DOMINUS
JESUS
INTERVISTA
al Cardinal Ratzinger
Il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung aveva
invitato l'Em.mo Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede, a rispondere in un'intervista pubblicata il 22 settembre
2000 alle principali obiezioni sollevate contro la Dichiarazione "Dominus Iesus". Anche
se le domande e le risposte riflettono il contesto tedesco, il testo
dell'intervista offre chiarifìcazioni valide ed utili oltre questo contesto.
Perciò L'Osservatore Romano
pubblica il testo dell'intervista tradotto in italiano per i suoi
lettori, omettendo le parti che interessano soltanto la situazione particolare
tedesca.
Signor Cardinale, Lei è a
capo di una struttura nella quale "esistono tendenze alla ideologizzazione e
alla penetrazione eccessiva di elementi di fede stranieri e
fondamentalisti?". Il rimprovero è contenuto in una comunicazione diffusa
la scorsa settimana dalla sezione tedesca della Società Europea per la Teologia
Cattolica.
"Devo
confessare di essere molto annoiato da questo tipo di dichiarazioni. Conosco a
memoria da molto tempo questo vocabolario, nel quale i concetti di
fondamentalismo, centralismo romano e assolutismo non mancano mai. Certe
dichiarazioni potrei formularle da solo senza neanche aspettare di riceverle,
perché si ripetono ogni volta indipendentemente dall'argomento che si tratta. Mi
chiedo per quale motivo non escogitino mai qualcosa di
nuovo".
Sta dicendo che le critiche sono false
perché ripetute troppo spesso?
"No.
Solo che in questo tipo di critica predefinita manca la trattazione dei vari
argomenti. Alcuni muovono critiche con tanta facilità perché considerano tutto
ciò che viene da Roma dal punto di vista della politica e della spartizione del
potere e non affrontano i contenuti".
In effetti i contenuti sono abbastanza
esplosivi. Si stupisce veramente del fatto che un documento nel quale si
pretende che solo il cristianesimo sia depositario della verità e agli anglicani
e ai protestanti viene disconosciuto lo status ecclesiale incontri tanta
opposizione?
"Innanzitutto
desidero esprimere la mia tristezza e la mia delusione per il fatto che le
reazioni pubbliche, a parte alcune lodevoli eccezioni, hanno ignorato
completamente il tema vero e proprio della dichiarazione. Il documento comincia
con le parole "Dominus Jesus"; si tratta della breve formula di fede contenuta
nella Prima Lettera ai Corinzi versetto 12, 3, in cui Paolo ha riassunto
l'essenza del cristianesimo: Gesù è il Signore. Con questa Dichiarazione, la cui
redazione ha seguito fase per fase con molta attenzione, il Papa ha voluto
offrire al mondo un grande e solenne riconoscimento di Gesù Cristo come Signore
nel momento culminante dell'Anno Santo, portando così con fermezza l'essenziale
al centro di questa occasione, sempre soggetta a
esteriorizzazioni".
Il risentimento di
molti riguarda proprio questa "fermezza". Nel momento culminante dell'Anno Santo
non sarebbe stato più opportuno inviare un segnale alle altre religioni invece
che mettersi ad autoconfermare la propria fede?
"All'inizio
di questo millennio ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da
Giovanni alla fine del sesto capitolo del suo Vangelo: Gesù aveva spiegato
chiaramente la sua natura divina nell'istituzione dell'Eucaristia. Nel versetto
66 leggiamo: "Da
allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con
lui". Oggi nei discorsi generali la
fede in Cristo rischia di appiattirsi e di disperdersi in chiacchiere. Con
questo documento, il Santo Padre, quale Successore dell'Apostolo Pietro, ha
inteso dire: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi
abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Gv 6, 68 e seg.). Il documento vuole
essere un invito a tutti i cristiani ad aprirsi nuovamente al riconoscimento di
Gesù Cristo come Signore e a conferire cosi all'Anno Santo un significato
profondo. Mi ha fatto piacere che il Presidente delle Chiese protestanti della
Germania Kock nella sua reazione, peraltro molto composta, abbia riconosciuto
questo elemento importante del testo e lo abbia paragonato alla Dichiarazione di
Barmen, con la quale nel 1934 la "Bekennende Kirche", ai suoi inizi, rifiutò la
Chiesa del Reich creata da Hitler. Anche il prof. Jüngel di Tubinga ha trovato
in questo testo - nonostante le sue riserve sulla parte ecclesiologica - un
respiro apostolico, simile alla Dichiarazione di Barmen. Inoltre il Primate
della Chiesa anglicana, l'Arcivescovo Carey, ha manifestato il suo sostegno
grato e deciso al vero tema della dichiarazione. Perché la maggior parte dei
commentatori invece lo trascura? Gradirei volentieri una
risposta".
L'elemento dirompente di carattere
politico-ecclesiastico è contenuto nella sezione del documento relativa
all'ecumenismo. Per la parte evangelica si è pronunciato Eberhard Jüngel,
affermando che il documento tralascia il fatto che tutte le Chiese "a loro
proprio modo" vogliono essere ciò che di fatto sono: "Chiesa una, santa,
cattolica, apostolica". Dunque la Chiesa cattolica si illude quando pretende di
avere l'esclusiva dal momento che, secondo Jüngel, condivide questi diritti con
le altre Chiese?
"Le
questioni ecclesiologiche ed ecumeniche, delle quali ora tutti parlano, occupano
solo una piccola parte del documento, che ci è parso necessario redigere per
sottolineare la presenza viva e concreta di Cristo nella Storia. Mi meraviglia
che Jüngel dica che la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica sia presente in
tutte le Chiese a loro proprio modo e con ciò (se ho capito bene) consideri
risolta la questione dell'unità della Chiesa. Queste numerose "Chiese" però si
contraddicono! Se tutte sono Chiesa a "loro proprio modo", allora questa Chiesa
è un insieme di contraddizioni e non è in grado di offrire agli uomini
indicazioni chiare".
Ma da questa impossibilità normativa deriva
anche un'impossibilità effettiva?
"Che
tutte le comunità ecclesiali esistenti facciano ricorso allo stesso concetto di
Chiesa mi sembra contrario alla loro coscienza di sé. Lutero riteneva che la
Chiesa in senso teologico e spirituale non potesse incarnarsi nella grande
struttura istituzionale della Chiesa cattolica, che anzi considerava uno
strumento dell'Anticristo. Secondo la sua visione la Chiesa era presente laddove
la Parola veniva annunciata correttamente e i sacramenti erano amministrati nel
modo giusto. Lutero stesso ritenne impossibile considerare Chiesa le Chiese
locali sottoposte ai prìncipi: erano istituzioni esterne di assistenza
sicuramente necessarie, ma non Chiesa in senso teologico. E chi direbbe oggi che
strutture sorte per casualità storiche, ad esempio la Chiesa dell'AssiaWaldeck e
dello Schaumburg-Lippe, sono Chiese nello stesso modo in cui la Chiesa cattolica
ritiene di essere tale? E' chiaro che l'unione delle Chiese luterane in Germania
(VELKD) e l'unione delle Chiese protestanti in Germania (EKD) non vogliono
essere "Chiesa". A un esame realistico pare che la realtà della Chiesa per i
protestanti risieda altrove e non in quelle istituzioni chiamate Chiese
regionali. Di questo si sarebbe dovuto discutere".
Il fatto è che ormai la
parte evangelica considera la definizione "comunità ecclesiale" un'offesa. Le
dure reazioni al suo documento ne sono una chiara
dimostrazione.
"La
pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi
consideriamo queste strutture sorte da casualità storiche come Chiesa nello
stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla
successione degli apostoli nell'Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri
amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una
realtà più dinamica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione
apostolica. La questione allora non è se le Chiese esistenti siano Chiesa tutte
allo stesso modo, cosa che evidentemente non è, ma in che cosa consista o non
consista la Chiesa. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le
strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella
cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano
esserlo".
Questa questione è stata affrontata dal
Concilio Vaticano II?
"Il
Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare
il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono
Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in esse
esistono "elementi dì salvezza e
verità". Può darsi che il termine
"elementi" non sia il migliore. In ogni caso il suo
senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non
esiste in strutture, ma nell'avvenimento della predicazione e
dell'amministrazione dei sacramenti. Il modo in cui lo scontro viene condotto
ora è senz'altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la
Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i
testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere
nulla".
Invece Eberhard Jüngel
vi vede qualcosa di diverso. Il fatto che a suo tempo il Concilio Vaticano II
non avrebbe affermato che l'unica e sola Chiesa di Cristo è esclusivamente la
Chiesa romana cattolica suscita in Jüngel delle perplessità. Nella Costituzione
"Lumen gentium" si dice soltanto che la Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa
cattolica governata dal Successore di Pietro e dai, Vescovi in comunione con
lui", non esprimendo con la parola latina "subsistit" alcuna
esclusività.
"Purtroppo
ancora una volta non riesco a seguire il ragionamento dello stimato collega
Jüngel. Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta
l'espressione "subsistit" e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in
un'intervista non si può scendere nei dettagli. Pio XII nella sua Enciclica
aveva detto: la Chiesa cattolica romana "è" l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò
parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità
cattolica non c'era Chiesa. Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica,
condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale
separata da Roma sono autentiche Chiese locali, le comunità scaturite dalla
Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa
esiste nel momento in cui si verifica l'evento".
Ma allora non si
dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata in numerosi
frammenti?
"In
effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti
ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così
si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio
cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto
personale".
Forse è proprio la libertà che spetta al
cristiano a far interpretare un tale "patchwork" anche come soggettivismo o
individualismo.
"La
Chiesa cattolica, come quella ortodossa, è convinta che una definizione del
genere sia inconciliabile con la promessa di Cristo e con la fedeltà a Lui. La
Chiesa di Cristo esiste veramente e non a brandelli. Essa non è un'utopia
irraggiungibile, ma una realtà concreta. Il "subsistit" intende proprio questo:
il Signore garantisce l'esistenza della Chiesa contro tutti i nostri errori e i
nostri peccati, che senza dubbio e in maniera palese sono presenti in essa. Con
il "subsistit" si è voluto dire anche che, sebbene il Signore mantenga la sua
promessa, esiste una realtà ecclesiale anche al di fuori della comunità
cattolica ed è proprio questa contraddizione la più forte sollecitazione a
perseguire l'unità. Se il Concilio avesse voluto dire semplicemente che la
Chiesa di Gesù Cristo è anche
nella
Chiesa cattolica, avrebbe detto una banalità. Il Concilio sarebbe entrato in
netta contraddizione con tutta la storia di fede della Chiesa, il che non
sarebbe venuto in mente a nessun Padre conciliare".
Le argomentazioni di Jüngel
sono di carattere filologico e in questo senso egli ritiene che
l'interpretazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lei ha
appena esposto, sia "fuorviante". Infatti secondo la terminologia della Vecchia
Chiesa "sussiste" anche l'unico essere divino e non in una sola Persona, ma in
tre Persone. La domanda che sorge da questa riflessione è la seguente: se dunque
Dio stesso "sussiste" nella differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo e
tuttavia non si separa da se stesso, creando così tre reciproche alterità,
perché ciò non dovrebbe valere anche per la Chiesa che rappresenta il "mysterium
trinitatis" nel mondo?
"Mi
rattrista dovermi opporre ancora una volta a Jüngel. Prima di tutto bisogna
osservare che la Chiesa d'Occidente nella traduzione della formula trinitaria in
latino non ha accolto direttamente la formula orientale, nella quale Dio è un
essere in tre ipostasi ("sussistenze"), ma ha tradotto la parola ipostasi con il
termine "persona" perché in latino la parola sussistenza come tale non esisteva
e quindi non sarebbe adeguata per esprimere l'unità e la differenza fra Padre,
Figlio e Spirito Santo. Ma soprattutto sono molto determinato a lottare contro
questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero trinitario
direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in tre
divinità".
Insomma, perché non si
può paragonare "l'alterità" del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con la
diversità delle comunità ecclesiali? Quella di Jüngel non è forse una formula
affascinante e piena di armonia?
"Fra
le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che contrasti! Le tre
"Persone" costituiscono un solo Dio in un'unità autentica e somma. Quando i
Padri conciliari sostituirono la parola "è" con la parola "subsistit" lo fecero
con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da "è" (essere) è più ampio di
quello espresso da "sussistere". "Sussistere" è un modo ben preciso di essere,
ossia essere come soggetto che esiste in sé. I Padri conciliari dunque
intendevano dire che l'essere della Chiesa in quanto tale è un'entità più ampia
della Chiesa cattolica romana, ma in quest'ultima acquista, in maniera
incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio".
Facciamo un passo indietro. Colpisce la
curiosa semantica a volte presente nei documenti ecclesiali. Lei stesso ha
evidenziato che l'espressione "elementi di Verità", che è centrale nello scontro
attuale, non è proprio felice. L'espressione elementi di verità non tradisce
forse una sorta di concetto chimico di verità? La verità come sistema periodico
degli elementi? Ossia: l'idea di poter separare mediante teoremi la verità dalla
falsità o dalla verità parziale, non ha un che di prepotente, dal momento che
certi teoremi pretendono di ridurre la complessa realtà di Dio a un modello
disegnato con il compasso?
"La
costituzione ecclesiale del Concilio Vaticano II parla di "parecchi elementi di
santificazione e di verità", che si trovano al di fuori dell'organismo visibile
della Chiesa (I n. 8); il decreto sull'ecumenismo elenca alcuni di questi
elementi: "La parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza
e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili" (I
n. 3). Forse esiste un termine migliore di "elementi", ma il significato reale è
chiaro: la vita della fede, al servizio della quale è la Chiesa, è una struttura
molteplice e vi si possono distinguere diversi elementi che sono all'interno o
anche all'esterno di essa".
Ciononostante, non deve forse
sorprendere che si voglia rendere intelligibile mediante teoremi un fenomeno che
si sottrae alla verificabilità empirica come quello della fede
religiosa?
"Per
quanto riguarda la fede e il suo essere comprensibile attraverso teoremi, si
travisa il Dogma se lo si considera una raccolta di teoremi: il contenuto della
fede si esprime nella sua professione, che trova il suo momento privilegiato
nell'amministrazione del Sacramento del Battesimo, e che dunque è parte di un
processo esistenziale. E' l'espressione di un nuovo orientamento dell'esistenza
che però non ci offriamo da soli, ma che riceviamo in dono. Questo nuovo
orientamento dell'esistenza significa al contempo uscire dal nostro io e dal
nostro individualismo ed entrare in quella comunità di fedeli che si chiama
Chiesa. Il punto focale della formula del Battesimo è il riconoscimento del Dio
trinitario. Tutti i dogmi successivi non sono altro che precisazioni di questa
professione e fanno in modo che il suo orientamento di fondo, il dono di sé al
Dio vivente, resti inalterato. Solo quando si interpreta il dogma in questo
modo, lo si comprende in maniera giusta".
Ciò significa che da questa
prospettiva spirituale non si giunge più così al contenuto della
fede?
"No,
la fede cristiana ha una sua certezza contenutistica. Non è un'immersione in una
dimensione mistico - inesprimibile, nella quale non si arriva mai ai contenuti.
Il Dio, nel quale il cristiano crede, ci ha mostrato il suo volto e il suo cuore
in Gesù Cristo: si è rivelato a noi. Come ha detto san Paolo, questa concretezza
di Dio era già uno scandalo per i Greci e naturalmente lo è ancora oggi. Questo
è inevitabile".
Colpisce anche la facilità con cui proprio
in ambito ecclesiale si è inclini a mostrarsi "feriti" o "pieni di dolore" di
fronte a definizioni contenutistiche della fede. Lei, come spiega una tale
moralizzazione dello scontro intellettuale, che ormai per i teologi appare una
costante?
"Non
è solo una moralizzazione, ma anche una politicizzazione: il Magistero è
considerato un potere a cui contrapporre un altro potere. Già lo scorso secolo
Ignaz Döllinger aveva espresso l'idea che nella Chiesa al Magistero dovesse
opporsi l'opinione pubblica e che in essa i teologi dovessero svolgere un ruolo
determinante. Tuttavia, allora, i credenti si allontanarono in massa dalle
posizioni di Döllinger e sostennero il Concilio Vaticano I. Ritengo che la
durezza di certe reazioni si spieghi anche così, con il fatto che i teologi si
sentano minacciati nella loro libertà accademica e vogliano intervenire a difesa
della loro missione intellettuale. Naturalmente un ruolo determinante è svolto
anche dal clima alimentato dalla cultura secolare, che può andare più d'accordo
con il Protestantesimo che non la Chiesa cattolica".
Colgo una certa ironia quando
parla di missione intellettuale dei teologi. E allora la libertà accademica dei
teologi cattolici? L'insistere su un'ecclesialità della teologia fedele alla
dottrina non è forse un condizionamento? E nel conferimento della licenza di
insegnare la dottrina ecclesiale (nihil obstat) non manca spesso
trasparenza?
"Per
la teologia aderire alla fede della Chiesa non è una sottomissione a condizioni
estranee alla teologia. La teologia è per sua natura volta a comprendere la fede
della Chiesa, che è il presupposto della sua esistenza. Inoltre, in alcuni casi
anche i responsabili ecclesiali evangelici hanno dovuto togliere ad accademici
la missione di insegnare perché avevano abbandonato i fondamenti di questa loro
missione. Per quanto riguarda noi e il nihil obstat, dobbiamo innanzitutto ricordare che una
cattedra d'insegnamento non è un diritto per nessuno. Le Facoltà di teologia non
sono obbligate a comunicare ai singoli candidati il motivo per il quale non sono
stati scelti e a motivare la loro decisione. Comunichiamo ai nostri Vescovi per
quale motivo, secondo noi, non si può concedere il nihil obstat a un certo candidato. Spetta poi al Vescovo
decidere come comunicarlo. In un certo numero di casi si è iniziato uno scambio
epistolare con i candidati le cui spiegazioni hanno spesso reso possibile mutare
la decisione da negativa a positiva".
La critica mossa da Peter
Hünermann si incentra su quanto segue: attraverso il rafforzamento dell'obbligo
di giuramento di fedeltà si esige che i teologi e il clero ritengano validi
anche insegnamenti legati solo indirettamente alla verità di fede rivelata, ma
non esplicitamente rivelati.
"Ho
già affrontato in maniera particolareggiata le informazioni false che esistono a
questo riguardo in due miei interventi nella "Stimmen der Zeit" nel 1999 e in un
mio contributo contenuto nel libro di Wolfgang Beinert, pubblicato in quello
stesso anno, "Gott - ratlos vor dem Bösen?" e per questo sarò breve. Hünermann
rivolge la sua critica contro il cosiddetto secondo livello della professione di
fede, che distingue l'insegnamento valido e legato indissolubilmente alla
Rivelazione dalla Rivelazione vera e propria. E' assolutamente falso affermare
che i Padri del primo e del secondo Concilio Vaticano avrebbero rifiutato
espressamente questa distinzione. E' invece vero proprio il contrario. Il
concetto di Rivelazione è stato rielaborato all'inizio dell'età moderna con lo
sviluppo del pensiero storico. Si cominciò a distinguere fra ciò che era stato
effettivamente rivelato e ciò che derivava dalla Rivelazione, che non era da
quest'ultima separato, ma neanche direttamente in essa contenuto. Tale
storicizzazione del concetto di Rivelazione non era mai esistita nel Medioevo.
Questa separazione fra i due piani ha assunto forma concettuale nel Concilio
Vaticano I, mediante la distinzione fra "credenda" (da credere) e "tenenda" (a
cui attenersi). L'Arcivescovo Pilarczyk di Cincinnati ha spiegato poco fa questo
concetto nel documento "Papers from Vallembrosa Meeting" (2000). Inoltre, è
sufficiente sfogliare un qualsiasi libro di Teologia del periodo preconciliare
per vedere che c'è scritto proprio questo, anche se dettagli della elaborazione
del secondo livello rimasero motivo di discussione e lo sono ancora oggi. Il
Concilio Vaticano II ha naturalmente accolto la distinzione formulata dal
Concilio Vaticano I e l'ha rafforzata. Non riesco a capire come si possa
affermare il contrario".
Il culmine della critica non riguarda tanto
distinzioni come queste, ma piuttosto la rivendicazione della somma autorità
magisteriale di insegnamenti che godono solo dello status di "teologicamente ben
fondati", nei quali nonostante le buone basi esistono ancora obiezioni, che non
sono state completamente eliminate.
"Naturalmente
con insegnamenti a cui attenersi ("tenenda") si intende qualcosa di più di
"teologicamente ben fondati"; questi in realtà sono mutevoli. La letteratura
annovera fra questi "tenenda" gli importanti insegnamenti morali della Chiesa
(per esempio il rifiuto dell'eutanasia, del suicidio assistito), i cosiddetti
fatti dogmatici (per esempio che i Vescovi di Roma sono i Successori di San
Pietro, la legittimità dei concili ecumenici e così via)".
Torniamo ancora una volta al discusso
documento della sua Congregazione. Spesso si rimprovera alla dichiarazione
"Dominus Jesus", più che una mancanza contenutistica, una forma poco diplomatica
che irrita gli interlocutori delle altre religioni e confessioni. Il Cardinale
di Berlino Sterzinsky ha dichiarato che nella formazione teologica si richiede
di non dimenticare nei sermoni il "quando, come e dove". Nei documenti
romani pare che invece ciò sia stato dimenticato. E il Vescovo di Magonza
Lehmann ha affermato che avrebbe desiderato "un testo redatto nello stile dei grandi
testi conciliari" e si chiede fino a che punto la Congregazione per la
Dottrina della Fede abbia collaborato con le altre autorità curiali nella
formulazione del documento. A questo proposito fa riferimento al Consiglio per
il Dialogo con le Religioni non cristiane e al Consiglio per la Promozione
dell'Unità dei Cristiani.
"Per
quanto riguarda la collaborazione con le altre autorità curiali, il Presidente e
il Segretario del Consiglio per l'Unità, il Cardinale Cassidy e il Vescovo
Kasper, sono membri della nostra Congregazione, così come il Presidente del
Consiglio per il Dialogo con le Religioni, il Cardinale Arinze. Tutti loro hanno
voce in capitolo nella Congregazione come me. Il Prefetto, infatti, è solo il
primo fra pari e ha la responsabilità dello svolgimento ordinato del lavoro. I
tre membri della Congregazione che ho appena citato hanno partecipato
attivamente alla stesura del documento che più volte è stato presentato alla
riunione ordinaria dei Cardinali e una volta alla riunione plenaria, alla quale
partecipano tutti i nostri membri stranieri. Purtroppo il Cardinale Cassidy e il
Vescovo Kasper, a causa di impegni concomitanti, non hanno potuto prendere parte
ad alcune sedute, le cui date erano comunque state loro rese note con molto
anticipo. Tuttavia hanno ricevuto tutta la documentazione e sono stati
comunicati i loro voti scritti dettagliati ai partecipanti, e discussi
approfonditamente".
Hanno trovato
ascolto?
"Quasi
tutte le proposte delle due persone in questione sono state accolte, perché
naturalmente nella trattazione di questa materia per noi era molto importante
l'opinione del Consiglio per l'Unità. Inoltre, posso ben comprendere che i
Vescovi tedeschi siano particolarmente sensibili alle difficoltà che emergono
dal contesto del nostro Paese. Tuttavia, esiste anche un'altra faccia della
medaglia. Per esempio proprio in questi giorni, mentre tornavo a casa, ho
incontrato due uomini nel fiore degli anni che, venuti verso di me, mi hanno
detto: "Siamo missionari in Africa. Per quanto tempo abbiamo atteso queste
parole! Incontriamo costanti difficoltà e i missionari diminuiscono sempre di
più". La gratitudine di queste due persone che sono in prima linea nella
predicazione del Vangelo mi ha profondamente commosso. E questa è solo una delle
tante reazioni di questo tipo. La verità dà sempre fastidio e non è mai comoda.
Le parole di Gesù sono spesso terribilmente dure e formulate senza tanta
accortezza diplomatica. Walter Kasper ha detto a ragione che lo scalpore
suscitato dal documento nasconde un problema di comunicazione, perché il
linguaggio dottrinale classico, così come viene utilizzato nel nostro documento
per continuità con i testi del Concilio Vaticano II, è completamente diverso da
quello dei giornali e dei mezzi di comunicazione sociale. Ma allora il testo va
tradotto, non disprezzato".
Nel dibattito sul Documento della sua
Congregazione si è posta di nuovo la questione delle possibilità e dei limiti
dell'ecumenismo. I problemi legati al progetto ecumenico non riguardano solo
l'esistenza di una tendenza a sfumare ciò che divide e a non prendere più sul
serio le esigenze irrinunciabili di predominare di entrambe le parti. Già 15
anni fa, in un contributo contenuto nella "Theologische Quartalschrift" Lei
aveva ammonito contro il considerare "l'ecumenismo come un compito diplomatico di
natura politica" e in questo senso aveva criticato "l'ecumenismo di trattativa" del primo
periodo post-conciliare. Che cosa intendeva dire?
"Innanzitutto
distinguerei il dialogo teologico dalla trattativa di tipo politico o economico.
Nel dialogo teologico non si tratta di trovare l'accettabile e alla fine il
conveniente per entrambe le parti, ma di scoprire profonde convergenze dietro
distinte forme linguistiche e di imparare a distinguere fra quanto è legato a un
determinato periodo storico e quanto invece è fondamentale. Ciò è possibile
soprattutto quando il contesto dell'esperienza di Dio e di sé è cambiato e
quindi la lingua può essere affrontata con un certo distacco e dalle passioni
che dividono possono scaturire intuizioni fondamentali".
Può fare un
esempio?
"Nella
dottrina della giustificazione ciò è evidente: l'esperienza religiosa di Lutero
era essenzialmente condizionata dal difficile aspetto della collera di Dio e dal
desiderio della certezza del perdono e della salvezza. Tuttavia, l'esperienza
della collera di Dio si è perduta del tutto nella nostra epoca e che Dio non
possa condannare nessuno è diventata un'idea generale fra i cristiani. In un
contesto ormai così diverso si potevano ricercare i punti comuni alle due parti
partendo dalla Bibbia, che è il nostro fondamento comune. Perciò non posso
trovare alcuna contraddizione fra "Dominus Jesus" che ripete soltanto le idee
centrali del Concilio e il consenso della giustificazione. E' importante che il
dialogo si svolga con molta pazienza, con molto rispetto e soprattutto in totale
onestà. La sfida agnostica, rivolta a tutti noi, consiste nell'abbandonare i
preconcetti di tipo storico e giungere a ciò che è centrale. Per esempio,
tornando a un momento precedente del nostro colloquio, onesto è non pretendere di applicare
lo stesso concetto di Chiesa alla Chiesa cattolica e ad una delle Chiese formate
secondo i confini dei principati del passato".
Allora, dopo la
pubblicazione del suo Documento la formula ecumenica della "Diversità
riconciliata" è ancora valida?
"Accetto
il concetto di "diversità riconciliata", se con esso non si intende uguaglianza
di contenuti ed eliminazione della questione della verità al fine di
considerarci una cosa sola, anche se crediamo in cose diverse e le insegniamo.
Secondo me questo concetto è utilizzato bene se afferma che noi, nonostante i
contrasti che non ci permettono di considerarci meri frammenti di una Chiesa di
Gesù Cristo che in realtà non esisterebbe, ci incontriamo nella pace di Cristo
riconciliati l'uno con l'altro, ossia quando riconosciamo la nostra divisione
come contraddizione alla volontà del Signore e il dolore ci spinge a cercare
l'unità e implorare il Signore sapendo che abbiamo tutti bisogno del suo
amore".
Occasionalmente si leggono passaggi del
Papa e anche suoi che relativizzano la divisione della Cristianità in una
trattazione della storia della salvezza dialettica. Il Papa allora parla di
"cause metastoriche" della divisione e nel suo libro "Varcare la soglia della
speranza" si chiede: "Non potrebbe
essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e
conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di
Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero
potute venire alla luce diversamente". Così la divisione dei cristiani
sembra un compito didattico dello Spirito Santo, poiché, come dice il Papa, per
la conoscenza e l'azione umane è significativa anche una "certa dialettica". Lei
stesso scrive: "Anche se le divisioni
sono opere umane e colpe umane, esiste in esse una dimensione propria della
compagine divina". Se le cose stanno così, ci si chiede con quale diritto
si contrasta la didattica divina identificando la Chiesa di Cristo con la Chiesa
romana cattolica. Le indeterminatezze concettuali che si deplorano nel dialogo
ecumenico non esistono anche nelle speculazioni della storia della salvezza
sulla didattica di Dio?
"Questo
è un argomento difficile che riguarda la libertà umana e il governo divino. Non
esistono risposte valide in maniera assoluta perché noi non oltrepassiamo il
nostro orizzonte umano e quindi non possiamo svelare il mistero che lega questi
due elementi. Ciò che lei ha citato del Santo Padre e di me, si potrebbe
applicare grossolanamente alla nota formula secondo la quale Dio scrive anche
con righe storte. Le righe restano storte e ciò significa che le divisioni hanno
a che fare con la colpa umana. La colpa non diventa qualcosa di positivo per il
fatto che da essa può derivare un processo di maturazione quando la si
interpreta come qualcosa che si può superare con la conversione e eliminare con
il perdono. Già Paolo aveva dovuto spiegare ai Romani l'equivoco scaturito dal
suo insegnamento sulla grazia, secondo il quale dal momento che il peccato
produce grazia, allora nel peccato si può stare tranquilli (Rm 6, 19). Il fatto
che Dio possa trasformare in bene anche i nostri peccati non significa certo che
il peccato sia una cosa buona. E il fatto che Dio possa trarre frutti positivi
dalla divisione, non la trasforma in una cosa di per sé positiva. Le
indeterminatezze concettuali che di fatto esistono sono dovute all'inquietante
insondabilità del rapporto fra la libertà di peccare e la libertà della grazia.
La libertà della grazia si mostra anche nel fatto che da una parte la Chiesa non
affonda e non si disgrega in frammenti ecclesiali antitetici all'interno di un
sogno irrealizzabile. Il soggetto Chiesa per la grazia di Dio esiste e sussiste
realmente nella Chiesa cattolica; la promessa di Cristo è la garanzia che questo
soggetto non sarà mai distrutto. Ma dall'altra parte è vero che questo soggetto
è ferito, in quanto realtà ecclesiali esistono ed operano al di fuori di esso.
In ciò si delinea al massimo il dramma della colpa e l'ampiezza paradossale
della promessa di Dio. Se si rimuove questa tensione, per addivenire a formule
chiare e si afferma che tutte le comunità ecclesiali sono Chiesa e tutte sono
pur con i loro contrasti quella Chiesa una e santa, l'ecumenismo viene meno
perché non esiste più alcun motivo per ricercare l'unità
autentica".
La stessa questione si
ripropone sotto un altro aspetto: se la questione della professione religiosa
sia in rapporto con quella della salvezza personale. Perché missione, perché lo
scontro sulla "verità" e documenti vaticani, se l'uomo alla fine può giungere a
Dio attraverso tutte le vie?
"Il
Documento non riprende assolutamente la tesi soggettivistica e relativistica,
secondo la quale ognuno può divenire santo a suo modo. Questa è
un'interpretazione cinica, nella quale io percepisco disprezzo per la questione
della verità e della giusta etica. Il Documento afferma con il Concilio che Dio
dona luce ad ognuno. Chi cerca la verità si trova obiettivamente sulla via che
porta a Cristo e con ciò anche sulla via verso la comunità, nella quale egli
rimane presente alla storia, cioè alla Chiesa. Cercare la verità, ascoltare la
coscienza, purificare il proprio ascolto interiore, queste sono condizioni di
salvezza per tutti. In esse esiste un legame intimo e obiettivo con Cristo e con
la Chiesa. In questo senso si dice allora che nelle religioni esistono riti e
preghiere, che possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, occasioni o
pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di
Dio. Ma si dice anche che ciò non vale per tutti i riti. Ne esistono infatti
alcuni (chiunque conosce un po' di Storia delle Religioni non può che essere
d'accordo), che allontanano l'uomo dalla luce. Così la vigilanza e la
purificazione interiori si ottengono mediante una vita che segue la coscienza,
che aiuta a individuare le differenze, un'apertura che alla fine significa
appartenenza interiore a Cristo.Per questo il Documento può affermare che la
missione resta importante in quanto offre quella luce di cui gli uomini hanno
bisogno nella loro ricerca della verità e del bene".
Ma la domanda resta: se la
salvezza, purché, come lei ha detto, si viva ascoltando la propria coscienza, si
può ottenere mediante tutte le vie, allora la missione non perde urgenza
teologica? Infatti, la tesi del "collegamento intimo e obiettivo" di vie di
salvezza non cattoliche con Cristo cos'altro significa se non che Cristo stesso
rende superflua la distinzione fra verità di salvezza "piena" e "deficitaria",
dal momento che Egli, se è presente come strumento di salvezza, lo è sempre e
logicamente in modo "pieno"?
"Io
non ho detto che la salvezza si può ottenere mediante tutte le vie. La via della
coscienza, il tenere lo sguardo fisso sulla verità e sul bene obiettivo, è una
strada unica, anche se assume molte forme a motivo del gran numero di persone e
di situazioni. Tuttavia il bene è uno e la verità non si contraddice. Il fatto
che l'uomo non raggiunga l'uno o l'altra, non relativizza l'esigenza di verità e
di bene. Per questo non è sufficiente persistere nella religione ereditata, ma è
necessario rimanere attenti al vero bene e così essere capaci anche di superare
i confini della propria religione. Ciò ha un senso soltanto se esistono
veramente la verità e il bene. Non si potrebbe essere sulla via di Cristo se
egli non esistesse. Vivere con gli occhi del cuore aperti, purificarsi
interiormente, cercare la luce sono condizioni indispensabili per la salvezza
dell'uomo. Annunciare la verità, ossia lasciar risplendere la luce
("non sotto il
moggio, ma sul candelabro") è
assolutamente necessario".
A irritare il protestante non è il concetto
di Chiesa, ma l'interpretazione biblica di "Dominus Jesus", in cui si afferma
che "bisogna opporsi alla tendenza a
leggere e ad interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione dal
Magistero della Chiesa" e a "presupposti che ostacolano l'intelligenza e
l'accoglienza della verità rivelata". Dice Jüngel: "La rivalutazione inopportuna dell'autorìtà
del Magistero ecclesiale corrisponde a una svalutazione altrettanto inopportuna
dell'Autorità delle Sacre Scritture".
"Forte
di 500 anni di esperienza, l'esegesi moderna ha riconosciuto chiaramente,
insieme alla moderna letteratura e filosofia del linguaggio, che la semplice
autointerpretazione delle Scritture e la chiarezza che ne deriva semplicemente
non esistono. Nel 1928, Adolf von Harnack, nel suo carteggio con Erik Peterson,
dichiarò con la sua tipica crudezza che: "Il cosiddetto "principio
formale" del vecchio luteranesimo è una impossibilità critica e che al contrario
quello cattolico è il migliore". Ernst
Käsernann ha dimostrato che il canone delle Sacre Scritture in quanto tale non
fonda l'unità della Chiesa, ma la molteplicità delle confessioni. Di recente uno
degli esegeti evangelici più importanti, Ulrich Luz, ha mostrato che la
"Scrittura da sola" dà adito a tutte le possibili interpretazioni. Infine, anche
nella prima generazione della Riforma si dovette cercare "il centro della
Scrittura" per ottenere una chiave di interpretazione che non si riusciva a
estrapolare dal testo in quanto tale. Ancora un esempio pratico: nello scontro
con Gerd Lüdemann, un professore che negava la risurrezione di Cristo, la sua
divinità ecc., si è evidenziato che anche la Chiesa evangelica non può fare a
meno di una sorta di Magistero. Nello sfumare dei contorni della fede in un coro
di sforzi esegetici antitetici (esegesi materialista, femminista,
liberazionista, ecc.) appare evidente che proprio il rapporto con le professioni
di fede, quindi con la tradizione viva della Chiesa, garantisce
l'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, proteggendole dal
soggettivismo e conservandone l'originarietà e l'autenticità. Perciò il
Magistero non sminuisce l'autorità delle Sacre Scritture, ma le protegge
collocandosi in un posizione inferiore rispetto ad esse e lasciando affiorare la
fede che da esse deriva".
Quale criterio decisivo per la definizione
di "Chiesa sorella" della Chiesa cattolica romana, la Dichiarazione della sua
Congregazione indica l'accettazione della "Successione apostolica". Un
protestante come Jüngel rifiuta questo principio come non biblico. Per lui
successore degli apostoli non è il Vescovo, ma il Canone biblico. Secondo lui
chi vive secondo le Scritture è successore degli
apostoli.
"L'affermazione
che il Canone sarebbe il successore degli apostoli è un'esagerazione e mescola
cose troppo diverse fra loro. Il canone della scrittura è stato trovato dalla
Chiesa in un processo che sarebbe durato fino al quinto secolo. Il canone quindi
non esiste senza il ministero dei successori degli apostoli, e nello stesso
tempo stabilisce il criterio del loro servizio. La parola scritta non
sostituisce i testimoni vivi, così come questi ultimi non possono sostituirsi
alla parola scritta. Testimoni vivi e parola scritta rimandano l'uno all'altro.
Condividiamo la struttura episcopale della Chiesa come modo per essere in
comunione con gli Apostoli, con tutta la Chiesa antica e con le Chiese ortodosse
e ciò dovrebbe far riflettere. Quando si afferma che chi vive secondo le
Scritture è successore degli Apostoli, non si risponde alla seguente domanda:
chi decide che cosa significa vivere secondo le Scritture e chi giudica se si
viva effettivamente secondo le Scritture? La tesi secondo la quale il Successore
degli Apostoli non è il Vescovo, bensì il Canone biblico è un chiaro rifiuto del
concetto di Chiesa cattolica. Al contempo però si pretende che noi applichiamo
questo stesso concetto per definire le Chiese della riforma. Francamente è una
logica che non capisco".
(Intervista
condotta da Christian Geyer)
Testo
trascritto da L'Osservatore Romano dell'8 ottobre 2000.
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