La
formazione del condottiero
I disegni del Signore sopra i
discendenti di Abramo erano grandi e impegnativi, perché destinandoli a
un compito responsabile
di mediazione profetica e sacerdotale, il costituiva testimoni delta verità divina dinanzi al
mondo (Isaia 43.1O-13~ 444,8 ) e ministri ufficiali del culto a Dio da parte
della famiglia umana (Esodo 19,5-6; Isaia 61,6).
Per
questo era necessario assicurare a loro una conoscenza approfondita del Signore
e della sua legge, che li guidasse a vivere la propria fede con sincera
convinzione praticando un culto puro ed esemplare.
Ma
perché tale formazione risultasse più agevolata e libera da ostacoli, bisognava
che l’ambiente umano fosse organizzato pure come una unità sociale compatta e
funzionante, dotata della sufficiente autonomia e provvista di leggi e di un
ordine giuridico fondamentale.
Pertanto
si aveva bisogno innanzitutto dell’autorità di un capo. Il quale non solo
fosse ricco del dono soprannaturale della profezia, che lo mettesse in
comunicazione intima con il Signore, tanto da risultare in tali momenti la sua
voce diretta e l’organo vivo della sua rivelazione, ma inoltre, come propria
disposizione acquisita e stabile, fosse esperto nel riflettere sulla parola
divina, maturo nell’interpretarla e docile nell’applicarla; di più la stessa
persona doveva possedere una somma di doti pratiche organizzative e di governo
per dirigere la vita esteriore della comunità nei suoi vari settori,
dall’esercizio del culto fino alle altre occorrenze che comportano speciali
responsabilità.
Alla
scelta e preparazione di questo capo o condottiero, frutto specifico di un’opera
divina, è dedicato il capitolo 2 dell’Esodo.
Se,
il testo biblico può presentare qualche aspetto sorprendente, si tenga conto
che la sua stesura scritta fece seguito a una lunga trasmissione orale.
Studiosi
autorevoli ritengono che la maggior parte di Esodo 2 facesse parte dell’antica tradizione detta Jahvista.
fissata per iscritto forse all’epoca di Salomone (secolo X A.C.).
E sempre vero che in un brano letterario bisogna
distinguere la sostanza propria del racconto, cioè il contenuto di fatti o di
idee che realmente si vuole comunicare, dall'insieme delle immagini espressive
e delle maniere di pensare e di dire che appartengono alla forma della
comunicazione, alla veste più o meno colorita del discorso, e non fanno parte
del messaggio affermato ma dei mezzi usati per enunziarlo.
Le
narrazioni di antica provenienza orale possono conservare in qualche misura la
veste caratteristica lasciata a loro dalla mentalità e dalla cuttura semplice
del popolo che le ha espresse e che più tardi. forse, avrebbe parlato in forma
diversa.
E' facile cogliere che il messaggio centrale della pagina
in esame consta soprattutto di questi punti:
a) La potenza egiziana è così
oppressiva, che non permette agli Ebrei di liberarsi con i mezzi umani. Anche
Mosè non sarebbe sfuggito al decreto genocida, ma prima di salvare il suo popolo
ebbe bisogno di essere salvato lui stesso, mediante una serie imprevedibile di
eventi guidati da un disegno divino, che nessun uomo da solo avrebbe potuto
architettare.
La
grande opera dell’Esodo non sarà quindi effetto del genio di Mosè, ma la
manifestazione pubblica dell’unico Dio personale e trascendente, Creatore e
Signore dell’universo, che domina le potenze del mondo per salvare quanti si
affidano alla sua parola.
b) Dio stesso ha fornito Mosè di
tante capacità ed esperienze necessarie alla sua missione, che nessun Ebreo
possedeva riunite. Il racconto evidenzia due lunghe fasi della sua formazione,
svoltesi l’una dopo l’altra in due ambienti di caratteri opposti: dapprima la
corte regia, dove Mosè poté crescere protetto dalla figlia del faraone (Esodo 2.10: 11,3: vedi Lettera agli Ebrei 11,24) partecipando,
come è ovvio, alla formazione professionale che si dava ai futuri uomini di
legge e di governo (*); poi nella terra di Madian e del Sinai, come pastore di
un agiato possidente locale, sia sperimentando quel deserto dove più tardi gli
sarebbe toccato di güidare le tribù ormai libere, sia vivendo in tale
occupazione quei lunghi tempi di silenzio e meditazione che l’avrebbero introdotto
al mistero di Dio.
Il
racconto e altre tradizioni giudaiche registrate più avanti (Esodo 7,7; Atti degli Apostoli 7,22-23; e 7,30) precisano un tirocinio
continuato per una intera vita di 80 anni composta da due quarantenni: questi
chiaramente non sono che numeri simbolici, usati di solito nella Bibbia per
indicare i periodi pieni; nell’insieme alludono a una formazione doppia
rispetto al consueto, per indicarla come molteplice e completa in ogni senso e
così affermare quanto fosse accurato e approfondito il disegno di Dio e degno
di fiducia il suo strumento umano (vedi Numeri
12,1-8; Deuteronomio 34,10-12).
c) Collocato in posizione di
rilievo entro la cornice narrativa offerta dai due periodi formativi (Esodo 2,11-15). L’episodio di Mosè che tenta con proprio
danno un gesto di liberazione dei suoi fratelli uccidendo l'egiziano
persecutore, prelude a un criterio-guida significativo che più tardi, nella
Legge sinaitica, risuonerà con insistenza come fondamento dei doveri verso il
prossimo: cercare una liberazione o altri vantaggi. o pretendere un nostro
diritto. compiendo atti oppressivi per nostra iniziativa, non è una condotta
conforme a Dio, perché egli sarà sempre il liberatore degli oppressi e quando
ci comportassimo in quel modo si rivolgerebbe contro di noi (Esodo 22,20-26: Deuteronomio 24,6 e 10-13: Levitico
5,35-38: ecc.).
Gli
altri particolari di Esodo 2 appartengono
alla veste della narrazione. Gli episodi singoli non vanno letti come cronache
precise di quanto accaduto, ma piuttosto come bozzetti creati dai narratori
popolari. che sulla base delle notizie schematiche riferite dalla fede
tradizionale, costruiscono un discorso personalizzato, presentando i fatti così
come loro stessi immaginano che si possano essere svolti e senza volerne
alterare la sostanza.
Noi
stessi possiamo verificare anche oggi quest’arte narrativa caratteristica e
vivace, di cui il popolo sa dare saggio quando racconta episodi a cui non è
stato preSente.
Alcuni
tratti possono essere semplificazioni del racconto introdotte, per esempio, da
chi non conosce l’etichetta di corte. oppure ipotesi esplicative supposte
come ovvie per completare il quadro di un fatto che si vuole presentare più
chiaramente.
Un
altro accorgimento letterario, usato più volte, sempre in funzione di
immagine, è quello di presentare il carattere di un personaggio introducendo nel
racconto della sua nascita o infanzia qualche presagio dei suo avvenire. Così
secondo Genesi 25,22-26 Giacobbe
avrebbe dato lo sgambetto al gemello Esaù fin dal grembo materno: una
tradizione narrativa che non supera i limiti della parabola, per dire che la
sua indole personale è stata costante.
Il
bimbo Mosè salvato dalle acque in un cesto di papiro impermeabilizzato trova un
precedente illustre nella leggenda del grande Sargon che verso il 2350 a.C.,
sorto da origini poco note, diede inizio al forte regno mesopotamico di Akkad.
La sua dinastia per
circa due secoli dominò suite potenze circostanti con ampie conquiste di
popoli, territori, vie commerciali e anche notevoli influssi culturali.
Un
testo già noto e diffuso in terre egiziane prima di Mosè così esaltava
l’apparire sorprendente di quel re innovatore:
"Mia
madre.... mi concepì,
mi generò
in segreto,
mi pose
in un cesto di giunchi.
sigillò
il mio coperchio con bitume,
mi gettò
nel fiume che non mi sommerse.
Il fiume
mi sostenne
e mi
portò ad Akki, l‘attingitore d’acqua;
Akki mi
sollevò fuori
quando
immerse la sua brocca,
mi prese
come suo figlio e mi allevò,
mi
costituì suo giardiniere.
Quando
ero giardiniere,
(la dea)
Ishtar mi concesse il suo amore
e per .... anni ho esercitato il regno…" (**).
Immaginando
quell’affidamento del neonato alla corrente del fiume (l’Eufrate), si voleva
forse attribuire alla madre, che il testo, pare, indicava come "sacerdotessa",
una sorta di invocazione e perciò di augurio, espressa dal gesto sacro di
consegnarlo alle divinità perché queste lo destinassero a un compito elevato.
Niente
impedisce che i narratori biblici, a loro volta, vedessero nell’antico testo
una immagine molto idonea a rappresentare la vocazione soprannaturale di Mosè
e lo utilizzassero come modello, con l’effetto di innalzare il profeta nella
mente popolare al livello del grande re.
Che
il racconto biblico sia studiato con intenti simbolici, può risultare anche dal
fatto che il cesto di papiro è designato con lo stesso termine ebraico "tebàh" usato
dal Genesi per indicare l’arca di
Noè e non applicato ad altri significati, quasi per evidenziare che i due fatti
si trovano in continuazione l’uno con l’altro. come segno di una medesima
attività di Dio che tende a salvare gli uomini dal peccato mediante il
passaggio ultraverso un ordine concatenato di eventi in corso di preparazione.
(*) In vari tempi della sua storia l‘Egitto,
per dominare meglio sulle popolazioni sottomesse, doveva
formarsi dei funzionari provenienti da quelle stesse culture, in grado di mantenere
collegamenti più efficaci.
(**) Leggenda di Sargon, 5-13. Testo tradotto dalla raccolta ANET di J.B.PRITCHARD, 3a ed. 1969. pag. 119. Cfr H. CAZELLES, 1. cit.: 6. RICCIOTTI, Storia d’Israele, I, Torino 1947, n. 203.