La mamma è l’archetipo della conoscenza
per ogni persona che nasce da grembo di donna. Archetipo significa la prima
impressione segnata sulla cera molle del nascituro, destinata a diventare nel
bambino l’unità di misura per ogni altra conoscenza. Non servono
altre parole per qualificare l’importanza del contatto che si stabilisce
tra madre e figlio a partire dal tempo della gestazione. Parliamo della
conoscenza che nasce dal vissuto non di quella di tipo astratto che si impara a
scuola e non è sempre capace di segnare la vita del bambino nella
gestione di se stesso a confronto con le esigenze più elementari del
vivere quali il valore delle persone, delle cose e degli accadimenti, quanto convenga
spendere di fatica e di pazienza di fronte alla realtà, il valore della
libertà, del rischio e della responsabilità.
Si dice che la mamma dà alla luce il figlio.
L’espressione è pregnante, non significa il semplice trasferimento
della creatura da un ambiente semibuio ad un altro meglio illuminato, ma la sua
destinazione alla luce della conoscenza capace di dare la felicità. La
creatura che nasce, sebbene non ancora consapevole, porta in sé la
necessità della luce impressa nella sua struttura genetica. Per questo nelle
imprese che segnano la vita dei primi anni il bambino cerca
l’approvazione della mamma, anche le ribellioni adolescenziali
manifestano il bisogno di quella approvazione.
Il ruolo del papà accanto alla mamma è
quello di professare grande rispetto e finezza verso di lei. “Prometto di
esserti fedele sempre…e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia
vita”. E’ quanto le aveva detto davanti all’altare. Questa
finezza di attenzione del marito è orientata verso due obiettivi, il
primo è di dare serenità alla moglie, la quale tende a
protendersi in maniera ansiosa sulla creatura che ha partorito, il secondo,
subordinato al primo, è di tenere bene per il figlio quella prima
impronta che ha ricevuto dal lungo contatto con mamma e gli serve per tracciare
le coordinate necessarie per ogni ulteriore conoscenza. Il ruolo del
papà è dunque di crescere in quella finezza verso la moglie, che
non può essere improvvisata, gli chiede di non portare a casa le
preoccupazioni derivanti dal suo lavoro né di cercare in esse un alibi
per lasciare la famiglia sulle spalle della moglie.
Il bambino è egocentrico per nascita, si
ritiene unico e diverso da tutti. Questa convinzione, che nel piccolo è
presuntuosa e fragile, non va scoraggiata, ma orientata alla crescita. Ogni
persona che viene alla luce pur essendo solo una variazione dell’unico
tema dato nella creazione è davvero unica, perché è donata
a se stessa, si appartiene e avverte il compito di portare a maturazione la
cosa. Il compito di educare consiste dunque nel far maturare la consapevolezza
della unicità. Questa consapevolezza viene messa in crisi nel bambino
quando, al confronto con gli altri, si accorge di non essere sempre vincente
nella competizione. Di solito il primogenito è il più esposto a
scoraggiarsi e a smarrire la fiducia nelle sue possibilità.
Il ruolo del bambino che cresce gli impegna a fondo le
forze in analogia all’apprendimento del camminare e del parlare. Tocca a
lui trovare la concentrazione per capire che ha da coltivare in sé la consapevolezza
della sua unicità partendo da non meno chiara consapevolezza di essere
pari agli altri né migliore né peggiore e che tutto quello di cui
dispone, a partire dalla sua stessa esistenza, gli è donato
gratuitamente. La svolta decisiva e vincente si realizza quando si accorge che
gli altri non sono concorrenti o avversari, ma persone che realizzano in
sé quanto manca a lui. Conoscere le persone imparando a distinguerle per
la loro unicità vuol dire maturare nella conoscenza di sé e nella
comprensione della propria unicità.
Coloro che vegliano sulla crescita del figlio possono
solo dargli indicazioni dall’esterno suggerendogli dove orientare
l’attenzione, incoraggiandolo quando è in difficoltà,
lodandolo quando mette a segno un successo, ma non possono sostituirsi a lui
né costringerlo contro la sua volontà.