IL MIO CATTIVO MAESTRO
L’autore di «Ipotesi su Gesù» ricorda le lezioni
dello storico e giurista laico: «Si fermava alle domande penultime» La ragione parziale di Galante Garrone DESENZANO (BS) Accadde una notte di luglio e di afa, trentasei anni fa. Il giovane laureando si assopì
agnostico, liberal, mangiapreti e si risvegliò con
un irresistibile desiderio: mettere in discussione la fede illuministica
nella Dea Ragione e usare la ragione per confermare Vittorio Messori, oggi, ha 59 anni.
Vive con la moglie nella tranquillità di Desenzano,
sul lago di Garda. Per conservare i suoi oltre ventimila libri, tutti di argomento religioso, ha preso in affitto un capannone
industriale dismesso. Sta curando gli ultimi
ritocchi al suo quattordicesimo saggio, Dicono che è risorto . Sta partendo per
Lourdes («Non per fanatismo religioso, vado in vacanza, un amico mi ha
affittato la casa su quella magnifica collina»). Nel salotto sono appese le
copertine dei suoi libri, anche le edizioni cinese,
coreana e araba. In bagno, una copia di La civiltà cattolica , ma anche la laicissima
Micromega . Nello studio, una grande fotografia di Bernadette, la pastorella delle
apparizioni, che lo guarda negli occhi quando sta seduto alla scrivania, e la
prima pagina di un giornale scolastico in cui il piccolo Messori
metteva in prosa «San Martino» di Giosue Carducci. Messori è un uomo mite,
ma coraggioso. Ha avuto la faccia tosta di
chiedere al Papa se credeva davvero che Gesù fosse
il figlio di Dio. Non gli piace definire Galante Garrone
un «cattivo maestro». Preferisce: «Un maestro incompleto, insufficiente. Che mi ha insegnato la serietà sul lavoro. Che, come gli ha detto una volta Arturo Carlo Jemolo, non crede nel paradiso, ma fa di tutto per
meritarselo. Un mite giacobino. Ma, a volte, anche
la mitezza giacobina può portare al terrore e alla
ghigliottina come conseguenza di una morale che, nei confronti degli
avversari, manca di pietà, di perdono, di misericordia. Galante Garrone è una delle più nobili figure di
quella cultura azionista, elitaria, che al sacerdozio del prete sostituisce
il sacerdozio del professore, dell’intellettuale. Che alla
cattedra del vescovo sostituisce la cattedra universitaria. Che non sopporta i cialtroni e ha orrore della retorica, ma che
fa di quest’antiretorica una nuova retorica.
Che in una sorta di religioso antifascismo dà al tiranno
tutte le colpe, anche quelle che non sono sue. Che la pena di morte va
abolita, ma se la decide il tribunale di Norimberga o se la
si applica a Mussolini è diverso. Che il
genocidio è inaccettabile, ma se fanno fuori
ventimila cattolici protofascisti in Vandea… è Senza l’avventura di quella notte, Messori
sarebbe ancora impregnato di quel laicismo in cui s’immerse
appena arrivato, bambino, a Torino. «Già prima, con il latte materno avevo
succhiato la diffidenza per il nero della tonaca dei preti e il rifiuto della
Chiesa come istituzione. I miei genitori sono modenesi doc
e non stavano certamente con don Camillo. Mia madre diceva che Il giovane Messori entra al «seminario minore laico» Massimo
D’Azeglio, il liceo a trecento metri dal «monastero laico», il palazzotto di
via Biancamano dove ha sede l’Einaudi.
«Mi vedevo già là dentro come redattore, consulente, magari anche autore.
Dovevo superare ancora una tappa: il "seminario maggiore laico" di
Palazzo Campana, l’università che mi avrebbe dato chierica, unzione e
consacrazione, mi avrebbe inserito in quell’ordine
sacerdotale einaudiano perfettamente integrato nella Torino da manuale, e a volte da barzelletta, del
laicismo elitario. Galante Garrone e anche Norberto
Bobbio e Luigi Firpo furono i miei maestri. Non
rinnego nulla della cultura che hanno cercato di darmi. Mi hanno insegnato a usare la ragione. Ma non a usarla fino in fondo. Loro
si fermavano troppo presto. Passavano il tempo a
occuparsi, in maniera esemplare, di cose "penultime", rifiutando,
quindi, le domande "ultime". Snobbavano le
questioni religiose come "domande da brufoli", da ragazzini. In
qualche modo mi fanno venire in mente Renzo Arbore quando canzona
quelli che si chiedono chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ricordo la
fatica che ho fatto, molti anni dopo la laurea, per convincere Galante Garrone a parlare con me su questioni religiose per
un’intervista a Famiglia Cristiana .
Si sentiva affettuosamente violentato. Considerava l’argomento talmente
privato da vergognarsi di parlarne. Aveva paura di denudarsi. Insomma,
difendeva il suo impenetrabile agnosticismo. Era più facile confrontarsi con
quei pochi atei puri e duri ufficialmente rimasti a
dichiarare la loro fede». Messori si ostinava a coniugare fede
e ragione; i suoi maestri
erano fermi a fede o ragione.
«Ho portato la ragione fino alle soglie del mistero e mi sono convinto che
l’ipotesi più ragionevole è l’accettazione dell’enigma. Ho studiato la vita di
Gesù con lo stesso criterio con cui Galante Garrone ha studiato Filippo Buonarroti
e Felice Cavallotti. Era Gesù un oscuro predicatore
ebraico o era il Cristo figlio di Dio? Non ho escluso niente. Nemmeno che quella di Gesù fosse una
figura puramente mitologica. Ma, studiando
come un professore e indagando come un cronista, sono arrivato alla più
ragionevole delle ipotesi. Paradossale e imprevista, ma
ragionevole: la cosa più sensata è scommettere sul mistero. Se ho potuto arrivare fin là in fondo è perché ho avuto
maestri come Galante Garrone». Ha combattuto, Messori, contro quello che è successo quella notte costringendolo a
diventare quel che è oggi. «Non volevo diventare cristiano e meno che mai
cattolico. Mi vergognavo. Andavo a messa di nascosto. Mia madre quando mi
scoperse chiamò il medico di famiglia e gli disse
che avevo un grave esaurimento nervoso. Avevo anche un problema culturale e
una prospettiva professionale: se continui così, mi dicevo, non diventerai
mai nessuno all’Einaudi. Mi costò andare avanti.
Sapevo di aver vissuto un’esperienza mistica, io che detestavo (e ancora
adesso sento estranei) i mistici. Rivedevo quell’ameba
gelatinosa e disprezzabile che era ai miei occhi l’Azione cattolica con i
suoi distintivi (ormai soltanto Scalfaro lo porta ancora all’occhiello). Vedevo Ma tant’è:
c’era qualcosa di più forte e di più misterioso che spingeva il giovane Messori, già colto ed erudito, a superare «i confini che
la cultura di Galante Garrone e del suo laicismo mi
avevano imposto. Avevo voglia di risposte alle domande che la mia educazione
laica mi faceva considerare indegne, da rimuovere. Ero in sintonia con
l’Enciclopedia Einaudi che relegava il
cristianesimo tra l’antropologia e il folklore e con il catalogo Feltrinelli che non contemplava
la sezione religione». Ma tant’è: c’era qualcosa di invincibile e ingovernabile che stava cadendo tra capo
e collo al giovanotto Messori. Laico e libertino,
la sera d’estate andava alla Stipel (come si
chiamava allora la compagnia dei telefoni) per guadagnare qualche cosa
sostituendo le centraliniste che dopo una cert’ora
non era bello che lavorassero. Erano occasioni per
consolare un’anima in pena notturna, ma anche per fissare la sveglia
telefonica a una signora che, magari, dopo un
galante colloquio propedeutico, riceveva, con qualche anticipo, una sveglia
umana. Tutto ciò avveniva, naturalmente, in attesa
di prendere il tram per andare al santuario laico di Palazzo Campana. «La
salvezza sta nei Lumi, pensavo, come mi avevano insegnato
i miei maestri. E per ampliare il mio orizzonte
culturale, decisi di affrontare una lettura fino a quel momento a me
sconosciuta. Il Vangelo. Mi serviva per capire un’opera d’arte, per
intercettare una citazione. Una semplice operazione culturale. Non volevo
salvarmi l’anima. Per quello basta Platone che ci ha
spiegato ben prima di Cristo che l’anima è immortale». Ma l’operazione culturale
prende una piega imprevista. Come nel racconto di Edgar Allan Poe, Una discesa nel Maelstrom
, Messori si trova preso in un gorgo, cerca
una via di salvezza, il gorgo non s’inverte, come nella finzione letteraria,
ma cede in un punto, si apre una fessura, e Messori
può sbirciare aldilà, quanto basta per cambiargli la vita. Sarebbe sufficiente per arruolare un nuovo soldato
nell’esercito dei mistici. E, invece, oggi Messori è d’accordo con il cardinale Giacomo Biffi,
teorico della «teologia del tortellino»: essere cristiani non vuol dire
rinunciare ai tortellini, ma gustarli con più piacere e per l’eternità, se te
li sarai guadagnati comportandoti bene, cristianamente,
nella vita terrena. E, qui, il discorso torna alla
morale; quella di Messori, ormai, è molto diversa
da quella di Galante Garrone. «I laici hanno una
morale irragionevole: comportarsi bene senza motivo. Perché devo fare del bene se non ne
ho alcun vantaggio? La vocazione alla vita è una vocazione
alla vita eterna. E bisogna guadagnarsela, la vita
eterna. Io non temo la morte. Temo chi ha il potere di giudicare la mia vita
terrena. Nella morale laica, che si professa rigorosamente razionale, c’è , in realtà, un deficit di razionalità, un fideismo irrazionale.
Valla a spiegare alle folle degli stadi, agli hooligans,
la morale laica…». |
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Corriere della sera 29 luglio 2000 |
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