ESSENZA
Dal latino essentia, natura di una cosa. Generalmente
denota l’elemento formale costitutivo di una cosa, l’elemento che l’assegna a
una determinata specie e allo stesso tempo la separa da tutte le altre specie.
1.
USO DEL TERMINE IN S. TOMMASO
Generalmente S. Tommaso adopera il termine essenza per indicare ciò che
appartiene necessariamente a una cosa, e pertanto viene posto nella sua
definizione. "L’essenza o natura comprende in sé soltanto quel che è incluso
nella definizione della specie; così umanità abbraccia solo quel che è incluso
nella definizione di uomo; solo per questo infatti l’uomo è uomo, e
precisamente questo indica il termine umanità, quello cioè per cui l’uomo è
uomo" (I, q.
Nelle opere giovanili il termine "essentia" viene anche
usato, ma abbastanza raramente, come sinonimo di esse: "Philosophus accipit ibi esse pro essentia, vel quidditate, quam significat definitio" (III Sent.,
d. 6, q.
Sinonimi del
termine "essenza" nel linguaggio di S. Tommaso sono: natura,
quiddità, "ciò che è" (quod quid est),
sostanza, specie.
2. CONOSCENZA DELL' ESSENZA
Conoscere l’essenza
delle cose è funzione propria della prima facoltà dell’intelletto, l’apprensione.
"Come afferma il Filosofo (nel II libro del De Anima) l’operazione
dell’intelletto è duplice: una è chiamata apprensione degli indivisibili.
Mediante questa operazione esso apprende l’essenza stessa delle cose. L’altra
operazione (il giudizio) appartiene all’intelletto in quanto unisce o
divide" (In I Periherm., proem.,
n. 1). Ciò però non significa affatto che l’essenza sia colta intuitivamente.
Secondo S. Tommaso tutte le conoscenze dell’intelletto sono frutto del
processo astrattivo, persino la conoscenza del
concetto di ente e del princìpi primi (cfr. C. G., II. c. 83). S. Tommaso esclude perentoriamente
sia la teoria platonica della reminiscenza, sia quella agostiniana
dell’illuminazione che affermano che l’anima possiede una conoscenza diretta e
immediata delle essenza delle cose senza passare attraverso il canale dell’esperienza
sensibile (vedi: CONOSCENZA).
Di fatto, la nostra
mente giunge all’apprensione delle essenza a poco a poco, mediante laboriose
considerazioni, accurate analisi, ragionamenti sottili. Solo alla fine essa
riesce a enucleare l’essenza liberandola da ciò che è occasionale, accidentale,
individuale. "L’intelletto, come suggerisce il nome stesso, denota una
conoscenza che raggiunge l’intimità della cosa. Così, mentre il senso e la
fantasia si occupano degli accidenti che circondano l’essenza della cosa, l’intelletto
invece raggiunge l’essenza stessa. Per questo motivo, secondo il Filosofo, oggetto
dell’intelletto è la quiddità della cosa. Però nell’apprensione dell’essenza
c’è una differenza. Talvolta l’essenza viene appresa immediatamente e direttamente
(apprehenditur ipsa essentia per seipsam) senza
che l’intelletto abbia bisogno di entrare nell’essenza passando attraverso ciò
che la circonda; e questo è il modo di conoscere proprio delle sostanze
separate; per cui sono chiamate intelligenze. Altre volte non si raggiunge
l’intimità della cosa se non passando attraverso gli elementi circostanti, come
se fossero delle porte; e questo è il modo di conoscere proprio degli uomini,
i quali arrivano alla conoscenza dell’essenza partendo dagli effetti e dalle
proprietà. E in questo c’e bisogno del procedimento discorsivo, perciò la
conoscenza dell’uomo è detta ragione, sebbene si concluda con l’intelletto, in
quanto la ricerca conduce alla conoscenza della essenza della cosa" (III Sent., d. 35, q.
3.
FUNZIONE DELL' ESSENZA
S. Tommaso,
studiando più a fondo dei suoi predecessori il ruolo che l’essenza svolge in
seno all’ente (l’ente reale, non l’ente intenzionale
o logico), giunge alla conclusione che il suo ruolo principale è quello di
porre dei confini alla perfezione dell’essere (che è di diritto infinita)
nell’ente: i confini non vengono imposti né dalla materia né dalla forma,
bensì dall’essenza stessa. Si prenda per es. un banco: perché non ha un maggior
grado di essere e di perfezione di quello che di fatto gli appartiene? La
risposta di S. Tommaso è che il banco, proprio in forza della sua natura o
essenza di banco, non comporta un maggior grado di essere o di perfezione;
potrà essere di materiale più pregiato, lavorato più finemente, più largo, più
alto ecc., ma non potrà mai avere la perfezione della coscienza, della libertà,
della conoscenza, del movimento e tante attre perfezioni che la sua essenza di
banco esclude e che invece l’ente in quanto actualitas omnium actuum contiene necessariamente.
Quindi la limitazione della perfezione dell’essere
negli enti e, pertanto la ragione ultima della differenza ontologica tra ente
ed essere, va ricercata nell’essenza.
Le essenze, spiega
S. Tommaso, sono come recipienti e contengono tanto di essere quanto ne comporta
la loro capacità; viceversa l’essere si trova negli enti secondo la misura
della capacità delle essenza. "L’essere che in se stesso è infinito può
essere partecipato da infiniti enti e in infiniti modi. Se dunque l’essere di
qualche ente è finito, bisogna che esso sia limitato da qualche altra cosa,
che sia in una certa guisa presente nell’ente come suo principio" (C. G., I, c. 43, n. 363). Tale è il ruolo dell’essenza.
D’altronde le cose non si possono distinguere le une dalle altre in ragione dell’essere che è comune a tutte. Perciò "se differiscono
realmente tra loro, bisogna o che l’essere stesso sia specificato da alcune
differenze aggiunte, in maniera che cose diverse abbiano un essere
specificamente diverso, oppure che le cose differiscano, perché lo stesso
essere compete a nature specificamente diverse. Il primo caso è impossibile,
perché all’essere non si può fare aggiunta in quel modo con cui si aggiunge la
differenza specifica al genere. Bisognerà allora ammettere che le cose
differiscano a cagione delle loro diverse nature, per le quali si acquista
l’essere in modi diversi" (C. G., c. 26, n. 239).
L’intuizione che la
delimitazione della perfezione dell’essere è dovuta all’essenza, anziché alla
materia o alla forma, consente a S. Tommaso di disfarsi della teoria dell’ilemorfismo universale, teoria patrocinata da Avicebron e che ai tempi di S. Tommaso contava molti
seguaci anche tra gli scolastici latini. Secondo questi studiosi la materia è
un elemento che entra nella costituzione di tutte le creature, compresi gli
angeli, perché soltanto la presenza della materia le distinguerebbe da Dio. S.
Tommaso non è di questo avviso. Egli ritiene che per spiegare la finitudine degli angeli come di qualsiasi altra realtà
creata può bastare l’essenza. (vedi: ANGELI). Questa, in quanto finita, è la
ragione intrinseca della delimitazione della perfezione infinita dell’essere
nell’ente creato (cfr. il testo magistrale De sub. sep., c. 8).
Fungendo da
recipiente dell’essere, l’essenza, rispetto all’essere che è sommamente atto (actualitas omniun actuum) , Si comporta come
la materia rispetto alla forma, cioè si comporta come potenza. Tuttavia lo
stesso S. Tommaso precisa che la composizione che si stabilsce
all’interno dell’ente per mezzo dell’essenza e dell’essere ha connotati diversi
da quelli della composizione di materia e forma. Ecco come egli spiega la
diversità nella Summa contra
Gentes: "Non sono identiche queste due
composizioni sebbene ambedue risultino di potenza e atto.
Primo,
perché la materia non è l’essenza (substantia) stessa della cosa, altrimenti avremmo che tutte
le forme sarebbero accidentali come ritenevano gli antichi naturalisti; la
materia invece è una parte della essenza.
Secondo, perché l’essere stesso non è l’atto
proprio della materia, ma della sostanza tutta intera; infatti l’essere è
l’atto di ciò che può dirsi esistente. Ora, l’esistere non si dice della
materia da sola ma dell’insieme (de toto). Perciò non può dirsi della materia che essa sia,
ma ciò che veramente esiste è la sostanza.
Terzo. perché neppure la forma è l’essere, ma c’è fra di loro
(la forma e l’essere) un certo ordine, perché la forma si paragona all’essere
come la luce al risplendere e la bianchezza all’essere bianco. E inoltre alla
forma l’essere si rapporta come atto. Infatti, negli esseri composti di materia
e forma si dice che la forma è principio dell’essere perché è il complemento
della sostanza, il cui atto è l’essere stesso (..). Invece nelle
sostanze intellettuali (o separate), che non sono composte di materia e di
forma ma la stessa forma è in esse sostanza sussistente, la forma è ciò che
esiste; mentre l’essere è sia atto sia ciò per cui esiste la forma. Per questo
motivo vi è in esse la sola composizione di atto e potenza, composizione che
risulta dall’essenza e dall’essere (unica
tantum compositio actus et potentiae, quae
scilicet est ex substantia et esse), e da alcuni viene anche detta di ciò che è, ed essere oppure di ciò che è e ciò per cui è" (C. G., II, c. 54, nn. 1287-1293; cfr. De sub. sep., c. 1).
La teoria della
composizione (e relativa distinzione) di essenza e essere rappresenta una delle
grandi innovazioni della metafisica tomistica rispetto alla metafisica
aristotelica. Aristotele aveva ristretto l’applicazione della teoria dell’atto
e potenza (vedi: ATTO) ai due casi
della materia (potenza) e forma (atto), e della sostanza (potenza) e accidenti
(atto). S. Tommaso nei tessuti dell’ente scopre invece che c’è un altro
rapporto d’atto e potenza, quello tra la natura di una cosa (la sua essenza) e
la sua effettiva realizzazione (l’atto d’essere). Con questa singolare
scoperta egli risolve molto meglio degli ilemorfisti
seguaci di Avicebron il problema della finitudine delle creature angeliche.
4.
A dire di molti
studiosi autorevolissimi (Gilson, Masnovo,
Maritain, Fabro ecc.) la
dottrina della distinzione reale tra essenza e atto d’essere rappresenta uno
dei grandi cardini, anzi il cardine principale di tutta la costruzione
filosofica di S. Tommaso A noi pare che il vero cardine di tutto l'edificio
tomistico sia non la distinzione reale, bensì l’essere concepito
intensivamente. Tuttavia non v’è dubbio che soltanto la distinzione reale consente
a S. Tommaso di mettersi al riparo dagli errori di Parmenide,
il quale privo di tale distinzione, aveva assolutizzato
talmente l’essere da vanificare qualsiasi distinzione tra gli enti.
Tra gli stessi
discepoli di S. Tommaso la distinzione tra essenza e atto d’essere (che con
linguaggio improprio da alcuni è stato chiamato esistenza) ha costituito argomento
di vivaci dispute: e da alcuni (Egidio Romano) è stata intesa ed espressa in
termini di una distinzione eccessivamente realistica, facendo della essenza e
della esistenza due distinti modi di essere: l’esse essentiae e l’esse existentiae; mentre da altri (Suarez) è stata interpretata come una distinzione logica
con qualche fondamento nella realtà. Ma si tratta di due interpretazioni
errate: S. Tommaso concepisce certamente la distinzione tra l’essenza e l’atto
d’essere come una distinzione reale e non come una distinzione logica, ma si
tratta di una distinzione metafisica e non fisica (come la distinzione tra
anima e corpo) e di una distinzione metafisica incomparabile, perché si ha
esclusivamente tra l’essenza e l’atto d’essere.
Dalla stessa
funzione espletata dall’essenza rispetto all’essere si evince la sua
necessaria distinzione da esso, una distinzione che non può essere ridotta al
piano logico: la sua funzione è quella di limitare l’infinita perfezione
dell’essere nell’ente. Tale limitazione non viene posta dalla nostra mente ma
la nostra mente la riconosce all’essenza, e non a una essenza astratta bensì
all’essenza concreta, ossia alle essenza che sono dotate dell’atto d’essere ma
in maniera limitata.
La distinzione
reale si evince inoltre dal fatto che i rapporti tra essenza e atto d’essere
sono interpretati da S. Tommaso come rapporti tra potenza e atto, che sono due
aspetti chiaramente, realmente distinti all’interno dell’ente. E come c’è
distinzione reale tra materia e forma, sostanza e accidenti, analogamente c’è
distinzione reale tra essenza e atto d'essere.
Ma la distinzione
reale si trova enunciata esplicitamente dallo stesso S. Tommaso in numerosi
testi. Si veda in particolare: I Sent, d. 19, q.
Così S. Tommaso può
concludere contro Avicenna che certamente l’essere è
realmente distinto dall’essenza (sostanza), ma senza diventare per questo un
aspetto accidentale dell'essenza stessa. Infatti "La completezza finale
d’ogni cosa è data dalla partecipazione all’essere. Quindi l’essere è il
completamento d’ogni forma: essa infatti è completa quando ha l’essere, e ha
l’essere quando è in atto: sicché non c’è nessuna forma, se non in forza
dell’essere. Per questo affermò che l’essere sostanziale di una cosa non è un
accidente ma è !‘attualità di qualsiasi forma esistente, tanto di quelle
materiali come di quelle immateriali (Quodl., XII, q.
(Vedi: ENTE,
ESSERE, ATTO, POTENZA, METAFISICA)
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Battista Mondin.
Dizionario
enciclopedico del pensiero di S. Tommaso D'Aquino,
Edizioni
Studio Domenicano, Bologna.