchisedek, che era al tempo stesso re e
sacerdote (Gen
14,18), porta dal VI secolo il titolo ufficiale di «re e sacerdote». Per il fatto che a partire da Costantino
l’imperatore se ne era andato via da Roma, nell’antica capitale dell’Impero
poté svilupparsi la posizione autonoma del vescovo di Roma come successore di
Pietro e pastore supremo della Chiesa; qui già dall’inizio dell’era costantiniana viene insegnata una dualità di potestà:
imperatore e papa hanno in effetti potestà separate, nessuno dispone della totalità.
Il papa Gelasio I (492-496) ha formulato la visione dell’Occidente nella sua
famosa lettera all’imperatore Anastasio e ancor più chiaramente nel suo quarto
trattato, dove egli di fronte alla tipologia bizantina di Melchisedek
sottolinea che l’unità delle potestà sta esclusivamente in Cristo: «questi infatti, a causa della debolezza
umana (superbia!), ha separato per i tempi successivi i due ministeri, affinché
nessuno si insuperbisca» (c. 11). Per le cose della vita eterna gli
imperatori cristiani hanno bisogno dei sacerdoti (pontifices), e questi a loro
volta si attengono, per il corso temporale delle cose, alle disposizioni
imperiali. I sacerdoti devono seguire nelle cose mondane le leggi
dell’imperatore insediato per ordine divino, mentre questi deve sottomettersi
nelle cose divine al sacerdote. Con ciò è introdotta una separazione e
distinzione delle potestà, la quale divenne di massima importanza per il
successivo sviluppo dell’Europa, e che per così dire ha posto i fondamenti di
ciò che è propriamente tipico dell’Occidente.
Poiché da ambo le parti di contro a tali delimitazioni
rimase vivo sempre l’impulso alla totalità, la brama di porre il proprio potere
al di sopra dell’altro, questo principio di separazione è divenuto anche la
sorgente di infinite sofferenze. Come esso debba essere vissuto correttamente e
concretizzato politicamente e religiosamente rimane un problema fondamentale
anche per l’Europa di oggi e di domani.
2. La svolta verso l’epoca moderna
Se in base a quanto sin qui detto possiamo considerare il
sorgere dell’impero carolingio da una parte, e la
continuazione dell’impero romano a Bisanzio e la sua
missione verso i popoli slavi dall’altra parte come la vera e propria nascita
del continente Europa, l’inizio
dell’epoca moderna significa per ambedue le Europe
una svolta, un cambiamento radicale, che concerne sia l’essenza di questo
continente, sia i suoi contorni geografici.
Nel 1453 Costantinopoli venne conquistata dai Turchi. O.Hiltbrunner commenta questo evento in maniera laconica: «gli ultimi ... dotti emigrarono... verso
l’Italia e trasmisero agli umanisti del Rinascimento la conoscenza dei testi
originali greci; ma l’Oriente sprofondò nell’assenza di cultura». Questa
affermazione può essere formulata in maniera un po’ troppo rozza, poiché in
effetti anche il regno della dinastia degli Osman
aveva la sua cultura; ma è vero che la cultura greco-cristiana,
europea, di Bisanzio
trovò con ciò la sua fine. Così una delle due ali dell’Europa rischiò in tal
modo di scomparire, ma l’eredità bizantina non era morta: Mosca dichiara se
stessa come la terza Roma, fonda ora un proprio patriarcato sulla base
dell’idea di una seconda translatio imperii e si presenta dunque come una nuova
metamorfosi del Sacrum Imperium -
come una propria forma di Europa, che tuttavia rimase unita con l’Occidente e
si orientò sempre più verso di esso, fino a che Pietro il Grande tentò di farla
diventare un paese occidentale. Questo spostamento verso nord dell’Europa
bizantina portò con sé il fatto che ora anche i confini del continente si
misero in movimento ampiamente verso oriente. La fissazione degli Urali come
frontiera è oltremodo arbitraria, in ogni caso il mondo a oriente di essi
diventò sempre più una specie di sottostruttura dell’Europa, né Asia né Europa,
essenzialmente forgiato dal soggetto Europa, senza partecipare però esso stesso
del suo carattere di soggetto: oggetto, e non portatore esso stesso della sua
storia. Forse con ciò è definita, tutto sommato, l’essenza di uno stato
coloniale.
Possiamo dunque, a riguardo dell’Europa bizantina, non
occidentale, all’inizio dell’epoca moderna, parlare di un duplice evento: da
una parte vi è il dissolvimento dell’antica Bisanzio
con la sua continuità storica nei confronti dell’Impero Romano; dall’altra
parte questa seconda Europa ottiene con Mosca un nuovo centro e amplia i suoi
confini verso oriente, per erigere infine in Siberia una specie di pre-struttura coloniale.
Contemporaneamente possiamo constatare anche in occidente
un duplice processo con notevole significato storico. Una grande parte del
mondo germanico si distacca da Roma; sorge una nuova, illuminata forma di cristianesimo, cosicché attraverso l’occidente scorre d’ora in poi una
linea di separazione, la quale forma chiaramente anche un limes culturale, un confine
tra due diverse modalità di pensare e di rapportarsi. Certo c’è anche
all’interno del mondo protestante una frattura, in primo luogo tra luterani e
riformati, ai quali si associano metodisti e presbiteriani, mentre la chiesa
anglicana tenta di formare una via di mezzo tra cattolici ed evangelici; a ciò
si aggiunge poi anche la differenza tra cristianesimo sotto la forma di una
chiesa di stato, che diventa contrassegno dell’Europa, e chiese libere, che
trovano il loro spazio di rifugio nel Nordamerica,
sulla qual cosa dovremo tornare a parlare.
Facciamo attenzione in primo luogo al secondo evento, che
caratterizza essenzialmente la situazione dell’epoca moderna di quella che un
tempo era l’Europa latina: la scoperta dell’America. All’allargamento verso est
dell’Europa in virtù della progressiva estensione della Russia verso l’Asia
corrisponde la radicale uscita dell’Europa fuori dai suoi confini geografici,
verso il mondo che sta aldilà dell’Oceano, che ora riceve il nome di America;
la suddivisione dell’Europa in una metà latino-cattolica e una metà germanico-protestante si trasferisce e si ripercuote su
questa parte della terra occupata dall’Europa. Anche l’America diventa in un
primo tempo una Europa allargata, una colonia,
ma essa si crea contemporaneamente con il sommovimento dell’Europa ad opera
della Rivoluzione Francese il suo proprio carattere di soggetto: dal XIX secolo
in poi essa, sebbene forgiata nel profondo dalla sua nascita europea, sta
tuttavia di fronte all’Europa come un soggetto proprio.
Nel tentativo di conoscere la più profonda, interiore
identità dell’Europa attraverso lo sguardo sulla storia abbiamo adesso preso in
osservazione due fondamentali svolte storiche: come prima la dissoluzione del
vecchio continente mediterraneo ad opera del continente del Sacrum Imperium, collocato più verso
nord, in cui si forma a partire dall’epoca carolingia
la Europa come mondo
occidentale-latino; accanto a questo la continuazione della vecchia Roma a Bisanzio, con il suo protendersi verso il mondo slavo. Come
secondo passo avevamo osservato la caduta di Bisanzio
e il conseguente spostamento da una parte dell’Europa verso nord e verso est
dell’idea cristiana di impero, e dall’altra parte l’interna divisione
dell’Europa in un mondo germanico-protestante e un
mondo latino-cattolico, e oltre a ciò la fuoriuscita verso l’America, a cui si
trasferisce questa divisione e che alla fine si costituisce come un soggetto
storico proprio, che sta di fronte all’Europa. Ora noi dobbiamo porci davanti
agli occhi una terza svolta, il cui fanale ben visibile fu formato dalla
Rivoluzione Francese. È vero che il Sacrum Imperium come realtà politica già a partire dal
tardo Medioevo era concepito in dissolvimento ed era divenuto sempre più
fragile anche come valida e indiscussa interpretazione della storia, ma
soltanto adesso questa cornice spirituale va in frantumi anche formalmente,
questa cornice spirituale senza cui l’Europa non avrebbe potuto formarsi.
Questo è un processo di portata considerevole, sia dal punto di vista politico,
sia da quello ideale. Dal punto di vista ideale questo significa che la
fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene
rigettata : la storia non si misura più in base ad un’idea di Dio ad essa
precedente e che le dà forma; lo Stato viene oramai considerato in termini
puramente secolari, fondato sulla razionalità e sul volere dei cittadini.
Per la prima volta in assoluto nella storia sorge lo
Stato puramente secolare, che abbandona e mette da parte la garanzia divina e
la normazione divina dell’elemento politico , considerandole come una visione
mitologica del mondo e dichiara Dio stesso come affare privato, che non fa
parte della vita pubblica e della comune formazione del volere. Questa viene
ora vista solamente come un affare della ragione, per la quale Dio non appare
chiaramente conoscibile: religione e fede in Dio appartengono all’ambito del
sentimento, non a quello della ragione. Dio e la sua volontà cessano di essere
rilevanti nella vita pubblica.
In questa maniera sorge, con la fine del XVIII secolo e
l’inizio del XIX, un nuovo tipo di scisma, la cui gravità noi percepiamo ora
sempre più nettamente. Esso non ha in tedesco alcun nome, poiché qui si è
ripercosso più lentamente. Nelle lingue latine viene delineato come divisione
tra cristiani e laici. Questa lacerazione negli
ultimi due secoli è penetrata nelle nazioni latine come una frattura profonda,
mentre il cristianesimo protestante in un primo tempo ebbe vita facile nel
concedere spazio alle idee liberali e illuministe all’interno di sé, senza che
la cornice di un ampio consenso cristiano di fondo dovesse in tal modo venir
distrutta. L’aspetto di politica realistica della dissoluzione dell’antica idea
di impero consiste in questo, che ora definitivamente le nazioni, gli stati che
sono divenute identificabili come tali in virtù della formazione di ambiti
linguistici unitari, appaiono come i veri e unici portatori della storia, e
dunque ottengono un rango che ad essi in precedenza non spettava così tanto. La
drammaticità esplosiva di questo soggetto storico ora plurale si mostra nel
fatto che le grandi nazioni europee si sapevano depositarie di una missione
universale, che necessariamente doveva portare a conflitti fra di loro, il cui
impatto mortale noi abbiamo dolorosamente sperimentato nel secolo ora
trascorso.
3. L’universalizzazione della
cultura europea e la sua crisi
Infine dobbiamo qui considerare ancora un ulteriore
processo, con cui la storia degli ultimi secoli trapassa chiaramente in un
mondo nuovo. Se la vecchia Europa precedente all’epoca moderna nelle sue due
metà aveva conosciuto essenzialmente solo un dirimpettaio, con il quale doveva confrontarsi per la vita e
per la morte, ossia il mondo islamico; se la svolta dell’epoca moderna aveva portato
l’allargamento verso l’America e in parti dell’Asia senza propri grandi
soggetti culturali, così ora ha luogo la fuoriuscita verso i due continenti
sinora toccati solo marginalmente : l’Africa e l’Asia, che adesso
parimenti si tentò di trasformare in succursali dell’Europa, in colonie. Fino ad un certo punto
questo è anche riuscito, in quanto adesso anche Asia e Africa inseguono
l’ideale del mondo forgiato dalla tecnica e del suo benessere, cosicché anche
là le antiche tradizioni religiose entrano in una situazione di crisi e strati
di pensiero puramente secolare dominano sempre più la vita pubblica.
Ma c’è anche un effetto contrario: la rinascita
dell’Islam non è solo collegata con la nuova ricchezza materiale dei paesi
islamici, bensì è anche alimentata dalla consapevolezza che l’Islam è in grado
di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli, una base che
sembra essere sfuggita di mano alla vecchia Europa, la quale così, nonostante
la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come
condannata al declino e al tramonto.
Anche le grandi tradizioni religiose dell’Asia,
soprattutto la sua componente mistica che trova espressione nel buddismo, si
elevano come potenze spirituali di contro ad un’Europa che rinnega le sue
fondamenta religiose e morali. L’ottimismo circa la vittoria dell’elemento
europeo, che Arnold Toynbee
poteva sostenere ancora all’inizio degli anni sessanta, appare oggi stranamente
superato: «di 28 culture che noi
abbiamo identificato ... 18 sono morte e nove delle dieci rimaste - di fatto
tutte tranne la nostra - mostrano che esse sono già colpite a morte».
Chi ripeterebbe oggi ancora le stesse parole? E in generale - cos’è la nostra cultura, che è ancora rimasta?
La cultura europea è forse la civiltà della tecnica e del commercio diffusa
vittoriosamente per il mondo intero? O non è questa forse piuttosto nata in
maniera post-europea dalla fine delle antiche culture europee? Io vedo qui una
sincronia paradossale: con la vittoria del mondo tecnico-secolare post-europeo,
con l’universalizzazione del suo modello di vita e
della sua maniera di pensare, si collega in tutto il mondo, ma specialmente nei
mondi strettamente non- europei dell’Asia e dell’Africa, l’impressione che il
mondo di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa
la sua identità, sia giunto alla fine e sia propriamente già uscito di scena;
che adesso sia giunta l’ora dei sistemi di valori di altri mondi, dell’America
pre-colombiana, dell’Islam, della mistica asiatica.
L’Europa, proprio in questa ora del suo massimo successo,
sembra diventata vuota dall’interno, paralizzata in un certo qual senso da una
crisi del suo sistema circolatorio, una crisi che mette a rischio la sua vita,
affidata per così dire a trapianti, che poi però non possono che eliminare la
sua identità. A questo interiore venir meno delle forze spirituali portanti
corrisponde il fatto che anche etnicamente l’Europa
appare sulla via del congedo.
C’è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che
sono il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente; essi ci
portano via qualcosa della nostra vita, così si pensa. Essi non vengono sentiti
come una speranza, bensì come un limite del presente. Il confronto con l’Impero
Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice
storica, ma in pratica viveva già di quelli che dovevano dissolverlo, poiché
esso stesso non aveva più alcuna energia vitale.
Con questo siamo giunti ai problemi del presente. Circa
il possibile futuro dell’Europa ci sono due diagnosi contrapposte. C’è da una
parte la tesi di Oswald Spengler,
il quale credeva di poter fissare per le grandi espressioni culturali una
specie di legge naturale: c’è il momento della nascita, la crescita graduale,
la fioritura di una cultura, il suo lento appesantirsi, l’invecchiamento e la
morte. Spengler arricchisce la sua tesi in modo
impressionante, con documentazioni tratte dalla storia delle culture, in cui si
può intravedere questa legge del decorso naturale. La sua tesi era che
l’Occidente sarebbe giunto alla sua epoca finale, che corre inesorabilmente
incontro alla morte di questo continente culturale, nonostante tutti i
tentativi di scongiurarla. Naturalmente l’Europa può trasmettere i suoi doni ad
una cultura nuova emergente, come è già accaduto nei precedenti declini di una
cultura, ma in quanto soggetto essa ha ormai il suo tempo di vita alle sue
spalle.
Questa tesi bollata come biologistica
ha trovato appassionati oppositori nel tempo tra le due guerre mondiali
specialmente in ambito cattolico; in maniera impressionante le si è mosso
contro anche Arnold Toynbee,
certo con postulati che oggi trovano poco ascolto. Toynbee
mette in luce la differenza tra progresso materiale-tecnico da una parte, e
dall’altra progresso reale, che egli definisce come spiritualizzazione. Egli
ammette che l’Occidente - il mondo
occidentale - si trova in una crisi, la cui causa egli la vede nel fatto
che dalla religione si è decaduti al culto della tecnica, della nazione, del
militarismo. La crisi significa per lui, ultimamente: secolarismo.
Se si conosce la causa della crisi, si può indicare anche
la via della guarigione: deve essere nuovamente introdotto il fattore
religioso, di cui fa parte secondo lui l’eredità religiosa di tutte le culture,
ma specialmente quello «che è rimasto
del cristianesimo occidentale». Alla visione biologistica
si contrappone qui una visione volontaristica, che punta sulla forza delle
minoranze creative e sulle personalità singole eccezionali.
La domanda che si pone è: è giusta questa diagnosi? E se
sì - è in nostro potere introdurre nuovamente il momento religioso, in una
sintesi di cristianesimo residuale ed eredità religiosa dell’umanità?
Ultimamente la questione tra Spengler e Toynbee rimane aperta, perché noi non possiamo vedere nel
futuro. Ma indipendentemente da ciò si impone il compito di interrogarci su che
cosa può garantire il futuro, e su che cosa è in grado di continuare a far
vivere l’interiore identità dell’Europa attraverso tutte le metamorfosi
storiche. O ancora più semplicemente: che cosa anche oggi e domani promette di
donare la dignità umana e un’esistenza conforme ad essa.
Per trovare una risposta a ciò dobbiamo gettare lo
sguardo ancora una volta dentro il nostro presente e al tempo stesso tener
presenti le sue radici storiche. In precedenza eravamo rimasti fermi, in
effetti, alla Rivoluzione Francese e al XIX secolo. In questo tempo si sono
sviluppati soprattutto due nuovi modelli europei.
Ecco qui allora nelle nazioni latine il modello laicistico:
lo Stato è nettamente distinto dagli organismi religiosi, che sono attribuiti
all’ambito privato. Lo Stato stesso rifiuta un fondamento religioso e si sa
fondato solamente sulla ragione e sulle sue intuizioni. Di fronte alla
fragilità della ragione questi sistemi si sono rivelati fragili e facili a
cadere vittima delle dittature; essi sopravvivono, propriamente, solo perché
parti della vecchia coscienza morale continuano a sussistere anche senza i
precedenti fondamenti e rendono possibile un consenso morale di base.
Dall’altra parte, nel mondo germanico, esistono in maniera differenziata i
modelli di Chiesa di Stato del protestantesimo liberale, nei quali una
religione cristiana illuminata, essenzialmente concepita come morale - anche con
forme di culto garantite dallo Stato - garantisce un consenso morale e un
fondamento religioso ampio, al quale le singole religioni non di Stato devono
adeguarsi. Questo modello in Gran Bretagna, negli stati scandinavi e in un
primo tempo anche nella Germania dominata dai prussiani ha garantito per lungo
tempo una coesione statuale e sociale. In Germania, tuttavia, il crollo del
cristianesimo di Stato prussiano ha creato un vuoto, che poi parimenti si offrì
come spazio vuoto per una dittatura. Oggi le chiese di Stato sono dappertutto
cadute vittima del logoramento: da corpi religiosi che sono derivazioni dello
Stato non proviene più alcuna forza morale, e lo Stato stesso non può creare
forza morale, ma la deve invece presupporre e costruire su di essa.
Tra i due modelli si collocano gli Stati Uniti del
Nord-America, che da una parte - formatisi sulla base delle chiese libere -
prendono le mosse da un rigido dogma di separazione, dall’altra parte, aldilà
delle singole denominazioni, vengono plasmati tuttavia da un consenso di fondo
cristiano-protestante non forgiato in termini confessionali, il quale si
collegava con una particolare coscienza della missione, nei confronti del resto
del mondo, di tipo religioso e così dava al fattore religioso un significativo
peso pubblico, che in quanto forza pre-politica e
sovra-politica poteva essere determinante per la vita politica. Certo non ci si
può nascondere che anche negli Stati Uniti il dissolvimento dell’eredità
cristiana avanza incessantemente, mentre al tempo stesso il rapido aumento
dell’elemento ispanico e la presenza di tradizioni religiose provenienti da
tutto il mondo cambia il quadro. Forse si deve qui osservare anche che gli
Stati Uniti promuovono ampiamente la protestantizzazione
dell’America Latina e quindi il dissolvimento della Chiesa cattolica ad opera
di forme di chiese libere, per la convinzione che la Chiesa cattolica non
potrebbe garantire un sistema politico ed economico stabile, in quanto dunque
fallirebbe come educatrice delle nazioni, mentre ci si aspetta che il modello
delle chiese libere renderà possibile un consenso morale e una formazione
democratica della volontà pubblica, simili a quelli caratteristici degli Stati
Uniti. Per complicare ulteriormente il quadro si deve ammettere che oggi la Chiesa
cattolica forma la più grande comunità religiosa negli Stati Uniti, che essa
nella sua vita di fede sta decisamente dalla parte dell’identità cattolica, che
però i cattolici a riguardo del rapporto tra Chiesa e politica hanno recepito
le tradizioni delle chiese libere, nel senso che proprio una Chiesa non confusa
con lo Stato garantisce meglio le fondamenta morali del tutto, cosicché la
promozione dell’ideale democratico appare come un dovere morale profondamente
conforme alla fede. In una posizione simile si può vedere a buon diritto una
prosecuzione, adeguata ai tempi, del modello di papa Gelasio, di cui ho parlato
sopra.
Torniamo all’Europa. Ai due modelli di cui parlavo prima
se ne è aggiunto ancora nel XIX secolo un terzo, ossia il socialismo, che si
suddivise presto in due diverse vie, quella totalitaria e quella democratica.
Il socialismo democratico è stato in grado, a partire dal suo punto di
partenza, di inserirsi all’interno dei due modelli esistenti, come un salutare
contrappeso nei confronti delle posizioni liberali radicali, le ha arricchite e
corrette. Esso si rivelò qui anche come qualcosa che andava al di là delle
confessioni: in Inghilterra esso era il partito dei cattolici, che non potevano
sentirsi a casa loro né nel campo protestante-conservatore, né in quello
liberale. Anche nella Germania guglielmina il centro
cattolico poteva sentirsi più vicino al socialismo democratico che alle forze
conservatrici rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il socialismo
democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso esso
ha considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale.
Il modello totalitario, invece, si collegava con una
filosofia della storia rigidamente materialistica e ateistica: la storia viene
compresa deterministicamente come un processo di
progresso che passa attraverso la fase religiosa e quella liberale per giungere
alla società assoluta e definitiva, in cui la religione come relitto del
passato viene superata e il funzionamento delle condizioni materiali può
garantire la felicità di tutti. L’apparente scientificità nasconde un
dogmatismo intollerante: lo spirito è prodotto della materia; la morale è
prodotto delle circostanze e deve venir definita e praticata a seconda degli scopi
della società; tutto ciò che serve a favorire l’avvento dello stato finale
felice è morale. Qui il capovolgimento dei valori che avevano costruito
l’Europa è completo. Ancor più, qui si realizza una frattura nei confronti
della complessiva tradizione morale dell’umanità: non ci sono più valori
indipendenti dagli scopi del progresso, tutto può, in un dato momento, essere
permesso e persino necessario, può essere morale nel senso nuovo del termine.
Anche l’uomo può diventare uno strumento; non conta il singolo, ma unicamente
il futuro diventa la terribile divinità che dispone sopra tutti e sopra tutto.
I sistemi comunisti frattanto sono naufragati
innanzitutto per il loro falso dogmatismo economico. Ma si trascura troppo
volentieri il fatto che essi sono naufragati , più a fondo ancora, per il loro
disprezzo dei diritti umani, per la loro subordinazione della morale alle
esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro. La vera e propria
catastrofe che essi hanno lasciato alle loro spalle non è di natura economica;
essa consiste nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza
morale. Io vedo come un problema essenziale della nostra ora per l’Europa e per
il mondo questo, che non viene mai contestato il naufragio economico, e perciò
i vetero-comunisti sono diventati senza esitazione
liberali in economia; invece la problematica morale e religiosa, di cui
propriamente si trattava, viene quasi completamente rimossa. Pertanto la
problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a esistere anche oggi:
il dissolversi delle certezze primordiali dell’uomo su Dio, su se stessi e
sull’universo - la dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili,
è ancora e proprio adesso nuovamente il nostro problema e può condurre
all’autodistruzione della coscienza europea, che dobbiamo cominciare a
considerare - indipendentemente dalla visione del tramonto di Spengler - come un reale pericolo.
Così ci troviamo davanti alla questione: come devono
andare avanti le cose? Nei violenti sconvolgimenti del nostro tempo c’è
un’identità dell’Europa, che abbia un futuro e per la quale possiamo impegnarci
con tutto noi stessi? Non sono preparato per entrare in una discussione
dettagliata sulla futura Costituzione europea. Vorrei soltanto brevemente
indicare gli elementi morali fondanti, che a mio avviso non dovrebbero mancare.
Un primo elemento è l’ “incondizionatezza”
con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori
che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non
vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, «ma piuttosto esistono per diritto proprio,
sono da sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente
dati come valori di ordine superiore» Questa validità della dignità
umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia
ultimamente al Creatore: solamente Egli può stabilire valori che si fondano
sull’essenza dell’uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non sono
manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e
della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e
della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all’uomo.
Ora oggi quasi nessuno negherà direttamente la precedenza
della dignità umana e dei diritti umani fondamentali rispetto ad ogni decisione
politica; sono ancora troppo recenti gli orrori del nazismo e della sua teoria
razzista. Ma nell’ambito concreto del cosiddetto progresso della medicina ci
sono minacce molto reali per questi valori: sia che noi pensiamo alla
clonazione, sia che pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di
ricerca e di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quanto l’ambito
della manipolazione genetica - la lenta consunzione della dignità umana che qui
ci minaccia non può venir misconosciuta da nessuno. A ciò si aggiungono in
maniera crescente i traffici di persone umane, le nuove forme di schiavitù,
l’affare dei traffici di organi umani a scopo di trapianti. Sempre vengono
addotte finalità buone, per
giustificare quello che non è giustificabile. In questi settori ci sono nella
Carta dei diritti fondamentali alcuni punti fermi di cui rallegrarsi, ma in
importanti punti essa rimane troppo vaga, mentre invece proprio qui ne va della
serietà del principio che è in gioco.
Riassumiamo: la fissazione per iscritto del valore e
della dignità dell’uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà con le
affermazioni di fondo della democrazia e dello stato di diritto, implica
un’immagine dell’uomo, un’opzione morale e un’idea di diritto niente affatto
ovvie, ma che sono di fatto fondamentali fattori di identità dell’Europa, che
dovrebbero venir garantiti anche nelle loro conseguenze concrete e che
certamente possono venir difesi solamente se si forma sempre nuovamente una
corrispondente coscienza morale.
Un secondo punto in cui appare l’identità europea è il
matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale
della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella
formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire dalla fede
biblica. Esso ha dato all’Europa, a quella occidentale come a quella orientale,
il suo volto particolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché
la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venir
conquistata, con molte fatiche e sofferenze. L’Europa non sarebbe più Europa,
se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente
cambiata. La Carta dei diritti fondamentali parla di diritto al matrimonio, ma
non esprime nessuna specifica protezione giuridica e morale per esso e nemmeno
lo definisce più precisamente. E tutti sappiamo quanto il matrimonio e la
famiglia siano minacciati - da una parte mediante lo svuotamento della loro
indissolubilità ad opera di forme sempre più facili di divorzio, dall’altra
attraverso un nuovo comportamento che si va diffondendo sempre di più, la
convivenza di uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio. In vistoso
contrasto con tutto ciò vi è la richiesta di comunione di vita di omosessuali,
che ora paradossalmente richiedono una forma giuridica, la quale più o meno
deve venir equiparata al matrimonio. Con questa tendenza si esce fuori dal
complesso della storia morale dell’umanità, che nonostante ogni diversità di
forme giuridiche del matrimonio sapeva tuttavia sempre che questo, secondo la
sua essenza, è la particolare comunione di uomo e donna, che si apre ai figli e
così alla famiglia. Qui non si tratta di discriminazione, bensì della questione
di cos’è la persona umana in quanto uomo e donna e di come l’essere assieme di
uomo e donna può ricevere una forma giuridica. Se da una parte il loro stare
assieme si distacca sempre più da forme giuridiche, se dall’altra l’unione
omosessuale viene vista sempre più come dello stesso rango del matrimonio,
siamo allora davanti ad una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui
conseguenze possono solo essere estremamente gravi.
Il mio ultimo punto è la questione religiosa. Non vorrei
entrare qui nelle discussioni complesse degli ultimi anni, ma mettere in
rilievo solo un aspetto
fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per
l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto,
per Dio, cosa che è lecito supporre di trovare anche in colui che non è
disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene infranto, in una
società qualcosa di essenziale va perduto. Nella nostra società attuale grazie
a Dio viene multato chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le
sue grandi figure. Viene multato anche chiunque vilipendia
il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta di
Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di
opinione appare come il bene supremo, limitare il quale sarebbe un minacciare o
addirittura distruggere la tolleranza e la libertà in generale. La libertà di
opinione trova però il suo limite in questo, che essa non può distruggere
l’onore e la dignità dell’altro; essa non è libertà di mentire o di distruggere
i diritti umani.
C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che
si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in
maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama
più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è
deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è
grande e puro. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova - certamente
critica e umile - accettazione di se stessa, se essa vuole davvero
sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione
incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò
che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può
sussistere senza costanti in comune, senza punti di orientamento a partire dai
valori propri. Essa sicuramente non può sussistere senza rispetto di ciò che è
sacro. Di essa fa parte l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri
dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è
estraneo a noi stessi. Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è
sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro
dovere nutrire in noi stessi il rispetto davanti a ciò che è sacro e mostrare
il volto di Dio che ci è apparso - del Dio che ha compassione dei poveri e dei
deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente
umano che egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che soffrendo
insieme a noi dà al dolore dignità e speranza.
Se non facciamo questo, non solo rinneghiamo l’identità
dell’Europa, bensì veniamo meno anche ad un servizio agli altri che essi hanno
diritto di avere. Per le culture del mondo la profanità assoluta che si è
andata formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono
convinte che un mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la
multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi.
Come andranno le cose in Europa in futuro non lo
sappiamo. La Carta dei diritti fondamentali può essere un primo passo, un segno
che l’Europa cerca nuovamente in maniera cosciente la sua anima. In questo
bisogna dare ragione a Toynbee, che il destino di una
società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani credenti dovrebbero
concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che
l’Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a
servizio dell’intera umanità.