Comitato
per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana
Convegno
Internazionale Dio oggi. Con lui o senza di Lui cambia tutto – Roma,
10-12 dicembre 2009
ROGER SCRUTON
La bellezza e il sacro
Relazione
per la seconda sessione, Il Dio della cultura e della bellezza,
Roma,
Auditorium della Conciliazione, 11 dicembre 2009
Definire
la bellezza è una di quelle imprese necessarie ma impossibili che i filosofi
cercano di evitare. Nondimeno, mi è sempre parso innegabile che scopo e appagamento veri dell'artista siano il creare bellezza, e
che la bellezza e la creatività siano aspetti diversi del medesimo cimento.
Inoltre, nel creare bellezza l'artista rende gloria alla creazione di Dio. E la
bellezza redime ciò che tocca, mostrando come i dolori e le traversie della
vita umana siano, tutto sommato, non indegni.
Tale è la
mia prospettiva, e nel corso della storia altri vi si sono riconosciuti. L'arte
è un tributo umano alla forza creatrice che regola l'universo, un tentativo di
rappresentare, entro confini umani, l'esperienza di un mondo che è sia creato
sia dato. Per ciò all'arte è riservato un posto indiscutibile nella pratica
religiosa: non solo nei culti pagani dell'antichità, ma anche nella Chiesa
cristiana e nei riti che in essa si celebrano. E se l'islam ha espulso l'arte
figurativa dalla moschea, non ha però estromesso la bellezza. Al contrario, ha
cercato di abbellire e di decorare il luogo di culto in modi che offrano un
tributo confacente al Dio che lì si adora.
Di
quest'abitudine di offrire in un luogo di culto ciò che di più bello esiste vi
è testimonianza in tutto il mondo, nell'ebraismo, nell'induismo e nel
buddhismo, nelle semplici moschee del deserto così come nei gloriosi santuari
dei santi cristiani. E la nostra risposta alla bellezza è per molti versi simile alla risposta che diamo alle realtà
sacre. L'oggetto bello è in qualche modo al di fuori del corso ordinario degli
eventi umani. Esige reverenza, rispetto e persino soggezione da parte di chi
s'imbatte in esso. Una soggezione così la proviamo per esempio in presenza
dell'Apollo del Belvedere, anche se non abbiamo alcuna
disposizione a venerare né la statua in se stessa né la divinità che essa
rappresenta. Un mondo che contiene bellezza è un mondo in cui la vita è degna
di essere vissuta. Lo stesso avviene con la bellezza umana. Anche quando è
l'oggetto del desiderio, il corpo bello o il viso bello ispirano in noi una
sorta di reverenza, nonché compiacimento per il mondo
che contiene tale meravigliosa realtà. Di ciò ebbe cognizione Platone, che
v'ispirò la propria filosofia della condizione umana.
Benché radicate nell'antichità e nel credo cristiano, e ancorché
siano sempre rimaste legate all'eredità spirituale che caratterizza la nostra
civiltà, le nostra arte e la nostra letteratura non sono mai state subordinate
alla religione. Al contrario, abbondano di messaggi opposti alle pretese della
fede. Si può ben essere grandi come William Shakespeare, benché ancora oggi si
discuta se quel poeta sia stato protestante, cattolico, pagano o persino ateo.
L'arte moderna – l'arte iniziata con Édouard Manet,
Charles Baudelaire e Richard Wagner – è solo marginalmente cristiana e contiene
invece numerosi elementi pagani e scettici. Ma proprio per questa ragione è
stata molto cauta nel cercare di non perdere in bellezza. In un mondo in cui
Dio sembra più difficile da trovare e più difficile da tenersi stretto, l'arte
si dedica all'inseguimento del bello con urgenza massima. Nell'epoca moderna,
non è sempre stato semplice trovare il modo di consacrare le esperienze
personali, se non attraverso il tentativo di rappresentarle nell'arte. Ne
fornisce un esempio clamoroso il grandioso dramma musicale Tristano e Isotta
di Wagner. In questa opera, nulla viene preso in considerazione, eccetto
l'amore profano fra i due protagonisti. Accade poco, a parte quanto è
inevitabile, allorché questo amore sovversivo vien scoperto e gli amanti
condannati. Eppure quasi tutti gli appassionati di musica considerano l'opera
con grande rispetto, non solo per la sua bellezza e per la sua potenza straordinarie, ma addirittura come cosa sacra. La si
è spesso descritta come l'opera più religiosa del repertorio e almeno un
critico l'ha accostata alla Passione secondo Matteo di Johann Sebastian
Bach quale esempio della più elevata esperienza religiosa in forma musicale. In
essa la vita stessa è data come sacra; e tuttavia essa non menziona alcun dio,
riferendosi alla vita oltre la morte come a una notte senza fine.
Questo è solo uno
degli esempi di una realtà di cui si ha riprova ovunque nella prima arte
moderna, la quale si configura come il tentativo di santificare il nostro mondo
attraverso il perseguimento della bellezza artistica. Di fronte al dolore,
all'imperfezione e alla transitorietà delle nostre affezioni e delle nostre
gioie, miriamo ad archetipi più perfetti. Della condizione umana cerchiamo di
fare icone che possano essere contemplate. All'arte chiediamo di riassicurarci
sulla sensatezza della vita in questo mondo e sulla redenzione della sofferenza.
È questo il compito che artisti quali Paul Cézanne e Vincent van Gogh, poeti come T.S.
Eliot e Anna Akhmatova, nonché compositori come
Benjamin Britten e Alban Berg hanno tutti assunto per sé. Al dipanarsi del secolo
XX, mentre gli orrori si succedevano l'uno all'altro, ognuno più terribile del
precedente, si è guardato all'arte per ottenere quella riassicurazione decisiva
circa il fatto che la vita umana non è solo una storia insulsa di nascita e
decadimento, che una forza redentrice è attiva al cuore stesso delle cose e che
il nome di questa forza è amore. La bellezza può essere persino definita in
questo modo: è il volto dell'amore, che risplende nella desolazione. E molto
spesso le più belle opere d'arte del secolo XX emergono proprio dalla
desolazione. Le poesie dell'Akhmatova, gli scritti di
Boris Pasternak, la musica di Dmitri Šostakovič: opere siffatte cercano di accendere una
luce nell'oscurità totalitaria, di trovare la bellezza nella sofferenza e di
mostrare l'amore che agisce nel mezzo della distruzione. Qualcosa di analogo si
dovrebbe dire dei Quattro quartetti di Eliot, di War Requiem e Curlew River di Britten
e della Chapelle du Rosaire a Vence di Henri Matisse;
anzi, di tutte le grandi icone del modernismo, concepito in risposta ai crimini
e alle tragedie del secolo XX. Nel dubbio e nella desolazione, artisti,
scrittori e musicisti si sono aggrappati alla prospettiva della bellezza quale
prova dell'influenza sempre viva esercitata dall'amore, dalla speranza e
dall'idealità umana. Non vi è sicuramente prova maggiore del bisogno religioso
dell'uomo, né della presenza nelle nostre esistenze di un amore che non conosce
condizionamenti e che non può essere sconfitto.
Nel corso della vita
del sottoscritto, però, il mondo dell'arte ha conosciuto un cambiamento
improvviso. Invece d'inseguire la bellezza, e di coinvolgerci simpateticamente, gli artisti hanno iniziato a glorificare
la bruttezza. Immagini di brutalità e distruzione, racconti di stili di vita
viziosi e ripugnanti, musica di una sgradevolezza vessatoria o di una violenza
folle e spietata: queste cose sono rapidamente divenute la moneta corrente delle
scuole d'arte e delle mostre, dei media popolari e delle sale da
concerto. Qualche esempio può richiamare alla memoria ciò di cui sto parlando.
I fratelli Chapman, per esempio, che turbano oggi la
“scena artistica” di Londra ritraendo il volto umano sfigurato da un pene al
posto del naso o sostituendo la bocca con un ampio buco, e il cui triste
catalogo di mutilazioni si diletta di tutti i modi in cui la forma umana può
essere resa disgustosa o insulsa. La decostruzione sistematica della voce e dell'anima umani a opera del peggio dell'heavy metal, come illustra il brano Bleed del gruppo svedese Meshuggah.
I suoni acidi e perforanti mutuati dai laboratori dell'IRCAM, l'Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique di Parigi, che
sono divenuti elementi quasi obbligatori della musica eseguita dal vivo in una
sala da concerto. L'orribile letteratura dello squartamento e del cannibalismo,
esemplificata dai romanzi di Thomas Harris incentrati sul personaggio di Hannibal Lecter, e trasposta sul
grande schermo da, fra altri, Quentin Tarantino.
Ovviamente, nell'arte
moderna non tutto è così: vi è una distinzione importante fra l'arte che
dissacra la vita e l'arte che semplicemente mette in scena i detriti della
vita, con una scossa no comment delle spalle,
come avviene con i prodotti serializzati di Andy Warhol o con i ripetitivi modelli
sonori di Steve Reich e Philip Glass. Eppure l'inoffensività di queste posture
vuote è un'altra forma di offesa, un insulto arrecato all'intero genere umano
da persone per le quali nulla conta di più di una Brillo Box o è più
interessante di una sequenza infinita di trittici mutevoli.
Molti esempi
illustrano un'abitudine alla dissacrazione in cui la vita non viene celebrata
dall'arte quanto invece presa di mira da essa. Oggi gli artisti possono
farsi una reputazione costruendo una cornice originale in cui mettere in mostra
il volto umano gettandovi poi dello sterco. Come ci si deve rapportare dunque a
tutto questo e com'è possibile trovare un modo per tornare all'oggetto che così
tante persone desiderano, vale a dire la prospettiva della bellezza? Forse
parlare in questo modo di «prospettiva della bellezza» potrebbe suonare un poco
sentimentale. Ma ciò che intendo non è una immagine
zuccherosa, da bigliettino di Natale della vita umana, quanto piuttosto i modi
semplici in cui gl'ideali e il decoro entrano nel nostro mondo quotidiano
facendosi conoscere. Il nostro mondo ha una gran sete di bellezza ed è una sete
che l'arte popolare di oggi non riesce a riconoscere tanto quanto l'arte seria
contemporanea spesso frustra.
Ovviamente dico
«spesso» giacché se in verità dicessi “sempre” significherebbe semplicemente
che la battaglia per la bellezza è stata perduta. Solo grazie al fatto che vi
sono stati artisti, scrittori e compositori i quali, durante il trascorso mezzo
secolo di negatività, hanno dedicato le proprie fatiche a mantenere viva la bellezza
si può sperare di emergere, un giorno, dalla tediosa cultura della
trasgressione. Si debbono sicuramente salutare come eroi dei nostri tempi
scrittori quali Saul Bellow e Charles Tomlison, compositori come Henri Dutilleux
e artisti come Tom Phillips e David Inshaw i quali
non hanno rinunciato alla bellezza, permettendo a essa di splendere sopra il
nostro mondo tormentato nonché d'indicare la via nell'oscurità che ci avvolge.
Il culto della
bruttezza e della dissacrazione si afferma oggi in un'epoca di prosperità senza
precedenti. L'arte dei fratelli Chapman e la musica
dei Meshuggah sono prodotte dai figli viziati dello
Stato assistenzialistico, che non hanno mai dovuto lottare per la
sopravvivenza, che non hanno conosciuto la guerra e che sono finiti
giovanissimi in braccio al lusso. Sono i prodotti della ricchezza materiale e
dei valori materialisti; e lo stesso è vero di tutti gl'imbruttitori. Il contrasto con l'Akhmatova
o con Henryk Górecki non
potrebbe essere più eloquente. L'arte reale, l'arte bella, ha continuato a
sorgere dal regno della sofferenza oltre la Cortina di ferro fino alla fine
stessa di quel regime, rivolgendosi a noi con parole, tonalità e immagini che
parlavano di amore di frammezzo alla desolazione. La grande reviviscenza della
religione cristiana che abbiamo attraversato è venuta dalla Polonia, e mediante
la missione di Papa Giovanni Paolo II, in una epoca in
cui la Polonia soffriva il peso dell'oppressione. E nel corso di quegli anni di
durezza, sia la bellezza sia il sacro hanno occupato i loro posti antichi e
venerabili al cuore delle cose.
Sembra dunque che la
brama della dissacrazione cresca nell'abbondanza e nella pace, mentre la voglia
della bellezza resista là dove vi sono oppressione, violenza e bisogno. Come
regolarsi, allora? Com'è possibile contemplare questo fatto strano e non
pensare a esso in termini religiosi? Non vi è dubbio infatti
che in un mondo di abbondanza materiale, in cui la gente è vaccinata contro le
difficoltà, la religione declina, proprio come essa sta declinando oggi in
Polonia. Nella ricchezza sorge l'illusione di essere padroni del proprio fato e
quindi di non avere più bisogno di un Dio che provvede per noi. S'inizia a
perdere ogni senso della presenza divina, ogni senso del fatto che il mondo
abbonda di momenti sacri, di luoghi sacri e di cose sacre. E così nasce in noi
uno strano spirito di vendetta. Permettetemi di spiegarmi.
Il termine
«dissacrazione» è connesso, etimologicamente e semanticamente, al sacrilegio e
quindi alle idee della santità e del sacro. Dissacrare significa depredare ciò
che dovrebbe altrimenti essere posto altrove, nella sfera delle cose sacre. Si
può dissacrare una chiesa, un cimitero, una tomba; e anche una
immagine santa, un libro santo o una cerimonia santa. Si può pure
dissacrare un cadavere, una immagine cara, persino un
essere umano vivente, e ciò nella misura in cui queste cose contengono (come di
fatto contengono) il presagio di una qualche sacralità originaria. La paura
della dissacrazione è un elemento centrale di tutte le religioni. Anzi, ciò è
esattamente quanto il vocabolo religio significava
in principio: un culto o una cerimonia ideate per proteggere un certo luogo
sacro dal sacrilegio.
Nel secolo XVIII,
quando la religione organizzata e la regalità cerimoniale andavano perdendo
autorevolezza, lo spirito democratico metteva in discussione le istituzioni
tradizionali e si diffondeva l'idea che non è Dio bensì l'uomo a stabilire le
legge per il mondo umano, il concetto del sacro si eclissò. Ai pensatori
dell'Illuminismo credere che gli artefatti, le costruzioni, i luoghi e le
cerimonie potessero avere carattere sacro parve poco più di una superstizione,
stante che tutte queste cose sono prodotti della volontà umana. L'idea che il
divino si riveli nel nostro mondo chiedendo la nostra adorazione sembrò sia implausibile in sé sia incompatibile con la scienza.
Al tempo stesso filosofi
come Shaftesbury, Edmund Burke, Adam
Smith e Immanuel Kant riconobbero che non si guarda
il mondo solamente con gli occhi della scienza. Vi è un altro atteggiamento –
non d'indagine scientifica, ma di contemplazione disinteressata – che l'uomo
rivolge al proprio mondo cercandone il significato. Assumendo questo
atteggiamento, si mettono da parte i propri interessi; non ci si occupa più
delle mete e dei progetti che ci fanno progredire nel tempo; non ci si ritrova
più impegnati a spiegare le cose o ad accrescere il proprio potere. Si lascia invece
che il mondo presenti se stesso e da quest'autopresentazione si trae conforto.
Questa è l'origine dell'esperienza della bellezza. Potrebbe non esserci modo di
spiegare quell'esperienza come parte della nostra ordinaria ricerca del potere
e della conoscenza. Potrebbe essere impossibile assimilarla agli usi quotidiani
che facciamo delle nostre facoltà. Ma è una esperienza
che esiste in modo autoevidente e che per coloro che
la vivono è del valore massimo.
Quando questa
esperienza ha luogo e cosa essa significa? Ecco un esempio. Supponete di
trovarvi in cammino verso casa mentre piove, assorti con il pensiero nelle
questioni del vostro lavoro. Le strade e le case vi scorrono accanto senza che
voi la notiate; anche le persone scorrono accanto; insomma, nulla invade i
vostri pensieri eccetto i vostri interessi e le vostre ansietà. Poi,
improvvisamente, il sole esce dalle nubi e un raggio di luce illumina tremulo
un vecchio muro di pietra al bordo della strada. Voi date una
occhiata al cielo e alle nuvole che si sparpagliano, e un uccello
esplode nel canto in un giardino di là dal muro. Il vostro cuore si colma di
gioia e i vostri pensieri egoistici si dissipano. Il mondo vi sta davanti, e
voi siete contenti del solo guardarlo lasciandolo così come esso è. Avete fatto
esperienza del mondo come dono.
Forse questo tipo di
esperienze sono più rare adesso di quanto lo fossero nel secolo XVIII, quando i
poeti e i filosofi s'imbatterono in esse considerandole vie nuove alla
religione. La fretta e il disordine della vita moderna, le forme alienanti
dell'architettura moderna, il rumore e la spoliazione dell'industria moderna:
sono queste le cose che hanno reso per noi più raro, più fragile e più
imprevedibile l'incontro puro con la bellezza. Ciononostante, tutti sappiamo
cosa è, cosa è l'essere improvvisamente trasportati dalle cose che vediamo, dal
mondo ordinario dei nostri appetiti, alla sfera illuminata della
contemplazione. Accade spesso durante la fanciullezza, ancorché a quell'età lo
si riesca di rado a interpretare correttamente. Accade
durante l'adolescenza, quando si presta ai nostri struggimenti erotici. E
accade in versione attenuata nella vita adulta, plasmando segretamente i nostri
progetti di vita, proponendoci una immagine di armonia
che inseguiamo attraverso le vacanze, attraverso la costruzione delle nostre
case e attraverso i nostri sogni personali.
Ecco un altro esempio:
è una occasione speciale, per la quale la famiglia si
riunisce per una cena formale. Voi apparecchiate la tavola con una tovaglia
ricamata e pulita, sistemate i piatti, i bicchieri, il pane nel cestino,
qualche caraffa di acqua e di vino. Lo fate amorevolmente, dilettandovi di
quella vista, sforzandovi per ottenere un effetto di pulizia, di semplicità, di
simmetria e di calore. La tavola è divenuta così un simbolo del ritorno a casa,
delle braccia aperte della madre di tutti che invita i propri figli ad entrare.
E tutta questa abbondanza di significato e di buono spirito è in qualche modo
contenuto nell'aspetto che ha assunto la tavola. Anche questa è una esperienza di bellezza. Ed è una di quelle che
incontriamo, in una versione o in un'altra, ogni giorno delle nostre vite.
Siamo creature bisognose, e il nostro bisogno maggiore è quello di casa: il
luogo in cui siamo, dove troviamo protezione e amore. Otteniamo questa casa
attraverso le rappresentazioni del nostro stesso appartenere. La otteniamo non
da soli, ma assieme ad altri. E tutti i nostri tentativi di far sì che ciò che
ci circonda appaia in ordine – decorando, sistemando, creando – sono tentativi
di dare il benvenuto a noi stessi e a coloro che amiamo.
Questo secondo esempio
è per me molto importante. Infatti suggerisce che il
nostro bisogno umano di bellezza non è semplicemente un'aggiunta ridondante
alla lista degli appetiti umani. Non è un qualcosa che possiamo non avere e
sentirci realizzati lo stesso come persone. Si tratta di un bisogno che sorge
dalla nostra condizione metafisica d'individui liberi i quali cercano il
proprio posto in un mondo che continua. Possiamo vagare per questo mondo,
alienati, risentiti, pieni di sospetto e di sfiducia. Oppure possiamo trovare
la nostra casa qui, risposando in armonia con gli altri e con noi stessi. E
l'esperienza della bellezza ci guida lungo questa seconda strada: ci dice che
noi siamo a casa in questo mondo, che il mondo è già ordinato nelle
nostre percezioni come un luogo adatto alle nostre esistenze di esseri fatti
così come noi siamo fatti. La ricerca della bellezza continua la ricerca
dell'amore.
E ciò spiega
l'importanza dell'arte in una epoca di violenza, di
oppressione e di spodestamento. L'arte può tenere desta la memoria e la
speranza di codesti momenti di riposo, di costruzione di una casa, di amore
nella desolazione. E quando le persone voltano le spalle alla bellezza è perché
non credono più in queste cose: esprimono la natura priva di casa,
di speranza e di amore delle loro emozioni. Allo stesso tempo la bellezza ci
ricorda che alle nostre esistenze qualcosa manca: che l'abbondanza materiale
non è di per se stessa sufficiente per noi, che è
possibile soddisfare i nostri appetiti senza soddisfare noi stessi. E ciò
accade quando nasce il desiderio di vendetta. La dissacrazione è una sorta di
difesa dal sacro, un tentativo di distruggerne le pretese. Davanti alle cose
sacre le nostre vite vengono giudicate; e per sfuggire a quel giudizio, noi
distruggiamo la cosa che sembra accusarci. E siccome la bellezza ci ricorda del
sacro – e anzi di una forma speciale di esso –, anche la bellezza deve venire
dissacrata.
Se si guarda alle
bruttezze coltivate nel nostro mondo attuale, si scopre che molte di esse
includono la dissacrazione della forma umana mostrata dall'uomo che viene sopraffatto
da forze esterne, dallo spirito umano presentato come eclissato e
inefficace, nonché dal corpo umano considerato come mero oggetto fra oggetti
piuttosto che come soggetto libero, vincolato dalla legge morale. Ed è su
queste cose che l'arte del nostro tempo sembra concentrarsi, offrendoci non
solo la pornografia di carattere sessuale, ma anche una pornografia di violenza
in cui l'essere umano è ridotto a grumo di carne sofferente, reso miserabile,
impotente e disgustoso. Ed è esattamente in questa epoca di abbondanza
materiale, di libertà sessuale e di regno della bramosia che questa vendetta
contro la forma umana è prevalente.
Perché queste cose
dovrebbe essere diventate normali, perché, cioè, a parte il denaro che se ne
ricava (e perché, comunque, se ne può tanto facilmente ricavare del denaro)? La
risposta è che si tratta di tentazioni primarie. Tutti desideriamo
sottrarci alle esigenze che impone una condotta di vita responsabile, in cui ci
si tratta come persone degne di reverenza e di rispetto. Tutti siamo tentati
dall'idea della carne e dal desiderio di rifare l'essere umano come pura carne:
vale a dire un automa, obbediente a desideri meccanici. Per abbandonarci a
queste tentazioni, però, dobbiamo anzitutto rimuovere il principale ostacolo
che ci si frappone, e questo è la natura consacrata della forma umana. Dobbiamo
insudiciare le esperienze – come la morte e il sesso – che altrimenti ci
terrebbero lontani dalle tentazioni indirizzandoci a una più elevata vita di
amore. Questa dissacrazione ostinata è quindi una negazione dell'amore: un
tentativo di rifare il mondo come se l'amore non ne facesse più parte. E
questa, sicuramente, è la caratteristica più importante della cultura
postmoderna: che è una cultura senza amore, decisa a
ritrarre il mondo umano come non amabile. Non come un dono, ma come un fatto.
Per costruire una
risposta piena all'abitudine della dissacrazione, vi è bisogno di ri-unire l'intrapresa
dell'arte alle finalità della bellezza e della creatività. Come hanno mostrato
i primi modernisti, non è affatto un compito facile. Se si considerano gli
apostoli veri della bellezza nel nostro tempo – penso a compositori come Dutilleux e Olivier Messiaen, a
poeti come Derek Walcott e Tomlison,
a prosatori come Italo Calvino e Aleksandr I. Solzenicyn
–, si viene immediatamente colpiti dall'immenso lavoro duro, dall'isolamento
studioso e dall'attenzione per i dettagli che ne ha caratterizzato le creazioni.
Nell'arte, la bellezza dev'essere conquistata e
l'impresa si presenta sempre più difficile in un tempo in cui il penetrante
rumore della dissacrazione – amplificato ora da Internet – affoga le
voci quiete che mormorano nel cuore delle cose.
Un risposta è cercare la bellezza nelle sue forme altre
e più quotidiane: la bellezza delle strade ordinate e dei visi gioiosi, delle
forme naturali e dei paesaggi cordiali. Certo, è possibile sporcare anche
queste cose, ed è il marchio di un artista di secondo piano il portare quella
strada alla nostra attenzione, vale a dire la via negativa della
dissacrazione. Ma è anche possibile ritornare alle cose ordinarie nello spirito
di Wallace Stevens e di Samuel Barber (o diciamo, per
gl'italiani, di Eugenio Montale e di Antonio
Bertolucci) per mostrare quanto ci sentiamo a casa nostra con esse, e quanto esse
magnifichino e giustifichino la nostra vita. È questo il sentiero ingombro che
i primi modernisti hanno ripulito per noi, vale a dire la via positiva della
bellezza. Non vi è ancora ragione per pensare di doverlo abbandonare. Perché,
allora, così tanti artisti si rifiutano oggi di camminare lungo quel sentiero?
Forse perché sanno che esso conduce a Dio.
Titolo originale Beauty and the Sacred, 2009
Traduzione
dall'inglese di Marco Respinti — Studio Bilbo, Milano
info@marcorespinti.org — www.marcorespinti.org