A Trilussa *
NEL CUORE DEL MISTERO
Caro Trilussa,
ho riletto
la poesia melanconicamente autobiografica, in cui racconti di esserti sperso,
di notte, in mezzo al bosco, e lì incontri una vecchietta cieca, che il dice: " Se la strada nun la
sai, te ciaccompagno io, che la conosco!" Sorpresa tua: " Trovo strano che me
possa guidà chi nun ce vede". Ma la vecchietta taglia corto, ti piglia
la mano e ti intima: "Cammina." E’ la fede.
Sono
d’accordo in parte con te: la fede è davvero una buona guida, una cara e saggia
vecchietta che dice: metti qui il tuo piede, prendi questo sentiero che sale. Ma ciò succede in un secondo momento, quando la fede ha
ormai messo radici come convinzione nella mente e di là pilota e dirige le
azioni della vita.
Prima, però, la
convinzione deve formarsi e piantarsi nella mente. E
qui, caro Trilussa, sta oggi la difficoltà, qui il viaggio della fede si rivela
non la patetica passeggiata sulla strada del bosco, ma un viaggio a volte
difficile, talora drammatico e sempre misterioso.
E’ già difficile,
intanto, aver fede negli altri, accettando, sulla parola, le loro asserzioni.
Lo scolaro sente dire dal professore che la terra dista dal sole 148 milioni di
chilometri. Vorrebbe controllare, ma come? Si fa
coraggio e aderisce con un volitivo atto di fiducia: "Il professore è
onesto ed informato, fidiamoci!".
Una madre narra al
suo figliolo di anni suoi lontani, di sacrifici
sostenuti per proteggerlo, guarirlo e conclude: "Mi credi? E ricorderai quanto ho fatto per amor tuo?". "Come posso non crederti?, risponde
il figlio, e farò quanto posso
per non essere indegno dell’amore che mi hai portato!". Questo figliolo oltre che fiducia, deve far nascere in sé, per sua madre,
anche tenerezza e amore; solo così possono venire uno slancio di dedizione e
un impegno di vita.
La fede in Dio è qualcosa di simile: è un sì filiale,
detto a Dio, che racconta a noi qualcosa della propria vita intima: si alle
cose narrate e insieme a Colui che le narra. Chi lo
pronuncia deve non solo avere fiducia, ma anche tenerezza e amare e sentirsi
piccolo figlio, ammettendo: Io non sono il tipo che sa tutto, che dice l’ultima
parola su tutto, che verifica tutto. Magari sono abituato ad arrivare alla
certezza scientifica con la verifica più rigorosa di laboratorio; qui, invece,
devo accontentarmi di una certezza non fisica, non matematica, ma di buon
senso o di senso comune. Non solo: affidandomi a Dio,
so che devo accettare che Dio possa invadere, dirigere
e cambiare la mia vita.
Nelle
"Confessioni", caro Trilussa, Agostino è ben più concitato di te nel
descrivere il suo viaggio alla fede. Prima di dire il suo sì pieno a Dio, la sua anima rabbrividisce
e si torce in conflitti penosi. Di qua c’è Dio che lo invita, di là le antiche
abitudini, "le vecchie amiche", che lo "tirano dolcemente per il
suo vestito di carne" e gli sussurrano: "Tu
ci congedi? pensa che dal momento in cui ti avremo
lasciato, quella cosa non ti sarà più permessa e quell’altra neppure, e per
sempre!".
Dio lo spinge a
fare presto e Agostino implora: "Non subito, ancora un momento!". E continua settimane intere nell’indecisione, nel contorcimento interno,
finché, aiutato da una spinta potente di Dio, prende
il coraggio a due mani e si decide.
Come vedi,
Trilussa, nel dramma umano della fede, si inserisce
un elemento misterioso: l'intervento di Dio. Paolo di Tarso l’ha provato sulla
strada di Damasco e lo descrive cosi: quel giorno, Signore, "mi hai
ghermito": "colla tua grazia sono quello che
sono".
Qui siamo nel cuore
del mistero. Cos’è infatti, e come opera questa grazia di Dio? Com’è difficile
il dirlo!
Supponi, Trilussa,
che l’incredulo sia un dormiente; Dio lo sveglia e
gli dice: esci dal letto! Supponi che sia un malato; Dio gli mette in mano la
medicina e gli dice: prendila! Sta di fatto che chi non crede, d’improvviso,
senza che ci abbia pensato, si trova ad un certo momento a riflettere su
problemi d’anima e di religione, è potenzialmente disponibile per la fede.
Dopo questo intervento, fatto "senza di noi", Dio ne
opera altri, ma "con noi", cioè con la nostra libera collaborazione.
A svegliarci dormienti, è stato Lui solo; a scendere dal letto, tocca a noi,
anche se bisognosi, nello scendere, di altri suoi
interventi. La grazia di Dio, infatti, ha la forza, ma non intende forzare; ha
una santa violenza, ma adatta a far innamorare del vero, non a violare la
libertà. Può succedere che, svegliato, invitato ad alzarsi e preso per un
braccio, uno si volti invece sull’altro fianco,
dicendo: "Lasciami dormire! ".
Nel Vangelo si
vedono casi del genere. "Vieni e seguimi" dice il Cristo e Levi si
alza dal banco e Gli va dietro; un altro, invece, invitato, risponde:
"Permettimi che vada prima a seppellire mio padre" e non si fa più
vedere. Sono gente , riflette mestamente Cristo, che
mette mano all’aratro poi si volta indietro. Si spiega così come, nel credere,
c’è tutta una gamma che va da chi non ha mai avuto fede, a chi l’ha in misura insufficiente, ai tiepidi e rachitici nella
fede, fino a quelli che hanno una fede fervente ed operosa.
Ma si spiega fino ad
un certo punto soltanto, caro Trilussa. Perché alcuni
di noi non credono? Perché Dio non ci fece la grazia. Ma perché non ci fece la grazia? Perché
non corrispondemmo alle Sue ispirazioni. Perché
non corrispondemmo? Perché, essendo liberi, abusammo
della libertà. Perché abusammo della libertà? Qui è il
duro, caro Trilussa, qui rinuncio a capire. Qui, invece che al passato, amo
pensare all’avvenire e decido di seguire l’invito di Paolo: "Vi esortiamo
a non ricevere invano (in avvenire) la grazia di Dio".
***
Caro Trilussa! Il
Manzoni definisce "giocondo prodigio e convito di grazia" il ritorno
dell’Innominato alla fede. Se
n’intendeva, era "ritornato" anche lui.
Si tratta di un
convito sempre imbandito e aperto a tutti. Per quanto mi riguarda, io cerco di
approfittarne tutti i giorni, rimettendo in piedi oggi la vita di fede buttata
giù coi peccati di ieri. Chissà se i cristiani che,
come me, si sentono ora buoni, ora peccatori, con me accetteranno di fare i
"bravi convitati"?
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* TRILUSSA (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri), poeta romano
(1871-1950). La sua satira, spesso scanzonata e bonaria, s’accende, a volte,
di sarcasmo mordace contro le ipocrisie, le malizie e l’egoismo del mondo contemporaneo. Le sue opere più
note, Le favole (1922), Giove e le bestie (1932).
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Albino Luciani
Illustrissimi
Edizioni Messaggero - Padova
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