Ad Alessandro Manzoni *
L’UNICA ARISTOCRAZIA
Caro don
Lisander,
quando moriste, un
secolo fa, i vostri amici, accorsi nell’umile stanza del trapasso, dissero in
coro: "Oggi è asceso in cielo un nuovo santo".
Più tardi, per la
causa della vostra santità ufficialmente proclamata dalla Chiesa, scrisse e si
batté il candido e generoso Antonio Cojazzi. Costoro esagerarono un po’.
A rovescio
esagerarono di recente Maria Luisa Astaldi e altri, che, in pagine romanzate e
dissacranti, con grande leggerezza, vi presentarono come un contagiato da male
ereditario, un nevrotico inguaribile e in preda a tormentosi, allucinanti
dubbi sulla fede.
La verità è
un’altra. Pur condizionato da qualche complesso, dal temperamento e da dolorose
vicende familiari, foste un sincero, convinto e grande cattolico. Anche
vecchio, vi accostavate ogni giorno all’altare per ricevere l’Eucaristia.
Quale fosse la
vostra vita, lo lasciano intravedere i pensieri tutti evangelici di cui sono
pieni i vostri scritti. Questi, per esempio: "La vita non è già destinata
a essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del
quale ognuno renderà conto"; "la disgrazia non è il patire, e
l’essere poveri; la disgrazia è il far del male"; "il solo pensiero
di provocar dispute, mi contrista"; "Dio non turba mai la gioia dei
suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande".
Dovunque la vostra
penna toccava, sprizzavano scintille di fede religiosa, il che non poteva succedere,
se la mente e il cuore, che dirigevano la vostra mano nello scrivere, di
religione non fossero stati pieni. "I Promessi Sposi" testimoniano in
questo senso dal principio alla fine; è infatti sintomatico che di essi, di
un romanzo, di una storia d’amore, Ludovico da Casoria, frate santo, abbia
potuto dire: "E’ un libro, che potrebbe essere letto in un coro di vergini
presieduto dalla Madonna".
***
"Storia di
povera gente" il vostro romanzo. Povero l’ambiente principale: montagna,
campagna, lago. Poveri i protagonisti: Renzo e Lucia, due bravi e buoni
giovani, che chiedono solo di volersi bene. Renzo ha preparato un nido per
colei che ama e che, a sua volta, a quel nido, passando, sogguarda spesso,
alla sfuggita e non senza rossore, pregustandovi un lieto e perpetuo soggiorno
di sposa. Sul nido, ecco, invece, la tempesta, che separa e disperde i due
fidanzati. "Ma il Signore sa che ci sono!" dice Lucia nel momento più
difficile. "Quel che Dio vuole!" dice Renzo, pur senza rinunciare ad
un’onesta e ardita rivalsa.
Intorno ai due, si
muove gente altrettanto semplice e onesta. Una Agnese illetterata, ma pratica
della vita, che consiglia decisa: "Conviene fare così". "Ma non
è male imporre al curato un matrimonio-sorpresa?" obietta Lucia. "E’
come lasciar andare un pugno a un cristiano, risponde Agnese, , non istà bene; ma dato che gliel’abbiate, né anche il
papa non glielo può levare".
E con Agnese tanti,
tanti altri: un curato pusillanime, egoista, timido, che si preoccupa soprattutto
della propria pelle; Perpetua, la serva-padrona, che dà buoni
"pareri" al curato; Ambrogio sacrestano; un oste molto pratico;
"Paolin dei morti" sepoltore; "un certo Tonio" con quel
sempliciotto di Gervaso suo fratello e con una moglie con la quale è in debito
di bugie; la fanciulla scarna, che contende l’erba alla vaccherella magra;
Bettina, la piccola che grida giuliva: "Lo sposo, lo sposo! "; Menico, ragazzo bravissimo a fare a rimbalzello
ed il Console del villaggio.
Ma chi picchietta
all’uscio e dice: "Deo gratias"? E’ fra Galdino, che, bisaccia
pendente alla spalla sinistra, viene alla cerca delle noci e, tra una
chiacchiera e l’altra, racconta un gran miracolo avvenuto laggiù, in un
convento di Romagna.
E quest’altro
cappuccino, che si affaccia all’uscio di Agnese e si ferma ritto sulla soglia,
chi è? "Un religioso, dice Renzo, che, senza farvi torto, val più un pelo
della sua barba che tutta la vostra", un nemico aperto dei tiranni in
parole e, dove poteva, in opere. E’ fra Cristoforo, padre spirituale di Lucia,
della quale ha temprato la coscienza, facendo di una povera contadina, sola al
mondo con la madre, una donna pura e forte, piena di fede e di speranza.
***
Tutti costoro si
muovono nel villaggio. Ma dentro e fuori villaggio Voi avete creato ben
duecentocinquanta- cinque personaggi, tutti delineati al vivo, magari con poche
parole, come la donna "pentolaccia a due manichi", come il grassotto
che sta ritto sulla soglia della sua bottega con l’aria più di voler fare
domande che di dar risposte, come il trombettiere di Don Gonzalo, come Don
Pedro, cocchiere di Ferrer, che in mezzo alla folla tumultuante sorride alla
moltitudine con grazia ineffabile, pregando mellifluo: "Di grazia... un pochino
di posto"; una volta diradata Ia gente, invece, gli torna in petto il
cuore antico, smette ogni cerimonia, sferza con brio i cavalli e grida:
"Ohé, ohé! ".
Ma i grandi di
questo mondo? Nel vostro romanzo Voi li fate pure entrare, ma a servizio degli
umili oppure in contrapposizione agli umili, in modo che questi facciano più
bella figura.
Aristocratico di
nascita, Voi ammettete un’unica aristocrazia: il servizio ai poveri. Per voi
"non c’è superiorità d’uomo sopra altri uomini se non in loro servizio".
Il Cardinal
Federigo, padre Cristoforo, l’innominato convertito, il marchese erede di Don
Rodrigo, la mercantessa agiata appartengono all’aristocrazia delle anime,
perché si chinano nelle miserie dei poveri. Gli altri personaggi d’alto affare,
specialmente i violenti e i sopraffattori, non vi piacciono e come lo fate
capire! "Sono di quelli che hanno sempre ragione". "Sono della
costola di Adamo". Spediscono i figli cadetti al chiostro, per lasciar
intatta la sostanza al primogenito, "destinato a procreare dei figlioli
per tormentarsi e tormentarli". Don Rodrigo è un prepotente, non teme Dio
ma teme il mondo e il disprezzo dei villani tra cui vive; è capace di insultare
e cacciare di casa sua un povero frate, ma è pieno di paura di fronte all’Ordine
("volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i Cappuccini d’Italia?").
Del principe, che
monaca per forza la figlia, Voi dite: "Non ci regge il cuore di dargli il
titolo di padre". Bollato senza indulgenza il Conte Zio del consiglio
segreto, borioso e ipocrita ("un parlar ambiguo, un tacere significativo,
un restare a mezzo, un restringer d’occhi, un lusingare senza promettere").
Bollato il Conte Attilio, gran sostenitore della metodologia delle bastonate da
infliggere sia ai portatori di sfide ("il bastone non isporca le mani a
nessuno"...) sia ai frati cappuccini ("bisogna saper raddoppiare a
tempo le gentilezze a tutto un corpo, e allora si può impunemente dare un
carico di bastonate a un membro"). Bollato anche il dottor
Azzeccagarbugli, ("quel signor dottor delle cause perse"),
opportunista calcolatore, "giocatore di bussolotti" ossia ciarlatano,
fantoccio in mano ai potenti e alleato delle ribalderie da loro tramate contro
i poveri.
***
Per dire tutto,
nessuna violenza Vi piace, neppure quella che tentano i poveri quando sono
ingiustamente calpestati. Renzo, deciso a farsi giustizia da esclama: "A
questo mondo c’è giustizia finalmente", frase da Voi crudamente folgorata
con questo commento: "Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non
sa più quel che si dica".
E a! posto della
violenza cosa consigliate contro la violenza? Il perdono. Perdono domanda fra
Cristoforo al fratello dell’uomo da lui ucciso e per tutto il resto della sua
vita fa propaganda di perdono. Tiene nella borsa il famoso "pane del
perdono", che, prima di morire, consegna, come eredità, a Renzo e Lucia,
con queste parole: "Fatelo vedere ai vostri figlioli... dite loro che
perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! ".
Un anno prima, a
Renzo sconvolto e arrabbiato, aveva detto: "Ho odiato anch’io... l’uomo,
che odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso... credi tu
che se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah,
s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre...
per l’uomo ch’io odiavo! ".
La lezione non è
vana. Renzo concede il perdono a Don Rodrigo: un perdono intercalato con
risvegli di rabbia e ritorni di vendetta nella fuga da Monza a Milano, nella
quale "ebbe ammazzato in cuor suo Don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno
venti volte"; un perdono "proprio di cuore" dopo i nuovi
rimproveri di fra Cristoforo a! Lazzaretto; perdono ripetuto nella capanna di
Lucia e di nuovo, all’annuncio della morte di Don Rodrigo, sempre con questa
qualifica: "di cuore, di cuore".
***
Un altro sentimento
di non violenza pervade tutto il vostro romanzo: la fiducia nella Provvidenza.
Lucia, dando
l’addio ai suoi monti, piange nel fondo della barca, ma il pensiero ultimo che
le si ferma nell’animo è questo: "Dio che dava già tanta giocondità è
dappertutto". Riluttante al matrimonio di sorpresa, aveva detto:
"...tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà... lasciamo fare a Quello
lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo di aiutarci, meglio che non
possiamo fare noi, con tutte codeste furberie?".
Renzo, nella
boscaglia, "prima di sdraiarsi su quel letto che
Ancora mezzo
affranto e tutto sossopra dopo la corsa e il salto, col quale s’è salvato sul
carro dei monatti, "ringrazia intanto alla meglio in cuor suo
E si tiene sempre
in questo clima di fiducia. "La c’è
Ed alla fine,
cercando con Lucia, trova il sugo di tutta questa storia e lo riassume così: i
guai, "quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li
raddolcisce e li rende utili per una Vita migliore".
D’accordo, in
questo, col cardinal Federigo: "far quel che si può, industriarsi,
aiutarsi, e poi essere contenti".
D’accordo anche,
caro Don Lisander, con tutti i veri seguaci del Vangelo.
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* ALESSANDRO MANZONI (1785-1873) scrittore grandissimo
e convinto cattolico. Scrisse il massimo romanzo della letteratura italiana: I Promessi Sposi, oltre a numerose
raccolte poetiche: gli Inni Sacri, le odi
Marzo 1821 e Cinque Maggio, la
tragedia Adelchi. Aristocratico di nascita, ammise una sola aristocrazia:
il servizio ai poveri.
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Albino Luciani
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