CENTESIMUS
ANNUS
DI
GIOVANNI PAOLO II
E L’UNIVERSALE DESTINAZIONE DEI BENI
CAPITOLO
IV
30.
La dottrina della Chiesa sulla proprietà privata.
a) Leone XIII ha affermato il diritto alla proprietà
privata subordinata alla originaria destinazione comune dei beni della Terra.
Nella Rerum Novarum Leone XIII affermava con forza e con
vari argomenti, contro il socialismo del suo tempo, il carattere naturale del
diritto di proprietà privata. Tale
diritto, fondamentale per l'autonomia e lo sviluppo della persona, è stato
sempre difeso dalla Chiesa fino ai nostri giorni. Parimenti la Chiesa insegna
che la proprietà dei beni non è un diritto assoluto, ma porta inscritti nella
sua natura di diritto umano i propri limiti. Mentre proclamava il diritto di
proprietà privata, il Pontefice affermava con pari chiarezza che l'«uso» dei
beni, affidato alla libertà, è subordinato alla loro originaria destinazione
comune di beni creati ed anche alla volontà di Gesù Cristo, manifestata nel
Vangelo. Infatti scriveva: «i fortunati dunque sono ammoniti...: i ricchi
debbono tremare pensando alle minacce di Gesù Cristo...; dell'uso dei loro beni
dovranno un giorno rendere rigorosissimo conto a Dio giudice»; e, citando san
Tommaso d'Aquino, aggiungeva: «Ma se si domanda quale debba essere l'uso di
tali beni, la Chiesa non esita a rispondere che a questo proposito l'uomo non
deve possedere i beni esterni come propri, ma come comuni», perché «sopra le
leggi e i giudizi degli uomini sta la legge, il giudizio di Cristo».
b) I successori di Leone XIII hanno confermato tale
dottrina.
I successori di Leone XIII hanno ripetuto la duplice
affermazione: la necessità e, quindi, la liceità della proprietà privata ed
insieme i limiti che gravano su di essa.
Anche il Concilio Vaticano II ha riproposto la dottrina tradizionale con
parole che meritano di essere riportate esattamente: «l'uomo, usando di questi
beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo
come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non
unicamente a lui, ma anche agli altri». E poco oltre: «La proprietà privata o
un qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona del tutto
necessaria di autonomia personale e familiare e devono considerarsi come un
prolungamento della libertà umana... La stessa proprietà privata ha per sua
natura anche una funzione sociale, che si fonda sulla legge della comune
destinazione dei beni». La stessa
dottrina ho ripreso prima nel discorso alla III Conferenza dell'Episcopato
latino-americano a Puebla, e poi nelle Encicliche Laborem exercens e
Sollicitudo rei socialis.
31.
La dottrina circa l'origine dei beni.
a) La prima origine dei beni è Dio stesso.
Rileggendo tale insegnamento sul diritto di proprietà e
la destinazione comune dei beni in rapporto al nostro tempo, si può porre la
domanda circa l'origine dei beni che sostentano la vita dell'uomo, soddisfano i
suoi bisogni e sono oggetto dei suoi diritti. La prima origine di tutto ciò che
è bene è l'atto stesso di Dio che ha creato la terra e l'uomo, ed all'uomo ha
dato la terra perché la domini col suo lavoro e ne goda i frutti (Gen1,28). Dio
ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi
membri, senza escludere né privilegiare nessuno. É qui la radice
dell'universale destinazione dei beni della Terra. Questa in ragione della sua
stessa fecondità e capacità di soddisfare i bisogni dell'uomo, è il primo dono
di Dio per il sostentamento della vita umana. Ora, la terra non dona i suoi
frutti senza una peculiare risposta dell'uomo al dono di Dio, cioè senza il
lavoro: è mediante il lavoro che l'uomo, usando la sua intelligenza e la sua
libertà riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa
propria una parte della Terra, che appunto si è acquistata col lavoro. É qui
l'origine della proprietà individuale. E ovviamente egli ha anche la
responsabilità di non impedire che altri uomini abbiano la loro parte del dono
di Dio, anzi deve cooperare con loro per dominare insieme tutta la Terra.
b) La seconda origine sta nel lavoro e nella terra, da
cui deriva la proprietà individuale.
Nella storia si ritrovano sempre questi due fattori, il
lavoro e la terra al principio di ogni società umana, non sempre, però, essi
stanno nella medesima relazione tra loro. Un tempo la naturale fecondità della
terra appariva e di fatto era il principale fattore della ricchezza, mentre il
lavoro era come l'aiuto ed il sostegno di tale fecondità. Nel nostro tempo
diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo
delle ricchezze immateriali e materiali; diventa inoltre evidente come il
lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più
che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un
fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro è tanto più fecondo e produttivo, quanto
più l'uomo è capace di conoscere le potenzialità produttive della terra e di
leggere in profondità i bisogni dell'altro uomo, per il quale il lavoro è
fatto.
32.
Valore della proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere.
Ma un'altra forma di proprietà esiste, in particolare,
nel nostro tempo e riveste un'importanza non inferiore a quella della terra: è
la proprietà della conoscenza della tecnica e del sapere. Su questo tipo di
proprietà si fonda la ricchezza delle Nazioni industrializzate molto più che su
quella delle risorse naturali.
a) Il ruolo determinante del lavoro umano e delle
capacità di iniziativa e imprenditorialità.
Si è ora accennato al fatto che l'uomo lavora con gli
altri uomini partecipando ad un «lavoro sociale» che abbraccia cerchi
progressivamente più ampi. Chi produce un oggetto, lo fa in genere, oltre che
per l'uso personale, perché altri possano usarne dopo aver pagato il giusto
prezzo, stabilito di comune accordo mediante una libera trattativa. Ora,
proprio la capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e
le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli, è un'altra
importante fonte di ricchezza nella società moderna. Del resto, molti beni non
possono essere prodotti in modo adeguato dall'opera di un solo individuo, ma
richiedono la collaborazione di molti al medesimo fine. Organizzare un tale
sforzo produttivo, pianificare la sua durata nel tempo procurare che esso
corrisponda in modo positivo ai bisogni che deve soddisfare, assumendo i rischi
necessari: è, anche questo, una fonte di ricchezza nell'odierna società. Così
diventa sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano
disciplinato e creativo e--quale parte essenziale di tale lavoro--delle
capacità di iniziativa e di imprenditorialità.
b) La principale risorsa dell'uomo è l'uomo stesso.
Un tale processo, che mette concretamente in luce una
verità sulla persona incessantemente affermata dal cristianesimo, deve essere
riguardato con attenzione e favore. In effetti, la principale risorsa dell'uomo
insieme con la terra è l'uomo stesso. É la sua intelligenza che fa scoprire le
potenzialità produttive della terra e le multiformi modalità con cui i bisogni
umani possono essere soddisfatti. É il suo disciplinato lavoro, in solidale
collaborazione, che consente la creazione di comunità di lavoro sempre più
ampie ed affidabili per operare la trasformazione dell'ambiente naturale e
dello stesso ambiente umano. In questo processo sono coinvolte importanti
virtù, come la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell'assumere i
ragionevoli rischi, l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la
fortezza nell'esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per
il lavoro comune dell'azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di
fortuna.
c) Nella moderna «economia d'impresa» il fattore decisivo
è l'uomo.
La moderna economia d'impresa comporta aspetti positivi,
la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico
come in tanti altri campi. L'economia, infatti, è un settore della multiforme
attività umana, ed in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla
libertà, come il dovere di fare un uso responsabile di essa. Ma è importante
notare che ci sono differenze specifiche tra queste tendenze della moderna
società e quelle del passato anche recente. Se un tempo il fattore decisivo
della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di
macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo
stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere
scientifico la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di
intuire e soddisfare il bisogno dell'altro.
33.
I problemi posti dalla moderna economia di impresa.
a) Emarginazione di milioni di esseri umani, sradicati da
un'economia di sussistenza ed impreparati ad
operare in un'economia di impresa.
Non si possono, tuttavia, non denunciare i rischi ed i
problemi connessi con questo tipo di processo. Di fatto, oggi molti uomini,
forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di
entrare in modo effettivo ed umanamente degno all'interno di un sistema di
impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale. Essi non
hanno la possibilità di acquisire le conoscenze di base, che permettono di
esprimere la loro creatività e di sviluppare le loro potenzialità, né di
entrare nella rete di conoscenze ed intercomunicazioni, che consentirebbe di
vedere apprezzate ed utilizzate la loro qualità. Essi insomma, se non proprio
sfruttati, sono ampiamente emarginati, e lo sviluppo economico si svolge, per
così dire, sopra la loro testa, quando non restringe addirittura gli spazi già
angusti delle loro antiche economie di sussistenza. Incapaci di resistere alla
concorrenza di merci prodotte in modi nuovi e ben rispondenti ai bisogni, che
prima essi solevano fronteggiare con forme organizzative tradizionali,
allettati dallo splendore di un'opulenza ostentata, ma per loro irraggiungibile
e, al tempo stesso, stretti dalla necessità, questi uomini affollano le città
del Terzo Mondo, dove spesso sono culturalmente sradicati e si trovano in
situazioni di violenta precarietà, senza possibilità di integrazione. Ad essi
di fatto non si riconosce dignità, e talora si cerca di eliminarli dalla storia
mediante forme coatte di controllo demografico, contrarie alla dignità umana.
b) Fasce di poveri sempre più poveri.
Molti altri uomini, pur non essendo del tutto emarginati,
vivono all'interno di ambienti in cui è assolutamente primaria la lotta per il
necessario e vigono ancora le regole del capitalismo delle origini, nella
«spietatezza» di una situazione che non ha nulla da invidiare a quella dei
momenti più bui della prima fase di industrializzazione. In altri casi è ancora
la terra ad essere l'elemento centrale del processo economico, e coloro che la
coltivano, esclusi dalla sua proprietà, sono ridotti in condizioni di semi
servitù. In questi casi si può ancora
oggi, come al tempo della Rerum Novarum, parlare di uno sfruttamento inumano.
Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze
umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono
tutt'altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si
è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire
dallo stato di umiliante subordinazione.
c) Costante povertà degli abitanti dei Paesi del Terzo
Mondo rimasti isolati.
Purtroppo, la grande maggioranza degli abitanti del Terzo
Mondo vive ancora in simili condizioni. Sarebbe, però, errato intendere questo
mondo in un senso soltanto geografico. In alcune regioni ed in alcuni settori
sociali di esso sono stati attivati processi di sviluppo incentrati non tanto
sulla valorizzazione delle risorse materiali, quanto su quella della «risorsa
umana». In anni non lontani è stato sostenuto che lo sviluppo dipendesse
dall'isolamento dei Paesi più poveri dal mercato mondiale e dalla loro fiducia
nelle sole proprie forze. L'esperienza recente ha dimostrato che i Paesi che si
sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e regresso, mentre hanno conosciuto
lo sviluppo i Paesi che sono riusciti ad entrare nella generale
interconnessione delle attività economiche a livello internazionale. Sembra,
dunque, che il maggior problema sia quello di ottenere un equo accesso al mercato
internazionale, fondato non sul principio unilaterale dello sfruttamento delle
risorse naturali, ma sulla valorizzazione delle risorse umane.
d) Anche nei Paesi sviluppati esistono situazioni tipiche
del Terzo Mondo.
Aspetti tipici del Terzo Mondo però, emergono anche nei
Paesi sviluppati, dove l'incessante trasformazione dei modi di produrre e di
consumare svaluta certe conoscenze già acquisite e professionalità consolidate,
esigendo un continuo sforzo di riqualificazione e di aggiornamento. Coloro che
non riescono a tenersi al passo con i tempi possono facilmente essere
emarginati. insieme con essi lo sono gli anziani, i giovani incapaci di ben
inserirsi nella vita sociale e, in genere, i soggetti più deboli e il
cosiddetto Quarto Mondo. Anche la situazione della donna in queste condizioni è
tutt'altro che facile.
34.
Il «libero mercato» sembra lo strumento più adatto per collocare le risorse e
per rispondere ai bisogni; ma ha anche dei grossi limiti.
Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto
a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più
efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò,
tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un
potere d'acquisto, e per quelle risorse che sono «vendibili», in grado di
ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno
accesso al mercato. É stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i
bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono
oppressi periscano. É, inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano
aiutati ad acquisire le conoscenze ad entrare nel circolo delle
interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio
capacità e risorse. Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e
delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa che è dovuto
all'uomo perché è uomo in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa
dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un
contributo attivo al bene comune dell'umanità. Nei contesti di Terzo Mondo
conservano la loro validità (in certi casi è ancora un traguardo da
raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati dalla Rerum Novarum, per evitare
la riduzione del lavoro dell'uomo e dell'uomo stesso al livello di una semplice
merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le assicurazioni
sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la tutela adeguata delle
condizioni di lavoro.
35.
Un grande campo di impegno e di lotta per i sindacati nella struttura di libero
mercato.
a) Come modello alternativo: una società del lavoro
libero, dell'impresa e della partecipazione.
Si apre qui un grande e fecondo campo di impegno e di
lotta, nel nome della giustizia, per i sindacati e per le altre organizzazioni
dei lavoratori, che ne difendono i diritti e ne tutelano la soggettività,
svolgendo al tempo stesso una funzione essenziale di carattere culturale, per
farli partecipare in modo più pieno e degno alla vita della Nazione ed aiutarli
lungo il cammino dello sviluppo. In questo senso si può giustamente parlare di
lotta contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l'assoluta
prevalenza del capitale del possesso degli strumenti di produzione e della
terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell'uomo. A questa lotta contro un tale sistema non si
pone, come modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto risulta
essere un capitalismo di stato, ma una società del lavoro libero, dell'impresa
e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia
opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da
garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società.
b) La produzione di profitto non è il solo scopo
dell'impresa, ma l'esistenza della stessa come «comunità di uomini».
La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come
indicatore del buon andamento dell'azienda: quando un'azienda produce profitto;
ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i
corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia il profitto non è
l'unico indice delle condizioni dell'azienda. É possibile che i conti economici
siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più
prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad
essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi
negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo dell'impresa,
infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza
stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il
soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare
gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita
dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri
fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali
per la vita dell'impresa.
c) Rompere le barriere e i monopoli, ed assicurare a
tutti le condizioni di base che consentano di partecipare allo sviluppo.
Si è visto come è inaccettabile l'affermazione che la
sconfitta del cosiddetto «socialismo reale» lasci il capitalismo come unico
modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli
che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a
tutti--individui e Nazioni--le condizioni di base, che consentano di
partecipare allo sviluppo. Tale obiettivo richiede sforzi programmati e
responsabili da parte di tutta la comunità internazionale. Occorre che le
Nazioni più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di inserimento
nella vita internazionale, e che quelle più deboli sappiano cogliere tali
occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari assicurando la stabilità
del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la
crescita delle capacità dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori
efficienti e consapevoli delle loro responsabilità.
d) Il grave problema del debito estero dei Paesi più
poveri.
Al presente sugli sforzi positivi che sono compiuti in
proposito grava il problema, in gran parte ancora irrisolto, del debito estero
dei Paesi più poveri. É certamente giusto il principio che i debiti debbano
essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un pagamento, quando
questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame
e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti
contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. In questi casi è
necessario--come, del resto, sta in parte avvenendo--trovare modalità di alleggerimento,
di dilazione o anche di estinzione del debito, compatibili col fondamentale
diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso.
36.
Gli specifici problemi delle economie più avanzate.
Conviene ora rivolgere l'attenzione agli specifici problemi
ed alle minacce, che insorgono all'interno delle economie più avanzate e sono
connesse con le loro peculiari caratteristiche. Nelle precedenti fasi dello
sviluppo l'uomo è sempre vissuto sotto il peso della necessità: i suoi bisogni
erano pochi, fissati in qualche modo già nelle strutture oggettive della sua
costituzione corporea, e l'attività economica era orientata a soddisfarli. É
chiaro che oggi il problema non è solo di offrirgli una quantità di beni
sufficienti, ma è quello di rispondere ad una domanda di qualità: qualità delle
merci da produrre e da consumare; qualità dei servizi di cui usufruire; qualità
dell'ambiente e della vita in generale.
a) La richiesta di beni riguarda non solo la quantità, ma
anche la qualità: «il fenomeno del consumismo».
La domanda di un'esistenza qualitativamente più
soddisfacente e più ricca è in sé cosa legittima; ma non si possono non
sottolineare le nuove responsabilità ed i pericoli connessi con questa fase
storica. Nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre
operante una concezione più o meno adeguata dell'uomo e del suo vero bene:
attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata
cultura, come concezione globale della vita. É qui che sorge il fenomeno del consumismo.
Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è
necessario lasciarsi guidare da un'immagine integrale dell'uomo, che rispetti
tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a
quelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi
istinti e prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale cosciente e
libera, si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente
illeciti e spesso dannosi per la sua salute fisica e spirituale. Il sistema
economico non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere
correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani
dai nuovi bisogni indotti, che ostacolano la formazione di una matura
personalità. É perciò, necessaria ed urgente una grande opera educativa e
culturale la quale comprenda l'educazione dei consumatori ad un uso
responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di
responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle
comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche
Autorità.
b) La droga, esempio vistoso di consumo artificiale, che
sfrutta la fragilità dei deboli.
Un esempio vistoso di consumo artificiale, contrario alla
salute e alla dignità dell'uomo e certo non facile a controllare, è quello
della droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione del sistema
sociale e sottintende anch'essa una «lettura» materialistica e, in un certo
senso, distruttiva dei bisogni umani. Cosi la capacità innovativa dell'economia
libera finisce con l'attuarsi in modo unilaterale ed inadeguato. La droga come
anche la pornografia ed altre forme di consumismo, sfruttando la fragilità dei
deboli, tentano di riempire il vuoto spirituale che si è venuto a creare.
c) L'errore di mirare all'avere di più, quando torna a
svantaggio dell'essere di più. Saper fare una scelta morale e culturale.
Non è male desiderare di viver meglio, ma è sbagliato lo
stile di vita che si presume esser migliore, quando è orientato all'avere e non
all'essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare
l'esistenza in un godimento fine a se stesso.
É necessario, perciò, adoperarsi per costruire stili di vita nei quali
la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini
per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei
consumi, dei risparmi e degli investimenti. In proposito, non posso ricordare
solo il dovere della carità, cioè il dovere di sovvenire col proprio
«superfluo» e, talvolta, anche col proprio ««necessario» per dare ciò che è
indispensabile alla vita del povero. Alludo al fatto che anche la scelta di
investire in un luogo piuttosto che in un altro, in un settore produttivo
piuttosto che in un altro, è sempre una scelta morale e culturale. Poste certe
condizioni economiche e di stabilità politica assolutamente imprescindibili la
decisione di investire cioè di offrire ad un popolo l'occasione di valorizzare
il proprio lavoro, è anche determinata da un atteggiamento di simpatia e dalla
fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità umana di colui che decide.
37.
Il grave problema della questione ecologica.
a) L'uomo non può disporre a proprio arbitrio dei beni
della Terra.
Del pari preoccupante, accanto al problema del consumismo
e con esso strettamente connessa, è la questione ecologica. L'uomo, preso dal
desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in
maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita.
Alla radice dell'insensata distruzione dell'ambiente naturale c'è un errore
antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L'uomo, che scopre la sua
capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio
lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria
donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre
arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà,
come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale
da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere
Il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della creazione, l'uomo si
sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura,
piuttosto tiranneggiata che governata da lui.
b) L'umanità di oggi ha doveri verso le generazioni
future.
Si avverte in ciò, prima di tutto, una povertà o
meschinità dello sguardo dell'uomo, animato dal desiderio di possedere le cose
anziché di riferirle alla verità, e privo di quell'atteggiamento
disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l'essere e per
la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio
invisibile che le ha create. Al riguardo, l'umanità di oggi deve essere conscia
dei suoi doveri e compiti verso le generazioni future.
38.
Necessità di salvaguardare le condizioni morali per un'autentica «ecologia
umana».
Oltre all'irrazionale distruzione dell'ambiente naturale
è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell'ambiente umano, a cui peraltro
si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa
giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli «habitat»
naturali delle diverse specie animali minacciate di estinzione, perché ci si
rende conto che ciascuna di esse apporta un particolare contributo
all'equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare
le condizioni morali di un'autentica «ecologia umana». Non solo la terra è
stata data da Dio all'uomo, che deve usarla rispettando l'intenzione originaria
di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l'uomo è donato a se stesso da
Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato
dotato. Sono da menzionare, in questo contesto, i gravi problemi della moderna
urbanizzazione, la necessità di un urbanesimo preoccupato della vita delle
persone, come anche la debita attenzione ad un'«ecologia sociale» del lavoro.
L'uomo riceve da Dio la sua essenziale dignità e con essa la capacità di
trascendere ogni ordinamento della società verso la verità ed il bene. Egli,
tuttavia, è anche condizionato dalla struttura sociale in cui vive, dall'educazione
ricevuta e dall'ambiente. Questi elementi possono facilitare oppure ostacolare
il suo vivere secondo verità. Le decisioni, grazie alle quali si costituisce un
ambiente umano, possono creare specifiche strutture di peccato, impedendo la
piena realizzazione di coloro che da esse sono variamente oppressi. Demolire
tali strutture e sostituirle con più autentiche forme di convivenza è un
compito che esige coraggio e pazienza.
39.
La famiglia, fondata sul matrimonio, prima e fondamentale struttura
per
una «ecologia umana».
a) Cause di disimpegno a formarsi una famiglia stabile.
La prima e fondamentale struttura a favore dell'«ecologia
umana» è la famiglia, in seno alla quale l'uomo riceve le prime e determinanti
nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed
essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si
intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé
da parte dell'uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino
può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua
dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino. Spesso
accade, invece, che l'uomo è scoraggiato dal realizzare le condizioni autentiche
della riproduzione umana, ed è indotto a considerare se stesso e la propria
vita come un insieme di sensazioni da sperimentare anziché come un'opera da
compiere. Di qui nasce una mancanza di libertà che fa rinunciare all'impegno di
legarsi stabilmente con un'altra persona e di generare dei figli, oppure induce
a considerare costoro come una delle tante «cose» che è possibile avere o non
avere, secondo i propri gusti, e che entrano in concorrenza con altre
possibilità.
b) La famiglia va considerata come il «santuario della
vita».
Occorre tornare a considerare la famiglia come il
santuario della vita. Essa, infatti, è sacra: è il luogo in cui la vita, dono
di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici
attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica
crescita umana. Contro la cosiddetta cultura della morte, la famiglia
costituisce la sede della cultura della vita. L'ingegno dell'uomo sembra
orientarsi, in questo campo, più a limitare, sopprimere o annullare le fonti
della vita ricorrendo perfino all'aborto, purtroppo così diffuso nel mondo, che
a difendere e ad aprire le possibilità della vita stessa. Nell'Enciclica
Sollicitudo rei socialis sono state denunciate le campagne sistematiche contro
la natalità, che, in base ad una concezione distorta del problema demografico e
in un clima di «assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione delle
persone interessate», le sottopongono non di rado «a intolleranti pressioni...
per piegarle a questa forma nuova di oppressione». Si tratta di politiche che con nuove tecniche
estendono il loro raggio di azione fino ad arrivare, come in una «guerra
chimica», ad avvelenare la vita di milioni di esseri umani indifesi.
c) La libertà economica è soltanto un elemento della
libertà umana.
Queste critiche sono rivolte non tanto contro un sistema
economico, quanto contro un sistema etico-culturale. L'economia, infatti, è
solo un aspetto ed una dimensione della complessa attività umana.
Se essa è assolutizzata, se la produzione ed il consumo
delle merci finiscono con l'occupare il centro della vita sociale e diventano
l'unico valore della società, non subordinato ad alcun altro, la causa va
ricercata non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto
che l'intero sistema socio culturale, ignorando la dimensione etica e religiosa
si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione dei beni e dei
servizi. Tutto ciò si può riassumere
affermando ancora una volta che la libertà economica è soltanto un elemento
della libertà umana. Quando quella si rende autonoma, quando cioè l'uomo è
visto più come un produttore o un consumatore di beni che come un soggetto che
produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la
persona umana e finisce con l'alienarla ed opprimerla.
40.
Lo Stato ha il dovere di difendere i beni collettivi, quali l'ambiente naturale
e quello umano.
É compito dello Stato provvedere alla difesa e alla
tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la
cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato.
Come ai tempi del vecchio capitalismo lo Stato aveva il dovere di difendere i
diritti fondamentali del lavoro, così ora col nuovo capitalismo esso e l'intera
società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro,
costituiscono la cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno
conseguire legittimamente i suoi fini individuali. Si ritrova qui un nuovo
limite del mercato: ci sono bisogni collettivi e qualitativi che non possono
essere soddisfatti mediante i suoi meccanismi; ci sono esigenze umane
importanti che sfuggono alla sua logica; ci sono dei beni che, in base alla
loro natura, non si possono e non si debbono vendere e comprare. Certo, i
meccanismi di mercato offrono sicuri vantaggi: aiutano, tra l'altro, ad
utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo scambio dei prodotti e,
soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel
contratto si incontrano con quelle di un'altra persona. Tuttavia, essi
comportano il rischio di un'«idolatria» del mercato, che ignora l'esistenza dei
beni che, per loro natura, non sono né possono essere semplici merci.
41. La visione cristiana del concetto di «alienazione».
a) La concezione marxista dell'«alienazione».
Il marxismo ha criticato le società borghesi
capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l'alienazione
dell'esistenza umana. Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione
errata ed inadeguata dell'alienazione, che la fa derivare solo dalla sfera dei
rapporti di produzione e di proprietà, cioè assegnandole un fondamento
materialistico e, per di più, negando la legittimità e la positività delle
relazioni di mercato anche nell'ambito che è loro proprio. Si finisce così con
l'affermare che solo in una società di tipo collettivistico potrebbe essere
eliminata l'alienazione. Ora l'esperienza storica dei Paesi socialisti ha
tristemente dimostrato che il collettivismo non sopprime l'alienazione, ma
piuttosto l'accresce, aggiungendovi la penuria delle cose necessarie e
l'inefficienza economica.
b) Le alienazioni nel capitalismo.
L'esperienza storica dell'Occidente, da parte sua,
dimostra che, se l'analisi e la fondazione marxista dell'alienazione sono
false, tuttavia l'alienazione con la perdita del senso autentico dell'esistenza
è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo,
quando l'uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni,
anziché essere aiutato a fare l'autentica e concreta esperienza della sua
personalità. Essa si verifica anche nel lavoro, quando è organizzato in modo
tale da «massimizzare» soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa
che il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi di più o di meno
come uomo, a seconda che cresca la sua partecipazione in un'autentica comunità
solidale, oppure cresca il suo isolamento in un complesso di relazioni di
esasperata competitività e di reciproca estraniazione, nel quale egli è
considerato solo come un mezzo, e non come un fine.
c) É necessaria un'inversione tra i mezzi e i fini.
Occorre entrare in relazione di solidarietà e comunicare con gli altri.
É necessario ricondurre il concetto di alienazione alla
visione cristiana, ravvisando in esso l'inversione tra i mezzi e i fini: quando
non riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso e nell'altro,
l'uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di
entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini
per cui Dio lo ha creato. É, infatti, mediante il libero dono di se che l'uomo
diventa autenticamente se stesso, e
questo dono è reso possibile dall'essenziale «capacità di trascendenza» della
persona umana. L'uomo non può donare se stesso ad un progetto solo umano della
realtà, ad un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può
donare se stesso ad un'altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è
l'autore del suo essere ed è l'unico che può pienamente accogliere il suo
dono.
É alienato l'uomo che rifiuta di trascendere se stesso e
di vivere l'esperienza del dono di sé e della formazione di un'autentica
comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. É alienata la
società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di
consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi
di questa solidarietà interumana.
d) Oggi gli uomini si strumentalizzano vicendevolmente.
Il danno della manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa.
Nella società occidentale è stato superato lo
sfruttamento, almeno nelle forme analizzate e descritte da Carlo Marx. Non è
stata superata, invece, l'alienazione nelle varie forme di sfruttamento, quando
gli uomini si strumentalizzano vicendevolmente e, nel soddisfacimento sempre
più raffinato dei loro bisogni particolari e secondari, diventano sordi a
quelli principali ed autentici, che devono regolare anche le modalità di
soddisfacimento degli altri bisogni.
L'uomo che si preoccupa solo o prevalentemente dell'avere e del
godimento, non più capace di dominare i suoi istinti e le sue passioni e di
subordinarle mediante l'obbedienza alla verità, non può essere libero: l'obbedienza
alla verità su Dio e sull'uomo è la condizione prima della libertà,
consentendogli di ordinare i propri bisogni, i propri desideri e le modalità
del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia, di modo che il possesso
delle cose sia per lui un mezzo di crescita. Un ostacolo a tale crescita può
venire dalla manipolazione operata da quei mezzi di comunicazione di massa che
impongono, con la forza di una ben orchestrata insistenza, mode e movimenti di
opinione, senza che sia possibile sottoporre a una disamina critica le premesse
su cui essi si fondano.
42. Necessarie
distinzioni sul capitalismo come alternativa al comunismo.
Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire
che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il
capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che
cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? É forse questo il
modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del
vero progresso economico e civile? La risposta è ovviamente complessa. Se con
«capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo
fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e
della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera
creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva,
anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d'impresa», o di
«economia di mercato», o semplicemente di «economia libera». Ma se con
«capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia
non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della
libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di
questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è
decisamente negativa. La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo
fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo,
nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati,
contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini
vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo
del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare
in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C'è
anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la
quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori
condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida
fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.
43. La Chiesa
non propone modelli, ma orientamenti ideali.
La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e
veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni
storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi
concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che
si intrecciano tra loro. A tale impegno
la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina
sociale, che--come si è detto--riconosce la positività del mercato e
dell'impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano
orientati verso il bene comune. Essa riconosce anche la legittimità degli sforzi
dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi
maggiori di partecipazione nella vita dell'azienda, di modo che, pur lavorando
insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso,
«lavorare in proprio» esercitando la
loro intelligenza e libertà.
a) L'azienda come «società di capitali» e come «società
di persone».
L'integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non
contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del
lavoro stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere consolidati.
L'azienda non può esser considerata solo come una «società di capitali»; essa,
al tempo stesso, è una «società di persone», di cui entrano a far parte in modo
diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale
necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano col loro lavoro.
Per conseguire questi fini è ancora necessario un grande movimento associato dei
lavoratori il cui obiettivo è la liberazione e la promozione integrale della
persona.
b) La giusta concezione della proprietà individuale in
rapporto alla destinazione universale dei beni.
Alla luce delle «cose nuove» di oggi è stato riletto il
rapporto tra la proprietà individuale, o privata, e la destinazione universale
dei beni. L'uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della
sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come strumento le cose
del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento del
diritto all'iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il suo lavoro
l'uomo s'impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli
altri: ciascuno collabora al lavoro ed al bene altrui. L'uomo lavora per
sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della
Nazione e, in definitiva, dell'umanità tutta. Egli, inoltre, collabora al
lavoro degli altri, che operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei
fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende
progressivamente. La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale
che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa,
invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro
di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall'espansione globale del
lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione,
dall'illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della
solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha nessuna
giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini.
c) Non è legittimata la società che nega il diritto di
ognuno al lavoro e ad un giusto compenso.
L'obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria
fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto
sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non
consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione,
non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se stessa
nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare,
nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.