Virtù
Dal latino virtus; con questo termine genera!mente si intende un’abitudine,
cioè una disposizione ferma e costante, ad agire bene: è una inclinazione al
bene che si è consolidata tanto che il virtuoso è portato ad agire bene (per
es., a essere coraggioso, generoso. Casto. umile, studioso ecc.) con
spontaneità. anzi con vivo trasporto. La virtù è oggetto primario dell’etica.
in quanto questa studia il fine dell’uomo e i mezzi per conseguirlo, e la
virtù è certamente uno dei mezzi principali. Così il concetto di virtù risulta
indispensabile per strutturare una dottrina morale. In ogni caso, nel pensiero
occidentale, per quanto attiene l’uomo morale, la dottrina della virtù è sempre
stata una delle forme principali in cui si è cercato di formulare
sistematicamente ciò che l’uomo "deve fare" in vista di una completa
realizzazione di se stesso.
La dottrina di quattro virtù cardinali
che presiedono a tutto l’agire morale è già presente in Pitagora. Al tempo di
Platone esse sono diventate un’idea così comune da offrire lo schema generale
di un discorso sulla struttura della Polis
e formazione delta persona (cfr. Repubblica).
Ma l’approfondimento del concetto di virtù, per la quale viene proposta la
classica definizione di "abitudine a scegliere il giusto mezzo". e
l’esame sistematico delle virtù principali, è opera di Aristotele, il quale
ha dedicato a questo studio quel capolavoro che è l’Etica a Nicomaco. Aristotele divide le virtù in due gruppi principali:
dianoetiche (dell’intelletto) ed etiche (della volontà o libera scelta). Le
prime concorrono allo sviluppo delle facoltà intellettive; mentre le seconde
presiedono al controllo delle passioni e alla scelta dei mezzi al
raggiungimento del fine ultimo. Principali tra tutte le virtù morali sono anche
per Aristotele le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza,
temperanza.
Con l’avvento del cristianesimo il campo
delle virtù si allarga considerevolmente: alle virtù morali che corrispondono
direttamente alle esigenze della natura umana, ora si affiancano le virtù
teologali: fede, speranza, carità, le quali sono espressioni della grazia, dono
dello Spirito Santo. Perciò non sono virtù naturali ma soprannaturali. Tra le
virtù teologali il primato spetta alla carità: "Soltanto queste tre cose
perdurano, fede, speranza e carità, ma la più grande di tutte è la carità"
(1 Cor 13, 13).
Le virtù teologali né soppiantano né sopprimono le virtù morali, ma piuttosto
le rafforzano, le consolidano e le rettificano indirizzandole verso quel fine
ultimo soprannaturale, la visione beatifica, a cui l’uomo è chiamato
dall’amore misericordioso di Dio.
Alla
virtù in genere S. Tommaso ha dedicato due ampie trattazioni: le questioni
55-67 della Prima Secundae e la
questione disputata De virtutibus in
communi. "Tutto lascia supporre che la questione disputata in questo
caso sia servita di abbozzo per l'opera principale. Anche per completezza la Somma supera l'opuscolo che riferisce le
lezioni magistrali dell’Autore sull’argomento" (T. Centi).
1. DEFINIZIONE DI VIRTU'
La
virtù è concepita da S. Tommaso come un’abitudine buona: un habitus operativo
di fare il bene: “La virtù umana, che è un abito operativo, dev’essere un
abito buono e fatto per compiere il bene" (virtus humana, quae est habitus operativus, est bonus habitus et boni
operativus) (I-II. q. 155, a 3). La virtù non è né la natura che è la
sorgente remota dell’agire e neppure una facoltà o potenza naturale, perché
allora tutti gli uomini dovrebbero possederla. E' un potere, un abito operativo
acquisito e viene acquisito con la disciplina e l’educazione. Non si può
parlare di virtù finché si compiono atti buoni solo sporadicarnente: La virtù
esige l’abitudine, una certa stabilità. tanto che si può dire che è una seconda
natura. Essendo frutto di disciplina ed educazione la Virtù appartiene
all’uomo soltanto e riguarda immediatamente l’anima e non il corpo. "La
virtù stessa è nell’anima una disposizione ordinata (dispositio ordinata in anima): cioè fa si che le potenze dell’anima
siano in qualche modo ordinate tra loro e rispetto agli oggetti esterni. Ecco
perché la virtù come conveniente disposizione dell’anima, viene paragonata
alla salute e alla bellezza, che sono le dovute disposizioni del corpo"
(I-II, q. 55, a. 2. ad 1).
Sottoponendo
ad accurato esame la classica definizione di virtù che era stata data da S.
Agostino: "La virtù è una qualità buona della mente umana per cui
rettamente si vive e di cui nessuno usa male". S. Tommaso la trova perfettamente
adeguata: "Questa definizione abbraccia perfettamente tutto ciò che è essenziale
alla virtù. Infatti la perfetta nozione di una cosa si ottiene enumerando tutte
le cause. Ora, Ia suddetta definizione abbraccia tutte le cause della virtù. F
poiché Ia causa formale della virtù, come di qualsiasi altra cosa, si desume
dal suo genere e dalla sua differenza specifica. nell'espressione “qualità
buona”, troviamo il genere della virtù nella qualità e la differenza nella bontà.
Tuttavia la definizione sarebbe più appropriata se al posto di qualità si mettesse abito, che è il genere prossimo" (I-II, q. 55. a. 4).
2. DIVISIONE DELLE VIRTU'
L’Aquinate,
richiamandosi ad Aristotele, divide le virtù in dianoetiche o speculative ed
etiche o pratiche. La divisione si fonda sul fatto che nell’uomo ci sono due
principi supremi di azione, la mente o ragione, e la volontà o appetito
razionale. "Perciò ogni umana virtù deve essere un perfezionamento di
qualcuno di codesti due principi. E quindi se potenzia l'intelletto, sia
speculativo che pratico. nel bene operare, sarà una virtù intellettuale: se
invece rafforza la parte appetitivi. sarà una virtù morale. perciò rimane
stabilito che ogni umana virtù è o intellettuale o morale" (I-II, q. 58, a. 3).
S.
Tommaso spiega poi distintamente ciò che qualifica le virtù intellettuali e le
virtù morali. Gli abiti intellettuali
si possono dire virtù non in quanto facciano essi stessi operare il bene,
perché ciò è proprio della volontà. ma in quanto procurano la capacità di
operare il bene (I-II, q. 57, a. I). Le virtù dell'intelletto speculativo sono
tre: intelletto che consiste
nell'intuizione dei principi primi; scienza
che è la cognizione ragionata e piena dei diversi generi di cose; sapienza che è la conoscenza profonda
che arriva agli ultimi perché delle cose (I-II. q. 57, a. 2). S. Tommaso, alla
stregua di Aristotele, fa rientrare tra gli abiti speculativi e quindi tra le
virtù dell’intelletto anche l’arte:
"L’arte coincide in qualche cosa con gli abiti speculativi: poiché anche
gli abiti speculativi hanno di mira la condizione effettiva delle cose
conosciute e non il comportamento della volontà umana nei loro confronti (qualiter se habeat res quam considerant, non autem qualiter
se habeat appetitus
humanus ad illas). Infatti, purché il geometra
faccia una dimostrazione vera, non importa affatto il suo stato d’animo e cioè
se e contento o adirato: e così non interessano per un artista o un artigiano i
suoi sentimenti ma il suo prodotto" (I-II, q. 57, a. 3). Regina delle
virtù dell'intelletto pratico è la prudenza,
che è la "reca ratio agibilium".
essa si occupa non tanto della conformità dell’intelletto con le cose
conosciute (ossia della verità), quanto della conformità col retto volere (per conformitatem ad appetitum). Per
questo motivo formalmente la prudenza è una virtù morale, anche se materialmente
è una virtù intellettuale, in quanto riguarda il bene operare dell’intelletto
(I-II, q. 57. a. 5 e ad 3).
Ciò che è peculiare delle virtù morali è il dominio della volontà
sulle passioni. un dominio che non viene esercitato direttamente dalla ragione
ma soltanto mediante t’impero della volontà. "Infatti la parte appetitiva
non obbedisce pienamente alla ragione, ma con una certa opposizione (...).
Quindi affinché uno
possa agir bene non si richiede soltanto che la ragione sia predisposta dagli
abiti delle virtù intellettuali; ma che anche le potenze appetitive siano ben
disposte mediante gli abiti delle virtù morali. Perciò come l’appetito è
distinto dalla ragione, cosI le virtù morali sono distinte da quelle
intellettuali. Così allo stesso modo che l’appetito è principio degli atti
umani in quanto partecipa della ragione, così gli abiti morali sono virtù
umane in quanto conformi alla ragione" (I-II, q. 58, a. 2). Materia delle
virtù morali sono gli appetiti sensitivi, del concupiscibile e
dell’irascibile: sono questi appetiti che vanno piegati alle esigenze della
razionalità, cosicché la condotta dell’uomo sia veramente umana e non
animalesca; mentre l’elemento formale delle virtù morali è la sottomissione degli appetiti
alla ragione mediante l’impero della volontà. Come s’è detto, regina delle
virtù morali è la prudenza. Infatti nessuna virtù morale può esistere senza di
essa: "Non possono esistere senza la prudenza, perché le virtù morali sono
abiti elettivi. cioè fatti per compiere una buona scelta. Ma perché una scelta
sia buona si richiedono due cose. Primo, la retta intenzione del fine: e questo
si ottiene mediante te virtù morali, che inclinano le potenze appetitive al bene
consentendo alla ragione, cioè al debito fine. Secondo, la debita accettazione
dei mezzi per conseguirlo: e questo non può ottenersi che dalla ragione, in
quanto essa rettamente consiglia, giudica e comanda; il che è proprio della
prudenza e delle virtù annesse. Dunque non possono esserci virtù morali senza
la prudenza" (I-II, q. 58, a. 4).
Le
altre virtù primarie nel campo etico sono la giustizia, la fortezza e la
temperanza: insieme con la prudenza esse formano le quattro virtù cardinali: e
così, mentre la prudenza regola gli atti della ragione, la fortezza regola
gli atti dell’appetito irascibile, Ia temperanza gli atti dell’appetito
concupiscibile e la giustizia regola gli atti della volontà in generale (I-II,
q. 61, aa. 1-2). Virtù cardinali oltre e più di queste quattro non ce ne sono,
perché in queste quattro ci sono tutte le principali ragioni formali di virtù
(I-II, q. 61. a. 3).
3. LE VIRTU' SOPRANNATURALI E
TEOLOGALI
Il cristiano oltre che di virtù naturali acquisite
è provvisto anche di virtù soprannaturali infuse. Esse perfezionano l’operare
dell’anima a livello soprannaturale allo stesso modo in cui le virtù morali
perfezionano il suo operare a livello naturale. Ecco come l’Angelico
giustifica la elargizione delle virtù soprannaturali all’anima: "Non è
conveniente che Dio provveda a coloro che ama in vista di un bene
soprannaturale, meno che a quanti egli ama in vista di un bene naturale. Ora,
alle creature di ordine naturale egli non provvede soltanto in modo da
muoverle ai loro atti naturali, ma concedendo loro determinate forme e virtù,
che sono principi dell’operazione, in modo che da se stesse siano inclinate a
codesti moti; ed è così che le mozioni ricevute da Dio diventano connaturali,
secondo il detto della Sapienza 8,
1: “Tutto dispone con soavità”. Perciò a maggior ragione Dio infonde delle
forme o qualità soprannaturali in coloro che egli muove al raggiungimento del
bene eterno e soprannaturale; qualità mediante le quali vengono da lui mossi
con soavità, e prontezza al conseguimento dei beni eterni" (I-II, q. 110, a. 2).
Avendo per oggetto Dio in quanto eccede
la cognizione della nostra ragione, le virtù soprannaturali si distinguono
dalle virtù naturali (intellettuali e morali) il cui principio è la ragione.
Tra le virtù soprannaturali sono particolarmente importanti le virtù teologali che hanno per oggetto direttamente
Dio come fine ultimo soprannaturale e la partecipazione alla sua vita divina.
Le virtù teologali sono tre: per l'intelletto la fede; per la volontà sia la speranza, che
tende a Dio, sia la carità, che
unisce a Dio (I-II, q. 62, a. 3). Quanto alla gerarchia delle tre virtù teologali S. Tommaso
distingue tra priorità genetica e priorità
assiologia: nell’ordine genetico viene prima la fede, perché senza conoscere Dio non si può né
amarlo né sperare in lui; invece nell’ordine assiologico viene prima la carità,
perché questa perfeziona sia Ia fede sia la speranza (I-II, q. 62. a. 4).
Qualcuno
ha accusato S. Tommaso di avere un concetto eccessivamente naturalistico della
virtù. Egli avrebbe avuto il torto, nel costruire la sua etica, di prendere "come
base la natura umana connessa era apparsa in un mondo in cui mancava ancora l’idea
della grazia" (A. Carlini). Ma questo significa non saper distinguere tra
lo studio speculativo di ciò che è la virtù in se
stessa, nella sua natura essenziale (uno studio in cui indubbiamente S. Tommaso è molto debitore ad Aristotele), e quanto l’Angelico insegna riguardo alla
condizione storica in cui l’uomo si trova nell’esercizio della virtù. Riguardo a questo
secondo aspetto l’Aquinate non si fa nessuna illusione circa le capacità etiche
effettive dell’uomo. Anche se non arriva a dire con S. Agostino che "le
virtù dei pagani sono dei vizi mascherati", egli ritiene che l’uomo
decaduto, soggetto al peccato, senza il soccorso della grazia e delle virtù
soprannaturali, che sono un dono dello Spirito Santo, è sì in grado di compiere
qualche azione buona isolata ma è incapace di assestarsi stabilmente
nell’ordine morale: egli rimane sempre fallibile e non cessa di venir meno sia
rispetto alla verità, per cui ha bisogno della divina rivelazione, sia rispetto
al bene, per cui ha bisogno della divina redenzione. Solo grazie all’opera
salvifica di Cristo, via verità e vita, l’uomo diviene realmente virtuoso.
L’infusione delle virtù nelle nostre anime, per cui sono abilitate a compiere
il bene, è dovuta al Cristo: infatti "dalla sua grazia discendono le
virtù, i doni e tutte le altre cose" (III, q. 7, A. 9).
Gli
studiosi del trattato tomistico sulla virtù hanno riconosciuto la notevole,
potente originalità del suo pensiero. Purtroppo "dobbiamo riconoscere, scrive T. Centi, che i moralisti posteriori non
hanno saputo aggiungere niente alla sua dottrina sugli abiti e sulle virtù in
genere. Anzi. codesta dottrina è stata piuttosto depauperata. per l’eccessiva
preoccupazione di ammannire il materiale per la pratica sacramentaria;
scivolando così verso la casistica. Occorre ricondurre la trattazione delle
virtù morali, intellettuali e teologali al suo senso profondo e originale: di
educazione e formazione dell’uomo alla piena realizzazione di se stesso,
secondo la sua istanza connaturale di diventare simile a Dio e secondo quel
disegno di divinizzazione dell’uomo che ha trovato la sua piena e
paradigmatica attuazione in Gesù Cristo.
(Vedi: ABIT0, PRUDENZA, GIUSTIZIA, FORTEZZA, TEMPERANZA, SAPIENZA, ARTE,
FEDE, SPERANZA, CARITA', UMILTA', MORALE)
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Battista Mondin.
Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso D'Aquino,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna.