Dio
S. Tommaso ha una
dottrina filosofica e teologica ricchissima su Dio, senza dubbio tra le più
ricche, più profonde e più complete sull’argomento...La
sua speculazione metafisica si conclude sempre con Dio; e la sua meditazione teologica
prende il via sempre da Dio. E, come avremo modo di vedere più avanti, è
proprio nella sua riflessione su Dio che la sua originalità filosofica (la
filosofia dell’essere) consegue i risultati più vistosi e più significativi.
Nelle varie opere
in cui l’Aquinate affronta la questione di Dio (I Sent., d. 3, qq.
lss.;C. G.,I,cc. l2ss.;DeVer.,qq.2e10; De Ent. et Ess.,
c. 4; Comp. Theol., cc. 3 ss.; S. Th.,
I, qq. 2 ss.) lo fa sempre seguendo lo stesso ordine:
in primo luogo studia ciò che di Dio è già accessibile alla ragione, senza il
soccorso della rivelazione: esistenza, natura, attributi e operazioni di Dio;
successivamente passa a studiare quanto di Dio e
diventato manifesto attraverso la rivelazione. Ecco come egli stesso
schematizza la trattazione nella seconda questione della Summa: "L’indagine
intorno a Dio comprenderà tre parti. Considereremo: primo, le
questioni spettanti alla divina Essenza; secondo, quelle riguardanti la
distinzione delle Persone; terzo, quelle che riguardano La derivazione delle
creature da Dio. Intorno all’Essenza divina
poi dobbiamo considerare: 1. Se Dio esista; 2. Come egli sia o meglio come non
sia; 3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla sua
operazione, cioè la scienza, la volontà e la potenza" (I,
q. 2, prol.).
Anche in questa
nostra esposizione, forzatamente schematica del pensiero del Dottore Angelico
su Dio, rispetteremo l’ordine da lui seguito, presentando anzitutto la sua
"teologia naturale" e poi la "teologia dogmatica".
Qualcuno avanzerà qualche riserva su questa articolazione della materia e la
sua suddivisione in teologia "naturale" e "dogmatica".
Qualcuno obietterà che S. Tommaso non fa mai della teologia naturale, perché
tutte le sue opere sono teologiche. Ora, di questa affermazione è vera solo la
seconda parte: è vero cioè che S. Tommaso generalmente scrive opere di
teologia e non di filosofia. Ma questo non gli impedisce affatto di fare della
filosofia, e della filosofia su Dio. Soltanto che, anziché fuori della
teologia, egli compie questa riflessione all’interno della teologia, come
momento preliminare e indispensabile della medesima. Ma non c’è nessun dubbio
che il suo discorso sull’esistenza, la natura, gli attributi
e le operazioni di Dio è un discorso squisitamente filosofico. Se ne può avere
una conferma anche nel fatto che in questa parte il suo appello a quell’autorità,
I. ESISTENZA
DI DIO
Pur vivendo in un
clima di profonda religiosità, S. Tommaso non ignora che, quanto meno in
passato, ci sono stati degli atei e che la posizione dell’ateismo ha dalla sua
qualche argomento che merita d’essere preso in considerazione.
1. Gli argomenti
dell’ateismo. Tutte le obiezioni contro l’esistenza di
Dio si possono ridurre alle seguenti: il fenomeno del male, la
possibilità di spiegare tutto con la scienza e con la libertà umana:
"Sembra che Dio non esista (videtur quod Deus non sit). Infatti:
1) Nel nome Dio si intende affermato un bene infinito. Dunque se Dio esistesse
non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c’è il male. Dunque Dio
non esiste. 2) Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause,
non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora
tutti i fenomeni che avvengono nel mondo potrebbero essere prodotti da
altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali
si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari alla
ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di
Dio" (I, q.
Com’è suo stile, S.
Tommaso non replica immediatamente alle obiezioni, ma prima si preoccupa di far
vedere che, nonostante tutte le difficoltà degli atei, ci sono argomenti molto
solidi e decisivi a favore dell’esistenza di Dio; così riesce già a liquidare,
quanto meno indirettamente, le loro obiezioni.
2. L’argomento ontologico. Tra gli innumerevoli argomenti che già la
filosofia greca e successivamente la filosofia cristiana aveva imbastito per
dimostrare l’esistenza di Dio, S. Tommaso ricorda il celebre argomento con cui
S. Anselmo aveva preteso di dimostrare l’esistenza di Dio muovendo dalla sua
essenza, intesa come "ciò di cui non si può pensare nulla di più
grande" (id quo maius cogitari
nequit). S. Tommaso disapprova l’argomento anselmiano e fa vedere che la via che pretende di
discendere dall’essenza divina fino all’esistenza non è percorribile, per il
semplice motivo che prima di provare l’esistenza di Dio la nostra mente non può
avere che una definizione nominale e non reale di Dio; e in secondo luogo
perché anche supposto che noi avessimo un concetto reale di Dio, si tratterebbe
sempre di un concetto essenzialmente negativo, perché Dio non è tanto colui di
cui non si può pensare nulla di maggiore, quanto semplicemente colui che non
si può pensare affatto: "Dico dunque che questa proposizione Dio esiste in sé stessa è di per sé evidente, perché il predicato si identifica col
soggetto; Dio, infatti, come si vedrà in seguito, è il suo stesso essere: ma
siccome noi ignoriamo l’essenza di Dio (nos non scimus de Deo quid est), per noi non è evidente, ma
necessita d’essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note,
ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti" (I, q.
3. Le Cinque Vie della Summa. Perciò, visto che non abbiamo nessuna
intuizione di Dio, né della sua essenza, né della sua esistenza, per provare
la sua esistenza occorre procedere a posteriori: prendendo in esame i fenomeni
che ci circondano (incluso lo stesso fenomeno umano) e verificare se questi
stessi fenomeni, per essere spiegati esaustivamente,
non esigano l’esistenza di Dio. Questo è il procedimento seguito costantemente
da S. Tommaso nelle sue opere, presentando argomenti nella maggior parte dei
casi già noti e familiari, ma talvolta anche adducendo argomenti nuovi,
ricavati dalla sua filosofia dell’essere.
Nella Summa, allargando fino a cinque la lista degli argomenti
dell’esistenza di Dio, che nelle altre opere non supera mai il numero di
quattro, S. Tommaso fa vedere che l’esistenza di Dio può essere provata
partendo da cinque fenomeni noti a tutti: il divenire (movimento), le cause
seconde, la contingenza, i gradi di perfezione, l’ordine dell’universo.
Nessuno di questi fenomeni è originario è incausato;
tutti manifestano una condizione di dipendenza e di carenza ontologica. Di qui la necessità di ricercare la loro
causa. E la ricerca che non vuol essere un regressus ad infinitum si conclude sempre necessariamente
con la scoperta di Dio.
La struttura delle
cinque vie è uniforme ed è di una semplicità esemplare. Essa consta di quattro
momenti:
1.- Si attira
anzitutto l’attenzione su di un determinato fenomeno di contingenza (il
divenire, la causalità subordinata o strumentale, la possibilità, i gradi di
perfezione, l’ordine).
2.- Si evidenzia il
carattere relativo, dipendente, contingente, causato d’ogni singolo fenomeno:
ciò che è mosso, è mosso da altri; le cause seconde, strumentali, sono a loro
volta causate; il possibile riceve l’essere dal necessario; i gradi ricevono
la loro perfezione dal massimo; l’ordine richiede sempre intelligenza mentre le
cose naturali ne sono prive.
3.- Si mostra che
la realtà effettiva, attuale, di un fenomeno contingente non si può spiegare
facendo intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti.
4.- Si conclude
dicendo che l’unica spiegazione plausibile del contingente è Dio: lui è il
motore immobile, la causa incausata, l’essere
necessario, il sommamente perfetto, l’intelligenza ordinatrice suprema.
Ecco ora, in breve le cinque vie:
Prima via: dal moto al motore immobile.
"La prima e la più evidente si desume
dal moto (prima autem
et manifestior via est, quae sumitur ex parte motus). E' certo infatti e
consta ai sensi, che alcune cose mutano in questo mondo. Ora tutto ciò che muta
o diviene è mutato da altri (omne autem quod movetur,
ab alio movetur)
(...). Se dunque ciò da cui deriva il
mutamento muta a sua volta, sarà necessario che anch’esso sia mutato da un
terzo e questo da un quarto, ma in ciò non si può procedere all’infinito (...). Dunque è necessario arrivare a una prima ragione del mutamento che non muti
affatto: e questo è ciò che tutti gli uomini intendono per Dio" (I, q.
Seconda via: dalle cause seconde alla Causa
Prima.
"Vediamo nelle cose che cadono
sotto i sensi un ordine di cause efficienti (invenimus enim in istis sensibilibus esse ordinem causarum efficientium);
tuttavia non si vede né è possibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa
poiché, se così fosse, una cosa dovrebbe essere prima di sé stessa, il che è
impossibile. Ma non è possibile che nelle cause efficienti si proceda all'infinito (...). Dunque è necessario porre una prima causa efficiente che
tutti chiamano Dio" (I, q.
Terza
via: è presa dal possibile e dal necessario (tertia via est sumpta ex possibili et necessario) ed è questa:
"Tra le cose (di questo mondo) noi ne
troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti
alcune cose nascono e finiscono, il che vuole dire che possono essere e non
essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tale natura siano
sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque
tutte le cose (esistenti in natura sono tali che) possono non esistere, in un
dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero,
anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste non comincia a
esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile
che qualche cosa cominciasse a esistere, e così anche
ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli
enti sono contingenti (non
omnia entia sunt possibilia),
ma nella realtà occorre che ci sia qualcosa di necessario (...). Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé
stesso necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di
necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio" (ibid,
a. 3).
Quarta via: dai gradi di perfezione all’assolutamente perfetto (quarta via sumitur
ex gradibus qui in rebus inveniuntur).
Nelle cose si
riscontrano gradi di perfezione (cose più o meno buone, più o
meno vere, più o meno belle ecc.). "Ma il grado maggiore o minore si
attribuisce alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto (...). Vi è dunque un qualche cosa che è massimamente
vero, massimamente buono, massimamente bello, e di conseguenza qualcosa che è
il supremo ente (maxime ens) (...). E questo chiamiamo Dio (ibid.).
Quinta via: dall’ordine del cosmo al supremo
Ordinatore (quinta via sumitur ex gubernatione
rerum).
"Noi
osserviamo che alcune cose prive di conoscenza, cioè i corpi fisici (corpora naturalia),
tuttavia operano per un fine, come risulta dal fatto che esse operano sempre o
quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che
non a caso, ma per una predisposizione (ex
intentione) raggiungono il loro fine. Ora, ciò
che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un
essere conoscitivo e intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono
ordinate a un fine e quest’essere chiamiamo Dio" (ibid.).
Per aiutare il
lettore moderno a cogliere il senso delle cinque vie osserviamo anzitutto che
nella prima via, il moto (divenire) di cui parla S. Tommaso non è il moto
locale bensì il moto sostanziale ed entitativo; nella
seconda, la serie di cause seconde a cui si riferisce
1’Angelico non è una serie di cause dipendenti tra di loro accidentalmente,
che può essere più o meno lunga e persino indefinita, bensì di cause collegate
necessariamente in vista dell’effetto (per es. la falce, il manico, la mano, il
corpo per la falciatura del fieno); nella terza, si parla di necessità
nell’ordine dell’essere e non in quello dell’essenza; nella quarta, S. Tommaso
si riferisce alle perfezioni semplici e non alle perfezioni miste; nella
quantità, i corpi naturali abbracciano non soltanto gli esseri materiali
(acqua, aria) ma anche gli esseri viventi privi di intelligenza (i fiori, le
piante) nelle cui operazioni il finalismo è quanto mai palese.
La seconda
osservazione è che le prove di S. Tommaso non sono legate a nessuna teoria cosmologica
particolare: i fenomeni che egli prende in considerazione e i principi che egli
invoca non sono legati né a Platone, né ad Aristotele, né a Tolomeo ecc., ma appartengono all’esperienza ordinaria, e i
principi (di causalità e dell’assurdità del regressus ad jnfintum), non sono legati a nessuna
scienza e a nessuna visione cosmologica. ma sono
principi primi della metafisica.
La terza e ultima
osservazione riguarda più specificamente il principio di causalità: esso non va
inteso come mera successione e concatenazione necessaria di eventi, come accade
nella filosofia e nella scienza moderna a partire da Hume
e Kant; bensì come comunicazione della propria
perfezione da parte della causa all’effetto: è comunicazione
d’essere e non mera successione (è la comunicazione della propria realtà del
melo alla mela, della mucca al vitellino e non la mera successione del tuono
rispetto al lampo). Tale principio ha valore assoluto come il principio di non
contraddizione e funge da validissimo supporto alle argomentazioni di S.Tommaso.
Alla luce di queste
osservazioni riteniamo che le cinque vie conservino inalterato il loro valore
anche per l’uomo della civiltà cibernetica. Concediamo tuttavia, che a codesto
uomo possono risultare più comprensibili e più persuasive altre vie (le vie a
Dio sono d’altronde infinite), soprattutto quelle che partono dall’uomo stesso
anziché dal cosmo.
4. Replica agli
argomenti dell’ateismo.
Dopo avere provato
l’esistenza di Dio con argomenti di indubbio valore, l’Angelico prende in esame
gli argomenti degli atei.
All’argomento
tratto dal male, a questo punto si accontenta di replicare come segue:
"Come dice S. Agostino: “Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe
in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto
potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male”. Sicché appartiene
all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dil
mali per trarne dei beni" (I, q.
Altrettanto brevi
ma più persuasive sono le risposte dell’Aquinate alle
altre due obiezioni. A quella tratta dalla scienza che spiega le operazioni
della natura mediante le leggi naturali, S. Tommaso replica: "Certo la
natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto
la direzione di un agente superiore, e necessario che siano attribuite anche a
Dio, come a loro causa prima" (ibid., ad 2). All’obiezione relativa alla libertà umana, la
risposta è la seguente: "Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti a una causa più alta della ragione e
della volontà umana, "perché queste sono mutevoli e defettibili e tutto
ciò che è mutevole e tutto ciò che può venir meno deve essere ricondotto a una
causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato"’ (ibid.) (vedi: ARBITRIO, LIBERO).
5. Le prove dell’esistenza di Dio nelle altre opere.
La trattazione
della Summa è la più completa e la più approfondita, ma anche quanto S. Tommaso
ha scritto nelle altre opere va tenuto presente, in modo particolare, come si
vedrà, le prove dell’esistenza di Dio ricavate dalla filosofia dell’essere. La
questione dell’esistenza di Dio è affrontata in tutte le opere sistematiche a
partire dal Commento alle Sentenze fino al Compendio di Teologia; ma è
esaminata anche in alcune Questioni disputate, nell’opuscolo De ente et essentia e nel Commento al Vangelo
di S. Giovanni.
Nel Commento alle
Sentenze S. Tommaso presenta quattro prove, che egli stesso denomina: a) via causalitatis
("tutto ciò che ha l’essere dal nulla dipende da un altro dal quale
riceve l’essere"); b) via remotionis ("al di là dell’imperfetto deve esserci
il perfetto che esclude ogni mescolanza di imperfezione"); c) via eminentiae in esse ("i gradi di bontà si stabiliscono in rapporto
all’ottimo"); d) via eminentiae in cognitione
("i gradi di evidenza esigono ciò che è evidente in se stesso") (I Sent., d. 3, div. primae partis textus).
Nel De Veritate il problema dell’esistenza di
Dio è toccato un paio di volte. Nella q.
Nella S. Contra Gentiles, S. Tommaso
propone quattro vie: del divenire (motus), della causalità, dei gradi di perfezione e
dell’ordine. Le ultime tre sono esposte in modo sintetico, mentre la prima viene presentata con una lunga serie di passaggi e con
moltissimi riferimenti alla fisica aristotelica e, a rendere la cosa più
complicata, in due versioni, una diretta e l’altra indiretta (cfr. C. G., I, c. 13).
Nel De Potentia il problema dell’esistenza di Dio non viene sollevato esplicitamente, ma è incluso implicitamente
nella q.
Nel Compendium
Theologiae, dato il Carattere sintetico dell’opera,
S. Tommaso propone una sola via, che corrisponde alla via del
divenire, che qui viene detta, "via visibile alla ragione" (Comp. Theol., c. 3).
Nel Prologo al
Commento al Vangelo di S. Giovanni, S. Tommaso afferma che gli antichi filosofi
sono giunti alla conoscenza di Dio in quattro modi, e basandosi sul versetto
biblico: "Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato" (Is 6, 1), li denomina rispettivamente: modo dell’autorità
(vidi Dominum),
dell’eternità (sedentem),
della dignità o nobiltà (super solium excelsum) e della
verità incomprensibile (elevatum).
Il modo dell’autorità di Dio si basa sul finalismo e
corrisponde chiaramente alla Quinta via; il modo dell’eternità è basato sulla
mutabilità (divenire delle cose) e corrisponde alla Terza via; i due modi
della dignità e della verità si basano entrambi sulla partecipazione e
coincidono praticamente con
Nel De ente et essentia (c. 4) S. Tommaso
sviluppa un importante argomento dell’esistenza di Dio a partire dalla
distinzione reale tra essenza e atto d’essere nelle creature.
6. Le vie dell’essere.
Tranne la via testé ricordata
del De ente et essentia,
tutte le altre vie percorse dall’Angelico che abbiamo passato in
rassegna sono vie "tradizionali", già elaborate da Platone (Prima e
Quarta), da Aristotele (Prima, Seconda e Quinta) da Sant'Agostino
(Quarta e Quinta), Avicenna e Maimonide
(Terza), anche se si deve riconoscere che nell’esposizione che ne dà S.
Tommaso tutto funziona con maggiore rigore e chiarezza.
Però sarebbe
davvero sorprendente se un pensatore geniale e originale come S. Tommaso,
creatore di una propria filosofia, la filosofia dell’essere, non avesse saputo
fare un proprio discorso su Dio, sulla sua esistenza, sulla
sua natura. Di solito ci si accontenta di riconoscere la sua originalità nella
definizione dell’essenza di Dio, che viene
identificata con l’esse per cui Dio è l’esse
ipsum subsistens. Ma
S. Tommaso può dire questo dell’essenza di Dio, perché già prima aveva impostato la dimostrazione dell’esistenza di Dio direttamente
sull’essere e ne aveva argomentata la sussistenza rispetto all’essere muovendo
dal modo di essere delle creature. E in effetti, negli scritti di S. Tommaso
ci sono tre prove dell’esistenza
di Dio perfettamente sintonizzate con la sua filosofia dell’essere e che,
essendo tutte centrate sull’essere, possono a buon diritto essere chiamate
prove "ontologiche". Le quali tuttavia si distinguono nettamente
dalla celebre prova ontologica anselmiana in quanto,
diversamente da quella che è a priori, sono a posteriori, in quanto muovono da
alcune osservazioni relative alle condizioni ontologiche degli enti che noi
possiamo agevolmente constatare.
Le tre
constatazioni che fungono da punto di partenza sono: gli enti hanno l’essere per
partecipazione; negli enti c’è distinzione reale tra l’essenza e l’atto
dell’essere e c’è quindi composizione; la perfezione dell’essere si trova
negli enti per gradi. È a partire da questi tre fenomeni che S. Tommaso ha
sviluppato le sue tre vie ontologiche a Dio. Data la loro originalità e la
capitale importanza che assumono nella filosofia tomistica dell’essere, non
possiamo esimerci dal riportarle integralmente; tra l’altro, come tutte le
autentiche ascese metafisiche, sono argomentazioni molto, molto brevi.
Via della
partecipazione:
"Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio
supremo. Per es., tutte le
cose calde per partecipazione si riducono al fuoco il quale è caldo per
essenza. Ora, dato che tutte le cose che sono, partecipano all’essere e sono
enti per partecipazione, occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa in virtù della sua stessa essenza, ossia che
la sua essenza sia l’essere stesso (necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum,
quod sit ipsum esse per suam essentiam, idest quod sua essentia sit suum esse). Questa cosa è
Dio, il quale è causa sufficientissima, degnissima e
perfettissima di tutte le cose: da Lui tutte le cose
che esistono partecipano all’essere" (in Joan., Prol.
n. 5).
Via della
distinzione tra essenza ed essere.
"Tutto ciò che conviene a qualche cosa o è causato dai principi della
sua natura, come la risibilità nell’uomo, o le compete in virtù di qualche
principio estrinseco, come la luce dell’aria per influsso del sole. Ora non si
può dire che l’essere di una cosa sia causato dalla sua stessa forma o essenza,
intendendo come da causa efficiente, perché così una cosa sarebbe causa di sé
stessa o produrrebbe sé stessa, cosa del tutto impossibile. E' necessario
quindi che ogni cosa in cui l’essere è diverso dalla sua natura, abbia l’essere
da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù d’un altro esige come causa
prima ciò che è per sé, ci deve essere qualche cosa che sia causa dell’essere
in tutte le altre, appunto perché essa è soltanto essere; diversamente si
andrebbe all’infinito nelle cause, avendo ogni cosa, che non è solo essere, una
causa, come s’è visto" (De ente, c. 4, n. 27).
Via della
gradualità della perfezione dell’essere negli enti.
"L’essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto
e in altre in modo meno perfetto; però non è mai presente in modo così perfetto
da identificarsi con la loro essenza, altrimenti l’essere farebbe parte della
definizione dell’essenza della cosa, il che è evidentemente falso, giacché
l’essenza di qualsiasi cosa è concepibile anche prescindendo dall’essere.
Pertanto occorre concludere che le cose ricevono l’essere da altri e
(retrocedendo nella serie delle cause) è necessario che si arrivi a qualche
cosa la cui essenza sia costituita dall’essere stesso, altrimenti si dovrebbe
andare indietro a1l’infinito" (II Sent., d. 1, q.
7. L’essenza di Dio.
Accertata l’esistenza di Dio, S. Tommaso
passa allo studio della sua essenza e della sua natura.
L’argomento
dell’essenza e della natura di Dio, in sede razionale, è ancora più arduo e più
impegnativo di quello della sua esistenza. Se infatti
nella contingenza radicale delle cose non mancano tracce inconfondibili di
quest’ultima, tuttavia esse non sono tali da consentire un’identificazione e
una definizione adeguata della realtà di Dio, della sua essenza, della sua
persona, delle sue proprietà e attributi. Infatti dal
mondo non è possibile ricavare concetti precisi, chiari e distinti del suo
autore, come dalle orme lasciate da un elefante non è possibile farsi un’idea
adeguata dell’elefante che le ha impresse. Le perfezioni infinite di Dio si manifestano sempre alla mente dell’uomo per speculum et in enigmate, sia perché sono spezzettate e frantumate in
tante piccole dosi, sia perché la nostra capacità di apprenderle è quella di
un’intelligenza finita, limitata, condizionata dalla materia e dalla storia.
Tuttavia questo non elimina la legittimità e la necessità di fare un discorso
anche sulla natura, sugli attributi e sulle operazioni di Dio, dal momento che
se ne conosce l’esistenza.
Alcuni aspetti
dell’essere di Dio risultano già chiari dalle conclusioni delle varie vie:
l’immutabilità, l’efficienza, la necessità, la perfezione e l’intelligenza. Ma
sappiamo che, oltre che con le celebri Cinque vie, S.
Tommaso è asceso a Dio anche in altri modi, in particolare percorrendo la via
dell’essere. Ora è proprio la via dell’essere che conduce S. Tommaso a scoprire
quell’aspetto di Dio che costituisce la differenza
specifica rispetto a tutte le creature, e quindi a individuare perfettamente
la sua essenza. La differenza specifica non consiste nel possedere
l’efficienza, l’intelligenza, la potenza, la perfezione, la
bontà, la verità ecc. Ciò che distingue Dio dalle creature è di non
avere l’essere per partecipazione, bensì per essenza: è l’identificazione in
lui dell’essenza con il suo essere. Ecco quindi raggiunto il concetto più
adeguato di Dio, la definizione più precisa: Dio è l’esse ipsum subsistens.
Questa espressione, secondo S. Tommaso, si applica soltanto a Dio; e perciò
non è affatto un titolo anonimo, come può sembrare a prima vista, ma è un
titolo personalissimo: anzi è il nome proprio di Dio. E questo, spiega S.
Tommaso, per tre motivi:
"Anzitutto per
il suo significato. Infatti non esprime già una
qualche forma o modo particolare di essere, ma lo stesso essere (...). In secondo luogo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi sono meno
vasti e universali (...). Infine, perché il nome Colui che è
più proprio di Dio dello stesso nome Dio, sia per la derivazione del termine,
che è l’essere, sia per l’universalità del significato" (I, q.
Per quanto concerne
l’essenza di Dio in sede filosofica la verità più importante è indubbiamente
questa: il suo possesso pieno dell’essere, proprio perché è l’essere a costituire
la sua essenza. Questo privilegio compete esclusivamente a Dio. ("Ciò che è l’essere, non è incluso perfettamente nel
concetto di nessuna creatura; infatti in qualsiasi creatura l’essere è
distinto dalla sua essenza; per questo motivo non si può dire di nessuna
creatura che il suo esistere è qualche cosa di necessario e di evidente (per se notum et secundum se) in forza dei
suoi stessi princìpi. Ma in Dio l’essere è incluso
nel concetto della sua essenza, perché in Dio l’essere e l’essenza si identificano, come dicono Boezio
e Dionigi" (De Ver. q.
II.
GLI ATTIRIBUTI DI DIO
La lunga rassegna
degli attributi di Dio che l’Angelico ci presenta in tutte le sue opere
sistematiche ha come filo conduttore il concetto intensivo dell’essere. Così
tutti gli attributi ricevono la loro giustificazione definitiva chiamando in
causa l’essere. Riassumendo, il procedimento di S. Tommaso per stabilire gli
attributi di Dio è il seguente: egli prende una perfezione, la confronta con
l’essere; controlla se si basa sull’essere stesso o se invece ottiene l’essere
solo quando si incarna in una determinata essenza. Nel
primo caso ha raggiunto un attributo di Dio, nel secondo no.
I principali attributi che S. Tommaso ottiene con questo procedimento sono i
seguenti: semplicità, infinità, perfezione, immutabilità, eternità,
onnipresenza, unicità, verità, bontà, bellezza. Ecco gli
argomenti, come sempre molto lucidi e incisivi, con
cui, avvalendosi del concetto intensivo dell’essere, egli ne giustifica
l’applicazione a Dio.
1. Semplicità: "Colui che conferisce
l’essere a tutti gli altri, per quanto concerne l’essere stesso non può
dipendere da nessun altro; infatti chi per esistere
dipende da un altro, deve ricevere l’essere da quello. e
non può certamente essere colui che dà l’essere a tutti gli altri. Ma Dio è
colui che conferisce l’essere a tutti; quindi il suo essere non dipende da
altri. Ma l’essere d’ogni composto dipende dai suoi componenti: togliendo i
componenti viene meno il composto sia come cosa sia come idea (secundum rem et secundum intellectum).
Quindi Dio non è composto. Inoltre, colui che è il principio primo dell’essere (primum principium essendi) lo possiede in modo eccellentissimo, perché ogni cosa è presente
in maniera più eccellente nella causa che nel causato. Ma il modo più eccellente
di possedere l’essere è quello per cui una cosa è
identica all’essere. Quindi Dio è il Suo essere (est suum esse), mentre nessun composto è il suo
essere, perché il suo essere dipende dai componenti e nessuno dei componenti è
l’essere stesso. Dunque Dio non è composto. Ciò deve essere ammesso assolutamente".
(I Sent., d. 8, q.
2. Perfezione: "In Dio si ritrovano le perfezioni di tutte le
cose. Perciò è anche detto universalmente perfetto (universaliter perfectus), perché non gli manca nessuna
delle perfezioni che si possono incontrare in qualsiasi genere di cose, come
dice il Commentatore. E questo si può arguire da quanto abbiamo già
dimostrato, che cioè Dio è l’essere stesso per sé sussistente (ipsum esse per se subsistens):
di qui la necessità ch’egli contenga tutta la perfezione dell’essere (totam perfectionem essendi). E' chiaro infatti
che se un corpo caldo non ha tutta la perfezione del caldo, ciò avviene perché
il calore non è partecipato in tutta la sua perfezione; ma se il calore fosse
per sé sussistente, non gli potrebbe mancare niente di ciò che forma la
perfezione del calore. Ora, Dio è lo stesso essere per sé sussistente; quindi
niente gli può mancare della perfezione dell’essere. Ma le perfezioni di tutte
le cose fanno parte della perfezione dell’essere (omnium autem perfectiones
pertinent ad perfectionem essendi),
essendo perfette le cose a seconda del modo con cui partecipano all’essere. Di
qui ne segue che a Dio non può mancare la perfezione di nessuna cosa" (I, q.
3. Infinità:
"Infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata). Ora, in certa
maniera la materia viene limitata dalla forma e a sua
volta la forma dalla materia. La materia è limitata dalla forma in quanto la
materia, prima di ricevere la forma, è in potenza a
molte forme; ma dal momento che ne riceve una, da quella viene delimitata. La
forma poi è limitata dalla materia, perché la forma, considerata in sé
stessa, è comune a molte cose; ma dal momento in cui è ricevuta nella materia, diventa forma soltanto di una determinata
cosa. Se non che, la materia riceve la sua perfezione dalla forma che la
determina, e perciò l’infinito attribuito alla materia racchiude imperfezione,
perché è come una materia senza forma. La forma invece non viene
perfezionata dalla materia, ma ne riceve piuttosto la restrizione della sua
ampiezza illimitata; quindi l’infinito che si attribuisce alla forma non delimitata
dalla materia importa essenzialmente perfezione. Ora, come abbiamo già veduto,
l’essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa
trovare (maxime formale omnium est ipsum
esse). Quindi, siccome l’essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio è il suo proprio essere sussistente (suum esse subsistens),
come si è precedentemente dimostrato, resta provato chiaramente che Dio è infinito
e perfetto" (I, q.
4. Onnipresenza: "Essendo Dio l’essere
stesso per essenza (ipsum esse per suam essentiam), bisogna che l’essere creato sia l’effetto
proprio di Lui, come bruciare è l’effetto proprio del fuoco. E questo Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano a
esistere, ma fintanto che perdurano nell’essere; come la luce è causata
nell’aria dal sole finché l’aria rimane illuminata. Fino a che dunque una cosa
ha l’essere, è necessario che Dio le sia presente nella proporzione in cui essa
possiede l’essere. L’essere poi è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più
profondamente radicato (magis intimum et profundius), poiché, come
si è già detto, l’essere è elemento formale rispetto a tutti i princìpi e i componenti che si trovano in una data realtà.
Necessariamente dunque Dio è in tutte le cose e in maniera intima (Deus est in omnibus rebus, et intime)" (I, q. 8, q.
1).
5. Immutabilità: "Da quanto è stato precedentemente esposto si dimostra che Dio è assolutamente
immutabile (...). Infatti tutto ciò che si muove
acquista qualcosa in forza del suo movimento e arriva a ciò cui prima non
arrivava. Ora, Dio, essendo infinito e racchiudendo in sé stesso in modo
perfetto e universale la pienezza di tutto l’essere (plenitudinem perfectionis totius
esse), nulla può acquistare né estendersi a qualcosa cui prima
non arrivava; in nessun modo quindi a lui conviene il movimento. Ecco perché anche
tra gli antichi, alcuni, quasi costretti dalla stessa verità affermarono
l’immutabilità del primo principio" (I, q.
6. Eternità: "La nozione di eternità
nasce dall’immutabilità, come quella di tempo deriva dal movimento, come
risulta da ciò che è stato detto. Quindi essendo Dio sommamente
immutabile, a lui in modo assoluto compete d’essere eterno. E non è soltanto
eterno, ma è anche la sua stessa eternità, mentre nessun’altra
cosa è la propria durata, perché non è il proprio essere. Dio invece è il suo
stesso essere uniforme (Deus est suum esse uniforme), e
perciò com’è la sua essenza così è la sua eternità". (I,
q.
7. Unità:
"L’uno è l’ente indiviso (ens indivisum). Perciò perché una cosa sia massimamente una occorre che sia massimamente ente e massimamente indivisa. Ora, l’una e l’a!tra
condizione si verifica in Dio. Egli infatti è massimamente ente, perché non è
ente per avere un essere determinato da una qualche natura (o essenza) alla
quale sia stato unito, ma perché è lo stesso essere sussistente, illimitato
in tutti i sensi (est ipsum
esse subsistens, omnibus modis
indeterminatum). E' poi massimamente individuo,
in quanto non è divisibile per nessun genere di divisione né in atto né in
potenza, essendo semplice sotto tutti gli aspetti, come fu già dimostrato. È quindi evidente che Dio è sommamente uno" (I, q.
8. Bontà:
"Il bene è definito egregiamente da Aristotele come “ciò che tutti
desiderano”. Ora, tutte le cose desiderano di esistere nella loro piena
attualità, secondo il modo loro proprio, come risulta
dalla ripugnanza naturale che hanno alla distruzione; quindi l’esistenza in
atto (esse actu)
costituisce la ragione essenziale del bene. Per questo, dalla
privazione dell’atto nella potenza consegue un male, come dimostra Aristotele
(Met. IX, lect. 19). Ma Dio è ente totalmente in
atto, non in potenza come s’è visto sopra. Dunque è veramente buono (...). Anzi, da questo può ricavarsi che Dio è la stessa bontà. Infatti, per
qualunque cosa la pienezza dell’essere, ossia l’essere in atto, è ciò che
costituisce il suo bene; ora Dio non soltanto è un ente in atto, ma è il suo
stesso essere (est ipsum
suum esse) come si è dimostrato sopra. Perciò egli non
soltanto è buono, ma è la stessa bontà" (C. G., I, cc.
37-38).
III.
VITA E OPERAZIONI DI DIO
Dopo avere accertato l’esistenza di Dio, definita la sua essenza e illustrati
i suoi principali attributi, S. Tommaso passa a studiare la vita di Dio e le
sue opere. Si tratta di una vita intensissima e di una serie di operazioni
eccellenti, che si addicono al suo essere immateriale, semplice, infinito,
perfetto, buono, immutabile ecc.
A Dio competono due
ordini di operazioni:
1)
ad intra: sono quelle che
costituiscono la vita intima di Dio, e si tratta precisamente delle
operazioni del conoscere e del volere;
2)
ad extra: esse riguardano i rapporti di Dio
col mondo, e precisamente la creazione, la provvidenza e la conservazione. Qui esporremo brevemente il pensiero di S.Tommaso
sulle operazioni ad intra;
per le operazioni ad extra
rimandiamo il lettore alle rispettive voci.
La
conoscenza di Dio. Appartiene alla natura stessa dello spirito d’essere
intelligente e libero, di comunicare con gli altri e di farlo con perfetta
autonomia. La materia è cieca, tenebrosa e impenetrabile, ed è inoltre
incatenata a leggi immutabili. Invece lo spirito è luminoso e mobilissimo, va
dove vuole, è libero. È dalla condizione stessa della natura
spirituale, che compete a Dio in modo sommo, che S. Tommaso deriva immediatamente
la sua dottrina sulla conoscenza e sulla volontà di
Dio.
In quanto spirito
assoluto Dio è sommamente conoscitivo. "A
chiarimento di ciò bisogna considerare che gli esseri conoscitivi si
distinguono dagli esseri non conoscitivi in questo, che i non conoscitivi non hanno
che la propria forma; mentre quelli dotati di conoscenza sono fatti per avere
anche la forma di altre cose, giacché in chi conosce si trova l’immagine
dell’oggetto conosciuto (...). Ma la limitazione viene dalla
materia (...). Quindi, essendo Dio all’apice della
immaterialità, come risulta chiaramente da ciò che precede, ne viene che egli
sia anche all’apice del conoscere" (I, q.
Mentre
nell’uomo il conoscere è altra cosa dall’essere (ora conosce, ora non conosce),
in Dio essere e conoscere coincidono perfettamente: Dio è sempre in atto di esistere
e di conoscere e, conseguentemente, non può avere che sé medesimo come oggetto
intelligibile, adeguato e sempre presente: perciò Dio conosce sé in se stesso. E si conosce perfettamente, cioè conosce totalmente se
stesso. Conoscendosi perfettamente, Egli conosce anche ciò a
cui può estendersi la sua virtù, conosce quindi tutte le cose, essendone
la causa, e le conosce non con cognizione generica, ma distinta e propria, e in
se stesso vede anche le cose tutte insieme, mentre l’uomo conosce le cose una
dopo l’altra, con scienza discorsiva (cfr. I, q. 14, aa. 2-7).
Dio
sa tutto quello che può fare lui e anche quello che possono fare,
dire, pensare le creature; e, siccome Dio è eterno e per lui tutto è
presente, egli conosce con scienza di visione quello
che è presente o fu o sarà; invece conosce con scienza di semplice intelligenza quello che non è presente e neppure fu o sarà, ma resta soltanto possibile. Conoscendo il
bene Dio conosce anche il male, che è o corruzione del bene o mancanza del bene
(cfr. 1, q. 14, aa. 9-10).
In Dio la
conoscenza delle cose, in quanto le si aggiunge la
volontà, è causa delle cose e le cose esistono in quanto Dio le conosce e non
già Dio le conosce perché esistono (cfr. I, q.
2. La volontà di Dio. S. Tommaso prova che
a Dio compete oltre all’operazione del conoscere anche quella del volere,
richiamandosi al principio che ogni essere possiede l’inclinazione verso ciò
che giova alla propria autorealizzazione.
"Questa tendenza al bene negli esseri privi di conoscenza si chiama appetito naturale. E così anche gli
esseri intelligenti hanno una simile inclinazione al bene appreso mediante una
specie intelligibile, in maniera che quando hanno questo bene, vi si riposano,
quando non l’hanno lo ricercano.
Questa duplice operazione appartiene alla volontà. Quindi in ogni essere che ha
l’intelletto, c’è la volontà, come in ogni essere dotato di senso c’è
l’appetito sensitivo. Perciò è necessario ammettere che in Dio vi è la volontà,
essendovi l’intelletto. E come il suo conoscere coincide con l’essere, cosi è
per il suo volere" (I, q.
Come l’oggetto del
conoscere divino è anzitutto e soprattutto il proprio essere (Dio si diletta
nella contemplazione di sé stesso) altrettanto oggetto primario e principale
della volontà divina è l’infinita ricchezza del suo essere: Dio si compiace e
gusta le perfezioni superlative e meravigliose del proprio essere. Infatti oggetto della volontà è il bene conosciuto. Ora il
primo oggetto conosciuto da Dio è l’essenza divina. Dunque l’essenza divina è
il termine a cui principalmente si dirige la volontà
divina (...). Inoltre, per qualsiasi essere volente,
l’oggetto principale voluto è il suo ultimo fine; poiché il fine è voluto in se stesso, e per esso si vogliono le altre cose
(i mezzi). Ora l’ultimo fine è Dio stesso, perché è il sommo bene; quindi egli
è il principale oggetto voluto dalla sua
volontà" (C. G., I, c. 74).
Ma Dio non vuole e
non ama soltanto sé stesso; con un unico atto egli vuole e ama oltre che sé
stesso anche le cose, ma non allo stesso modo. Come infatti
conosce le cose solo come imitazioni della divina essenza, così vuole e ama le
cose come partecipazioni della divina bontà. Mentre però Dio vuole sé stesso
necessariamente, le cose le vuole liberamente. "La volontà divina ha un
rapporto necessario alla sua bontà, la quale è il suo oggetto proprio. Dio
vuole dunque necessariamente che esista la sua bontà, come la nostra volontà
necessariamente vuole la felicità. Tutte le altre cose Dio le vuole in quanto
sono ordinate alla sua bontà, come a loro fine (...). Siccome però la
bontà di Dio è assolutamente perfetta in se stessa e può stare senza tutto il
resto, non traendo da esso nessun accrescimento di perfezione, ne segue che
volere le cose da sé distinte non è necessario per Iddio di necessità assoluta.
Tuttavia può divenire necessario in forza di un’ipotesi: supposto infatti che Dio le voglia, non può non volerle, perché la
sua volontà non può mutare" (I, q.
Studiando la
volontà di Dio, S. Tommaso affronta anche il tormentoso problema del male e
questa volta lo fa in modo più profondo ed esauriente di quanto non avesse inteso fare replicando a coloro che invocavano il
fenomeno del male per negare l’esistenza di Dio (cfr.
I, q.
IV. TRINITA'
Già attingibile dalla ragione attraverso le vie della
teologia naturale e della religione, il mistero di Dio assume lineamenti più
definiti e più avvincenti attraverso
Del mistero della Trinità, in quel possente capolavoro
speculativo che è il De Trinitate, S. Agostino aveva
detto praticamente tutto quello che alla mente umana è consentito di dire:
egli aveva trovato le formule giuste e le immagini appropriate per chiarire
come in Dio sia possibile a un tempo la sussistenza di tre individui distinti
e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo. La felicissima
intuizione di Agostino fu di collegare la sussistenza alla relazione: in Dio si
hanno le tre persone del Padre, Figlio, Spirito Santo grazie alla sussistenza delle relazioni della Paternità, della Filiazione, del
V. CONOSCIBILITA' E INEFFABILITA' DI
DIO
Nella Summa S. Tommaso affronta questi problemi, sempre
antichi e sempre nuovi, a metà strada del suo studio su Dio: dopo aver
trattato della esistenza, natura e attributi di Dio, e prima di iniziare la
trattazione delle sue operazioni. La questione XII chiede in che modo noi
conosciamo Dio (Quomodo Deus a nobis cognoscatur); la questione XIII tratta dei nomi di Dio
(De nominibus
Dei). Noi abbiamo preferito trasferire queste due questioni alla fine
dell’esposizione del pensiero di S. Tommaso su Dio. perché
sono questioni che non riguardano la realtà di Dio bensì i poteri che l’uomo ha
nei confronti di Dio: i poteri di conoscerlo e di nominarlo. Pertanto si
tratta di una verifica critica di quanto l’uomo pretende di fare con i suoi
concetti e con le sue parole, applicandoli a Dio. In entrambi i casi S.
Tommaso si mantiene fermamente ancorato alla sua posizione gnoseologica (e, di
conseguenza, anche semantica) del realismo moderato,
e collega sia la conoscenza sia il linguaggio umano all’esperienza sensibile.
Come s’è visto, le stesse prove dell’esistenza di Dio sono tratte
dall’esperienza. Perciò la conoscenza che l’uomo acquisisce di Dio e i nomi che
gli assegna non possono avere che un valore analogico (vedi: ANALOGIA). Nessun concetto e nessuna parola esprime direttamente e adeguatamente ciò
che Dio è in se stesso. Neppure il nome più proprio di Dio, l’Esse ipsum subsistens, ci consente di acquisire un concetto
adeguato di Dio. Esso deve passare attraverso il filtro molto stretto della via
negativa, la quale alla fine salva la res significata ma
distrugge completamente il modus significandi. Ecco due dichiarazioni molto esplicite di
S. Tommaso a questo proposito: una è tratta dalla Summa, riguarda l’origine
"empirica" e si riferisce alla purificazione di tutti i nostri concetti quando ce ne serviamo per intendere la realtà di
Dio. "Noi non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature, come
più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque termine si dica di Dio e delle
creature si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio come a principio
e causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle
cose"(1. q.
La posizione che S. Tommaso assume circa i problemi della conoscibilità e
della ineffabilità di Dio è una posizione intermedia tra un eccessivo apofatismo, che concede che su Dio si possa fare soltanto un discorso negativo, e un baldanzoso catafatismo,
troppo fiducioso nelle possibilità umane di capire e di esprimere ciò che Dio
è in se stesso.
A Maimonide, massimo esponente dell’apofatismo ai suoi tempi, S.
Tommaso replica che nella sua teoria "sparisce ogni differenza tra dire
che Dio è sapiente, e dire che Dio si adira o che Dio è fuoco. (...). Ma ciò contrasta con la posizione dei santi e dei profeti che hanno parlato
di Dio, i quali approvano l’attribuzione a Dio di determinate cose, mentre
altre le escludono; concordano che Dio è vivo, sapiente e così via, ma negano
che sia un corpo, oppure soggetto a passioni. Secondo la teoria di Maimonide si può dire e negare indiscriminatamente tutto,
senza nessuna distinzione" (De Pot., q.
A coloro, poi che credono di sapere tutto su Dio per il semplice motivo
che su di Lui riusciamo a fare innumerevoli discorsi, l’Aquinate
fa osservare che "è impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle
creature univocamente. Poiché ogni effetto che non è proporzionato alla potenza
della causa agente, ritrae una somiglianza dell’agente
non secondo la stessa natura, ma imperfettamente; in maniera che quanto negli
effetti si trova diviso e molteplice, nella causa è semplice e uniforme; così
il sole mediante un’unica energia produce nelle cose di quaggiù forme
molteplici e svariate. Allo stesso modo, come si è detto, tutte le perfezioni
delle cose, che nelle creature sono frammentarie e molteplici, in Dio preesistono
in semplice unità. Così, dunque, quando un nome che indica perfezione si
applica a una creatura, significa quella perfezione come distinta da altre,
secondo la nozione espressa dalla definizione: per es., quando il termine sapiente lo attribuiamo all’uomo, indichiamo
una perfezione distinta dall’essenza dell’uomo e dalla sua potenza e dalla sua
esistenza e da altre cose del genere. Quando invece attribuiamo questo nome a
Dio, non intendiamo indicare qualche cosa di distinto dalla sua essenza, dalla
sua potenza e dal suo essere (...). Quindi è chiaro che il termine sapiente si dice di Dio e dell’uomo non secondo
l’identico concetto formale. E così è per tutti gli altri nomi. Perciò nessun
nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature"’ (I, q.
In conclusione, nella sua dottrina sulla conoscenza di Dio e sulle
possibilità del linguaggio teologico, S. Tommaso opera una felice sintesi tra
la teologia negativa di ispirazione platonica e la teologia positiva di
ispirazione aristotelica, giungendo alla conclusione che "tutto ciò che è
conosciuto può anche essere espresso in parole (...). Ma poiché di Dio
noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo
imperfettamente, quasi balbettando" (I Sent., d. 22, q.
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Battista Mondin.
Dizionario
enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D'Aquino,
Edizioni
Studio Domenicano, Bologna.