La solitudine è la condizione esistenziale della persona, la connota
alla sua origine. E’ data dal fatto che la persona è accesa
all’esistenza nell’atto di essere donata a sé
stessa. Io sono costituito soggetto dall’atto di essere
oggetto e destinatario del dono. Acceso in questo modo all’esistenza sono
un vuoto, una potenzialità a cui non vedo i confini, non so chi sono,
non so che cosa sono, non so chi mi ha donato a me
stesso. In principio nemmeno me lo domando, si
occupano di me i miei genitori e io sono una spugna che assorbe tutto quello
che le viene dato. La base della mia persona è in mano ad altri.
Verso i sette anni comincio ad accorgermi che in me
c’è qualche cosa di cui mia madre non può più
rispondere. Questo comincia a pesare sulla mia coscienza. Sono diverso da tutti
gli altri e dovrò tentare una risposta personale, quindi libera e
responsabile oppure basterà che io faccia come vedo fare
agli altri? L’istinto di imitazione è
forte e i modelli incombenti, ma fare come gli altri non sazia il desiderio di
trovare il senso della mia vita e sono scontento di me stesso. Se mi penso
diverso da tutti temo di essere presuntuoso e alla
fine ridicolo. In questo dramma tocco con mano la mia solitudine esistenziale e
avverto l’urgenza di dare delle risposte a problemi di
vitale importanza: devo qualche cosa a qualcuno? Devo decidere da me che cosa
fare e che cosa evitare? Come distinguere quello che è bene da quello
che è male?
All’apice del mio essere, là dove posso
conoscere la mia unicità e la mia solitudine, sono
in carne viva, a nervi scoperti, la sensibilità è al massimo
livello, posso avvertire minime variazioni di temperatura, il tocco di una
piuma, il tono diverso di una parola. Per questo custodisco quel punto focale
della mia persona con gelosissima grinta. Posso farne un idolo coltivando
l’intimismo
oppure evitare di entrarci e di risolvere i problemi rendendo
callosa la mia pelle così da diventare insensibile, posso anestetizzare
la consapevolezza di me stesso riempiendo gli occhi e le orecchie di
vanità e di rumore e posso perfino ricorrere all’alcool o alla
droga per garantirmi l’effetto anestetizzante. Posso cercare il branco a
cui delegare la responsabilità e saziare i sensi senza pagare il conto.
Sembra che la cosa capace di convincere una persona ad
aprire la porta di quello scrigno sia soltanto la bellezza che affascina
promettendo felicità. La bellezza, si può pensare alla bellezza di una donna, è grazia, vale a dire cosa
gratuita, non venale, appare come delicata e fine, capace di posarti una mano
sul cuore senza fargli male. La bellezza dunque guida l’uomo ed egli
volentieri si lascia guidare. Comincerà ad accorgersi che
l’armonia delle membra è accesa dagli occhi, nei quali affiorano barbagli
di luce che scaturiscono da una sorgente. Egli andrà alla ricerca di
quella sorgente amando la fatica richiesta e potrà rendersi conto che il
tutto nasce da un soggetto che percepisce se stesso come dono e vive in una
solitudine uguale alla sua.
L’attenzione che saprà rivolgere a quel
soggetto, regolando i suoi movimenti come vorrebbe che l'altra persona si
regolasse con lui, gli permetterà di scoprire qualche cosa di
assolutamente originale, unico, capace di fargli assaporare attimi di
felicità per i quali non sono ancora state
inventate le parole. Conviene ricordare che non è mai possibile
ubriacarsi abbastanza e che vale la pena pulirsi da tutte le incrostazioni di
presunzione, di affermazione ambiziosa di sé,
perché soltanto per quegli attimi di felicità vale la pena di impegnare
tutto.