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LETTERA ENCICLICA
AI
VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE
INTRODUZIONE 1. « Dio è amore; chi sta
nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16).
Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con
singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l'immagine cristiana di
Dio e anche la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Inoltre, in
questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica
dell'esistenza cristiana: « Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per
noi e vi abbiamo creduto ». Abbiamo creduto all'amore di
Dio — così il cristiano può
esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano
non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un
avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò
la direzione decisiva. Nel suo Vangelo Giovanni aveva espresso
quest'avvenimento con le seguenti parole: « Dio ha tanto amato il mondo da
dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui ... abbia la vita
eterna » (3, 16). Con la centralità dell'amore, la fede cristiana ha accolto
quello che era il nucleo della fede d'Israele e al contempo ha dato a questo
nucleo una nuova profondità e ampiezza. L'Israelita credente, infatti, prega
ogni giorno con le parole del Libro del Deuteronomio, nelle quali egli
sa che è racchiuso il centro della sua esistenza: « Ascolta, Israele: il
Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio
con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze » ( 6, 4-5). Gesù
ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell'amore di Dio con
quello dell'amore del prossimo, contenuto nel Libro del Levitico: « Amerai il tuo
prossimo come te stesso » (19, 18; cfr Mc 12, 29-31). Siccome Dio ci
ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un
« comandamento », ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene
incontro. In un mondo in cui al nome di
Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell'odio e della
violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto
concreto. Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell'amore,
del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri. Ecco
così indicate le due grandi parti di questa Lettera, tra loro profondamente
connesse. La prima avrà un'indole più speculativa, visto che in essa vorrei
precisare — all'inizio del mio Pontificato — alcuni dati essenziali
sull'amore che Dio, in modo misterioso e gratuito, offre all'uomo, insieme all'intrinseco
legame di quell'Amore con la realtà dell'amore umano. La seconda parte avrà
un carattere più concreto, poiché tratterà dell'esercizio ecclesiale del
comandamento dell'amore per il prossimo. L'argomento si presenta assai vasto;
una lunga trattazione, tuttavia, eccede lo scopo della presente Enciclica. È
mio desiderio insistere su alcuni elementi fondamentali, così da suscitare
nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all'amore
divino. PRIMA PARTE L'UNITÀ DELL'AMORE Un problema di linguaggio Ricordiamo in primo luogo il
vasto campo semantico della parola « amore »: si parla di amor di patria, di
amore per la professione, di amore tra amici, di amore per il lavoro, di
amore tra genitori e figli, tra fratelli e familiari, dell'amore per il
prossimo e dell'amore per Dio. In tutta questa molteplicità di significati,
però, l'amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono
inscindibilmente e all'essere umano si schiude una promessa di felicità che
sembra irresistibile, emerge come archetipo di amore per eccellenza, al cui
confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono. Sorge
allora la domanda: tutte queste forme di amore alla fine si unificano e
l'amore, pur in tutta la diversità delle sue manifestazioni, in ultima
istanza è uno solo, o invece utilizziamo una medesima parola per indicare
realtà totalmente diverse? « Eros » e « agape » –
differenza e unità 3. All'amore tra uomo e donna,
che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s'impone
all'essere umano, l'antica Grecia ha dato il nome di eros. Diciamo già
in anticipo che l'Antico Testamento greco usa solo due volte la parola
eros, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche
relative all'amore — eros, philia (amore di amicizia) e
agape — gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel
linguaggio greco era piuttosto messa ai margini. Quanto all'amore di amicizia
(philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il
rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros,
insieme alla nuova visione dell'amore che si esprime attraverso la parola
agape, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di
essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell'amore. Nella critica
al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire
dall'illuminismo, questa novità è stata valutata in modo assolutamente
negativo. Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere
del veleno all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la
spinta a degenerare in vizio.[1] Con ciò il filosofo tedesco
esprimeva una percezione molto diffusa: 4. Ma è veramente così? Il
cristianesimo ha davvero distrutto l'eros? Guardiamo al mondo pre-
cristiano. I greci — senz'altro in analogia con altre culture — hanno visto
nell'eros innanzitutto l'ebbrezza, la sopraffazione della ragione da
parte di una « pazzia divina » che strappa l'uomo alla limitatezza della sua
esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa
sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e
la terra appaiono, così, d'importanza secondaria: « Omnia vincit amor
», afferma Virgilio nelle Bucoliche — l'amore vince tutto — e
aggiunge: « et nos cedamus amori » — cediamo anche noi all'amore.[2] Nelle religioni questo
atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la
prostituzione « sacra » che fioriva in molti templi. L'eros venne
quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino. A questa forma di religione,
che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell'unico Dio,
l'Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come
perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l'eros
come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché
la falsa divinizzazione dell'eros, che qui avviene, lo priva della sua
dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono
donare l'ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e
persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la « pazzia divina
»: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo
l'eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, « estasi » verso il
Divino, ma caduta, degradazione dell'uomo. Così diventa evidente che l'eros
ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all'uomo non il piacere
di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell'esistenza, di
quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende. 5. Due cose emergono
chiaramente da questo rapido sguardo alla concezione dell'eros nella
storia e nel presente. Innanzitutto che tra l'amore e il Divino esiste una
qualche relazione: l'amore promette infinità, eternità — una realtà più
grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma
al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel
lasciarsi sopraffare dall'istinto. Sono necessarie purificazioni e
maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo
non è rifiuto dell'eros, non è il suo « avvelenamento », ma la sua
guarigione in vista della sua vera grandezza. Ciò dipende innanzitutto dalla
costituzione dell'essere umano, che è composto di corpo e di anima. L'uomo
diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima
unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa
unificazione è riuscita. Se l'uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol
rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e
corpo perdono la loro dignità. E se, d'altra parte, egli rinnega lo spirito e
quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva, perde
ugualmente la sua grandezza. L'epicureo Gassendi, scherzando, si rivolgeva a
Cartesio col saluto: « O Anima! ». E Cartesio replicava dicendo: « O Carne!
».[3] Ma non sono né lo spirito né il
corpo da soli ad amare: è l'uomo, la persona, che ama come creatura unitaria,
di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si fondono veramente in
unità, l'uomo diventa pienamente se stesso. Solo in questo modo l'amore — l'eros
— può maturare fino alla sua vera grandezza. Oggi non di rado si rimprovera
al cristianesimo del passato di esser stato avversario della corporeità; di
fatto, tendenze in questo senso ci sono sempre state. Ma il modo di esaltare
il corpo, a cui noi oggi assistiamo, è ingannevole. L'eros degradato a
puro « sesso » diventa merce, una semplice « cosa » che si può comprare e
vendere, anzi, l'uomo stesso diventa merce. In realtà, questo non è proprio
il grande sì dell'uomo al suo corpo. Al contrario, egli ora considera il
corpo e la sessualità come la parte soltanto materiale di sé da adoperare e
sfruttare con calcolo. Una parte, peraltro, che egli non vede come un ambito
della sua libertà, bensì come un qualcosa che, a modo suo, tenta di rendere
insieme piacevole ed innocuo. In realtà, ci troviamo di fronte ad una
degradazione del corpo umano, che non è più integrato nel tutto della libertà
della nostra esistenza, non è più espressione viva della totalità del nostro
essere, ma viene come respinto nel campo puramente biologico. L'apparente
esaltazione del corpo può ben presto convertirsi in odio verso la corporeità.
La fede cristiana, al contrario, ha considerato l'uomo sempre come essere
uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda
sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà. Sì, l'eros vuole
sollevarci « in estasi » verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma
proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di
purificazioni e di guarigioni. 6. Come dobbiamo configurarci
concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come deve essere
vissuto l'amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e
divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri
dell'Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l'interpretazione oggi
prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti
d'amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale
dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il
fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare
l'« amore ». Dapprima vi è la parola « dodim » — un plurale che
esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata.
Questa parola viene poi sostituita dalla parola « ahabà », che nella
traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono « agape
» che, come abbiamo visto, diventò l'espressione caratteristica per la
concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e
ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che
diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico
prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per
l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità;
cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio,
anzi lo cerca. Fa parte degli sviluppi
dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che
esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso
dell'esclusività — « solo quest'unica persona » — e nel senso del « per
sempre ». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua
dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente,
perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì,
amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma
estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso
la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di
sé, anzi verso la scoperta di Dio: « Chi cercherà di salvare la propria vita
la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17, 33), dice Gesù —
una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr
Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25).
Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo
conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella
terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo
sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli
con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana
in genere. 7. Le nostre riflessioni,
inizialmente piuttosto filosofiche, sull'essenza dell'amore ci hanno ora
condotto per interiore dinamica fino alla fede biblica. All'inizio si è posta
la questione se i diversi, anzi opposti, significati della parola amore
sottintendessero una qualche unità profonda o se invece dovessero restare
slegati, l'uno accanto all'altro. Soprattutto, però, è emersa la questione se
il messaggio sull'amore, a noi annunciato dalla Bibbia e dalla Tradizione
della Chiesa, avesse qualcosa a che fare con la comune esperienza umana
dell'amore o non si opponesse piuttosto ad essa. A tal proposito, ci siamo
imbattuti nelle due parole fondamentali: eros come termine per
significare l'amore « mondano » e agape come espressione per l'amore
fondato sulla fede e da essa plasmato. Le due concezioni vengono spesso
contrapposte come amore « ascendente » e amore « discendente ». Vi sono altre
classificazioni affini, come per esempio la distinzione tra amore possessivo
e amore oblativo (amor concupiscentiae – amor benevolentiae), alla
quale a volte viene aggiunto anche l'amore che mira al proprio tornaconto. Nel dibattito filosofico e
teologico queste distinzioni spesso sono state radicalizzate fino al punto di
porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l'amore
discendente, oblativo, l'agape appunto; la cultura non cristiana,
invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall'amore ascendente,
bramoso e possessivo, cioè dall'eros. Se si volesse portare
all'estremo questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe
disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e
costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente
tagliato fuori dal complesso dell'esistenza umana. In realtà eros e
agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai
separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in
dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore,
tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros
inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande
promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno
domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si
preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà « esserci per »
l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti
l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo
non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non
può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve
egli stesso riceverlo in dono. Certo, l'uomo può — come ci dice il Signore —
diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv 7,
37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di
nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore
trafitto scaturisce l'amore di Dio (cfr Gv 19, 34). I Padri hanno visto
simboleggiata in vari modi, nella narrazione della scala di Giacobbe, questa
connessione inscindibile tra ascesa e discesa, tra l'eros che cerca
Dio e l'agape che trasmette il dono ricevuto. In quel testo biblico si
riferisce che il patriarca Giacobbe in sogno vide, sopra la pietra che gli
serviva da guanciale, una scala che giungeva fino al cielo, sulla quale
salivano e scendevano gli angeli di Dio (cfr Gn 28, 12; Gv 1,
51). Colpisce in modo particolare l'interpretazione che il Papa Gregorio
Magno dà di questa visione nella sua Regola pastorale. Il pastore
buono, egli dice, deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in
questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel
suo intimo, cosicché diventino sue: « per pietatis viscera in se
infirmitatem caeterorum transferat ».[4] San Gregorio, in questo contesto,
fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri
di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti
(cfr 2 Cor 12, 2-4; 1 Cor 9, 22). Inoltre indica l'esempio di
Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio
per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. «
Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori
[della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem
rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur ».[5] 8. Abbiamo così trovato una
prima risposta, ancora piuttosto generica, alle due domande suesposte: in
fondo l'« amore » è un'unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta
in volta, l'una o l'altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le
due dimensioni si distaccano completamente l'una dall'altra, si profila una
caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell'amore. E abbiamo anche
visto sinteticamente che la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o
un mondo contrapposto rispetto a quell'originario fenomeno umano che è
l'amore, ma accetta tutto l'uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per
purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni. Questa novità
della fede biblica si manifesta soprattutto in due punti, che meritano di
essere sottolineati: l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo. La novità della fede biblica 9. Vi è anzitutto la nuova
immagine di Dio. Nelle culture che circondano il mondo della Bibbia,
l'immagine di dio e degli dei rimane, alla fin fine, poco chiara e in sé
contraddittoria. Nel cammino della fede biblica diventa invece sempre più
chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema,
riassume nelle parole: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il
Signore è uno solo » (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore
del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due
fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri
dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è
creata da Lui. Certamente, l'idea di una creazione esiste anche altrove, ma
solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l'unico
vero Dio, Egli stesso, è l'autore dell'intera realtà; essa proviene dalla
potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli
è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui « fatta ». E così
appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l'uomo. La potenza
divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere
mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e
dell'amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo[6]—, ma essa stessa non ha bisogno di
niente e non ama, soltanto viene amata. L'unico Dio in cui Israele crede,
invece, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra
tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire,
proprio in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può
essere qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e
totalmente agape.[7] Soprattutto i profeti Osea ed
Ezechiele hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite
immagini erotiche. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante
le metafore del fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza, l'idolatria è
adulterio e prostituzione. Con ciò si accenna concretamente — come abbiamo
visto — ai culti della fertilità con il loro abuso dell'eros, ma al
contempo viene anche descritto il rapporto di fedeltà tra Israele e il suo
Dio. La storia d'amore di Dio con Israele consiste, in profondità, nel fatto
che Egli dona L'aspetto filosofico e
storico-religioso da rilevare in questa visione della Bibbia sta nel fatto
che, da una parte, ci troviamo di fronte ad un'immagine strettamente
metafisica di Dio: Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere;
ma questo principio creativo di tutte le cose — il Logos, la ragione
primordiale — è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore.
In questo modo l'eros è nobilitato al massimo, ma contemporaneamente
così purificato da fondersi con l'agape. Da ciò possiamo comprendere
che la ricezione del Cantico dei Cantici nel canone della
Sacra Scrittura sia stata spiegata ben presto nel senso che quei canti
d'amore descrivono, in fondo, il rapporto di Dio con l'uomo e dell'uomo con
Dio. In questo modo il Cantico dei Cantici è diventato, nella
letteratura cristiana come in quella giudaica, una sorgente di conoscenza e
di esperienza mistica, in cui si esprime l'essenza della fede biblica: sì,
esiste una unificazione dell'uomo con Dio — il sogno originario dell'uomo –,
ma questa unificazione non è un fondersi insieme, un affondare nell'oceano
anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi — Dio e l'uomo —
restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: « Chi si
unisce al Signore forma con lui un solo spirito », dice san Paolo (1 Cor
6, 17). 11. La prima novità della fede
biblica consiste, come abbiamo visto, nell'immagine di Dio; la seconda, con
essa essenzialmente connessa, la troviamo nell'immagine dell'uomo. Il
racconto biblico della creazione parla della solitudine del primo uomo, Adamo,
al quale Dio vuole affiancare un aiuto. Fra tutte le creature, nessuna può
essere per l'uomo quell'aiuto di cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie
selvatiche e a tutti gli uccelli egli abbia dato un nome, integrandoli così
nel contesto della sua vita. Allora, da una costola dell'uomo, Dio plasma la
donna. Ora Adamo trova l'aiuto di cui ha bisogno: « Questa volta essa è carne
dalla mia carne e osso dalle mie ossa » (Gn 2, 23). È possibile vedere
sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, anche
nel mito riferito da Platone, secondo cui l'uomo originariamente era sferico,
perché completo in se stesso ed autosufficiente. Ma, come punizione per la
sua superbia, venne da Zeus dimezzato, così che ora sempre anela all'altra
sua metà ed è in cammino verso di essa per ritrovare la sua interezza.[8] Nel racconto biblico non si parla di
punizione; l'idea però che l'uomo sia in qualche modo incompleto,
costituzionalmente in cammino per trovare nell'altro la parte integrante per
la sua interezza, l'idea cioè che egli solo nella comunione con l'altro sesso
possa diventare « completo », è senz'altro presente. E così il racconto
biblico si conclude con una profezia su Adamo: « Per questo l'uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una
sola carne » (Gn 2, 24). Due sono qui gli aspetti
importanti: l'eros è come radicato nella natura stessa dell'uomo;
Adamo è in ricerca e « abbandona suo padre e sua madre » per trovare la
donna; solo nel loro insieme rappresentano l'interezza dell'umanità,
diventano « una sola carne ». Non meno importante è il secondo aspetto: in un
orientamento fondato nella creazione, l'eros rimanda l'uomo al
matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e
solo così, si realizza la sua intima destinazione. All'immagine del Dio
monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un
amore esclusivo e definitivo diventa l'icona del rapporto di Dio con il suo
popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell'amore
umano. Questo stretto nesso tra eros e matrimonio nella Bibbia quasi
non trova paralleli nella letteratura al di fuori di essa. Gesù Cristo – l'amore
incarnato di Dio 12. Anche se finora abbiamo
parlato prevalentemente dell'Antico Testamento, tuttavia l'intima
compenetrazione dei due Testamenti come unica Scrittura della fede cristiana
si è già resa visibile. La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove
idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti —
un realismo inaudito. Già nell'Antico Testamento la novità biblica non
consiste semplicemente in nozioni astratte, ma nell'agire imprevedibile e in
certo senso inaudito di Dio. Questo agire di Dio acquista ora la sua forma
drammatica nel fatto che, in Gesù Cristo, Dio stesso insegue la « pecorella
smarrita », l'umanità sofferente e perduta. Quando Gesù nelle sue parabole
parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che
cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia,
queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso
essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio
contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo —
amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco
squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è
stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: « Dio è amore » (1
Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì
deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo il
cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare. 14. Ora però c'è da far
attenzione ad un altro aspetto: la « mistica » del Sacramento ha un carattere
sociale, perché nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come
tutti gli altri comunicanti: « Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane »,
dice san Paolo (1 Cor 10, 17). L'unione con Cristo è allo stesso tempo
unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo
solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono
diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso
di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani. Diventiamo « un
solo corpo », fusi insieme in un'unica esistenza. Amore per Dio e amore per
il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé.
Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome
dell'Eucaristia: in essa l'agape di Dio viene a noi corporalmente per
continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da
questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente
l'insegnamento di Gesù sull'amore. Il passaggio che Egli fa fare dalla Legge
e dai Profeti al duplice comandamento dell'amore verso Dio e verso il
prossimo, la derivazione di tutta l'esistenza di fede dalla centralità di
questo precetto, non è semplice morale che poi possa sussistere autonomamente
accanto alla fede in Cristo e alla sua riattualizzazione nel Sacramento:
fede, culto ed ethos si compenetrano a vicenda come un'unica realtà
che si configura nell'incontro con l'agape di Dio. La consueta
contrapposizione di culto ed etica qui semplicemente cade. Nel « culto »
stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l'essere amati e l'amare a
propria volta gli altri. Un' Eucaristia che non si traduca in amore
concretamente praticato è in se stessa frammentata. Reciprocamente — come
dovremo ancora considerare in modo più dettagliato — il « comandamento »
dell'amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l'amore può
essere « comandato » perché prima è donato. 15. È a partire da questo
principio che devono essere comprese anche le grandi parabole di Gesù. Il
ricco epulone (cfr Lc 16, 19-31) implora dal luogo della dannazione
che i suoi fratelli vengano informati su ciò che succede a colui che ha disinvoltamente
ignorato il povero in necessità. Gesù raccoglie per così dire tale grido di
aiuto e se ne fa eco per metterci in guardia, per riportarci sulla retta via.
La parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10, 25-37) conduce soprattutto
a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di « prossimo » era
riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che
si erano stanziati nella terra d'Israele e quindi alla comunità solidale di
un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha
bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo
viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua
estensione a tutti gli uomini, non si riduce all'espressione di un amore
generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio
impegno pratico qui ed ora. Rimane compito della Chiesa interpretare sempre
di nuovo questo collegamento tra lontananza e vicinanza in vista della vita
pratica dei suoi membri. Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare,
la grande parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25, 31-46), in cui
l'amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il
disvalore di una vita umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati,
assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. « Ogni volta che avete fatto
queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a
me » (Mt 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono
insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio. Amore di Dio e amore del
prossimo 16. Dopo aver riflettuto
sull'essenza dell'amore e sul suo significato nella fede biblica, rimane una
duplice domanda circa il nostro atteggiamento: è veramente possibile amare
Dio pur non vedendolo? E: l'amore si può comandare? Contro il duplice
comandamento dell'amore esiste la duplice obiezione, che risuona in queste
domande. Nessuno ha mai visto Dio — come potremmo amarlo? E inoltre: l'amore
non si può comandare; è in definitiva un sentimento che può esserci o non
esserci, ma che non può essere creato dalla volontà. Nello sviluppo di questo
incontro si rivela con chiarezza che l'amore non è soltanto un sentimento. I
sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa
scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore. Abbiamo all'inizio
parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni, attraverso le
quali l'eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno
significato della parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere
tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua
interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può
suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza
dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e
il nostro intelletto. Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso
l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e
sentimento nell'atto totalizzante dell'amore. Questo però è un processo che
rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai « concluso » e completato;
si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele
a se stesso. Idem velle atque idem nolle[9] — volere la stessa cosa e rifiutare
la stessa cosa, è quanto gli antichi hanno riconosciuto come autentico
contenuto dell'amore: il diventare l'uno simile all'altro, che conduce alla
comunanza del volere e del pensare. La storia d'amore tra Dio e l'uomo
consiste appunto nel fatto che questa comunione di volontà cresce in
comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà
di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una
volontà estranea, che i comandamenti mi impongono dall'esterno, ma è la mia
stessa volontà, in base all'esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me
di quanto lo sia io stesso.[10] Allora cresce l'abbandono in Dio e
Dio diventa la nostra gioia (cfr Sal 73 [72], 23-28). 18. Si rivela così possibile
l'amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste
appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non
gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo
incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando
fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra persona
non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la
prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là dell'apparenza
esteriore dell'altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di
attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le
organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica.
Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro ben più che le cose
esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha
bisogno. Qui si mostra l'interazione necessaria tra amore di Dio e amore del
prossimo, di cui SECONDA PARTE CARITAS L'ESERCIZIO DELL'AMORE La carità della Chiesa come
manifestazione dell'amore trinitario 19. « Se vedi la carità, vedi Lo Spirito è anche forza che
trasforma il cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo
testimone dell'amore del Padre, che vuole fare dell'umanità, nel suo Figlio,
un'unica famiglia. Tutta l'attività della Chiesa è espressione di un amore
che cerca il bene integrale dell'uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante
La carità come compito della
Chiesa 21. Un passo decisivo nella
difficile ricerca di soluzioni per realizzare questo fondamentale principio
ecclesiale diventa visibile in quella scelta di sette uomini che fu l'inizio
dell'ufficio diaconale (cfr At 6, 5-6). Nella Chiesa delle origini,
infatti, si era creata, nella distribuzione quotidiana alle vedove, una
disparità tra la parte di lingua ebraica e quella di lingua greca. Gli
Apostoli, ai quali erano affidati innanzitutto la « preghiera » (Eucaristia e
Liturgia) e il « servizio della Parola », si sentirono eccessivamente
appesantiti dal « servizio delle mense »; decisero pertanto di riservare a sé
il ministero principale e di creare per l'altro compito, pur necessario nella
Chiesa, un consesso di sette persone. Anche questo gruppo però non doveva
svolgere un servizio semplicemente tecnico di distribuzione: dovevano essere
uomini « pieni di Spirito e di saggezza » (cfr At 6, 1-6). Ciò
significa che il servizio sociale che dovevano effettuare era assolutamente
concreto, ma al contempo era senz'altro anche un servizio spirituale; il loro
perciò era un vero ufficio spirituale, che realizzava un compito essenziale
della Chiesa, quello dell'amore ben ordinato del prossimo. Con la formazione
di questo consesso dei Sette, la « diaconia » — il servizio dell'amore del
prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato — era ormai
instaurata nella struttura fondamentale della Chiesa stessa. 22. Con il passare degli anni e
con il progressivo diffondersi della Chiesa, l'esercizio della carità si
confermò come uno dei suoi ambiti essenziali, insieme con l'amministrazione
dei Sacramenti e l'annuncio della Parola: praticare l'amore verso le vedove e
gli orfani, verso i carcerati, i malati e i bisognosi di ogni genere
appartiene alla sua essenza tanto quanto il servizio dei Sacramenti e
l'annuncio del Vangelo. 24. Un accenno alla figura
dell'imperatore Giuliano l'Apostata († 363) può mostrare ancora una volta
quanto essenziale fosse per 25. Giunti a questo punto,
raccogliamo dalle nostre riflessioni due dati essenziali: a) L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice
compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione
dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia).
Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati
l'uno dall'altro. La carità non è per b) Giustizia e carità 26. Fin dall'Ottocento contro
l'attività caritativa della Chiesa è stata sollevata un'obiezione, sviluppata
poi con insistenza soprattutto dal pensiero marxista. I poveri, si dice, non
avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le opere di carità
— le elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi, un modo di sottrarsi
all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando
le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. Invece di
contribuire attraverso singole opere di carità al mantenimento delle
condizioni esistenti, occorrerebbe creare un giusto ordine, nel quale tutti
ricevano la loro parte dei beni del mondo e quindi non abbiano più bisogno
delle opere di carità. In questa argomentazione, bisogna riconoscerlo, c'è
del vero, ma anche non poco di errato. È vero che norma fondamentale dello
Stato deve essere il perseguimento della giustizia e che lo scopo di un
giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel rispetto del principio
di sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni. È quanto la dottrina
cristiana sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa hanno sempre
sottolineato. La questione del giusto ordine della collettività, da un punto
di vista storico, è entrata in una nuova situazione con la formazione della
società industriale nell'Ottocento. Il sorgere dell'industria moderna ha
dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa dei salariati ha
provocato un cambiamento radicale nella composizione della società,
all'interno della quale il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la
questione decisiva — una questione che sotto tale forma era prima
sconosciuta. Le strutture di produzione e il capitale erano ormai il nuovo
potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le masse lavoratrici
una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi. 27. È doveroso ammettere che i
rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema
della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo. Non mancarono
pionieri: uno di questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza (†
1877). Come risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli,
associazioni, unioni, federazioni e soprattutto nuove Congregazioni
religiose, che nell'Ottocento scesero in campo contro la povertà, le malattie
e le situazioni di carenza nel settore educativo. Nel 1891, entrò in scena il
magistero pontificio con l'Enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Vi fece
seguito, nel 28. Per definire più
accuratamente la relazione tra il necessario impegno per la giustizia e il
servizio della carità, occorre prendere nota di due fondamentali situazioni
di fatto: a) Il giusto ordine della società e dello Stato è compito
centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si
ridurrebbe ad una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino: «
Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? ».[18] Alla struttura fondamentale del
cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è
di Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come
dice il Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali.[19] Lo Stato non può imporre la
religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle
diverse religioni; La giustizia è lo scopo e
quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una
semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine
e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura
etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte
all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda
presuppone l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un
problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la
ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento
etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano,
è un pericolo mai totalmente eliminabile. In questo punto politica e fede
si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il
Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là
dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza
purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la
libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La
fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di
vedere meglio ciò che le è proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale
cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato.
Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi
di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire
alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò
che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato. La dottrina sociale della
Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a
partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è
compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina:
essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire
affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme,
la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con
situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un
giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato
ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve
nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può
essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un
compito umano primario, b) L'amore — caritas — sarà sempre necessario,
anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che
possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi
dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre
sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà
solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle
quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il
prossimo.[20] Lo Stato che vuole provvedere a
tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica
che non può assicurare l'essenziale di cui
l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l'amorevole dedizione personale.
Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno
Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di
sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e
uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. 29. Così possiamo ora
determinare più precisamente, nella vita della Chiesa, la relazione tra
l'impegno per un giusto ordinamento dello Stato e della società, da una
parte, e l'attività caritativa organizzata, dall'altra. Si è visto che la
formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma
appartiene alla sfera della politica, cioè all'ambito della ragione
autoresponsabile. In questo, il compito della Chiesa è mediato, in quanto le
spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle
forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture giuste, né
queste possono essere operative a lungo. Il compito immediato di operare
per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come
cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla
vita pubblica. Non possono pertanto abdicare « alla molteplice e svariata
azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata
a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune ».[21] Missione dei fedeli laici è
pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la
legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le
rispettive competenze e sotto la propria responsabilità.[22] Anche se le espressioni specifiche
della carità ecclesiale non possono mai confondersi con l'attività dello
Stato, resta tuttavia vero che la carità deve animare l'intera esistenza dei
fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come « carità
sociale ».[23] Le organizzazioni caritative
della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium, un compito a
lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come
soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua
natura. Le molteplici strutture di
servizio caritativo nell'odierno contesto sociale 30. Prima di tentare una
definizione del profilo specifico delle attività ecclesiali a servizio
dell'uomo, vorrei ora considerare la situazione generale dell'impegno per la
giustizia e per l'amore nel mondo odierno. a) I mezzi di comunicazione di massa hanno oggi reso il
nostro pianeta più piccolo, avvicinando velocemente uomini e culture
profondamente diversi. Se questo « stare insieme » a volte suscita
incomprensioni e tensioni, tuttavia, il fatto di venire, ora, in modo molto
più immediato a conoscenza delle necessità degli uomini costituisce
soprattutto un appello a condividerne la situazione e le difficoltà. Ogni
giorno siamo resi coscienti di quanto si soffra nel mondo, nonostante i
grandi progressi in campo scientifico e tecnico, a causa di una multiforme
miseria, sia materiale che spirituale. Questo nostro tempo richiede, dunque,
una nuova disponibilità a soccorrere il prossimo bisognoso. Già il Concilio
Vaticano II lo ha sottolineato con parole molto chiare: « Oggi che i mezzi di
comunicazione sono divenuti più rapidi e le distanze fra gli uomini quasi
eliminate [...], l'azione caritativa può e deve abbracciare tutti
assolutamente gli uomini e tutte quante le necessità ».[24] D'altro canto — ed è questo un
aspetto provocatorio e al contempo incoraggiante del processo di
globalizzazione — il presente mette a nostra disposizione innumerevoli
strumenti per prestare aiuto umanitario ai fratelli bisognosi, non ultimi i moderni
sistemi per la distribuzione di cibo e di vestiario, come anche per l'offerta
di alloggio e di accoglienza. Superando i confini delle comunità nazionali,
la sollecitudine per il prossimo tende così ad allargare i suoi orizzonti al
mondo intero. Il Concilio Vaticano II ha giustamente rilevato: « Tra i segni
del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e inarrestabile
senso di solidarietà di tutti i popoli ».[25] Gli enti dello Stato e le
associazioni umanitarie assecondano iniziative volte a questo scopo, per lo
più attraverso sussidi o sgravi fiscali, gli uni, rendendo disponibili
considerevoli risorse, le altre. In tal modo la solidarietà espressa dalla
società civile supera significativamente quella dei singoli. b) In questa situazione sono nate e cresciute, tra le
istanze statali ed ecclesiali, numerose forme di collaborazione che si sono
rivelate fruttuose. Le istanze ecclesiali, con la trasparenza del loro
operare e la fedeltà al dovere di testimoniare l'amore, potranno animare
cristianamente anche le istanze civili, favorendo un coordinamento
vicendevole che non mancherà di giovare all'efficacia del servizio
caritativo.[26] Si sono pure formate, in questo
contesto, molteplici organizzazioni con scopi caritativi o filantropici, che
si impegnano per raggiungere, nei confronti dei problemi sociali e politici
esistenti, soluzioni soddisfacenti sotto l'aspetto umanitario. Un fenomeno
importante del nostro tempo è il sorgere e il diffondersi di diverse forme di
volontariato, che si fanno carico di una molteplicità di servizi.[27] Vorrei qui indirizzare una
particolare parola di apprezzamento e di ringraziamento a tutti coloro che
partecipano in vario modo a queste attività. Tale impegno diffuso costituisce
per i giovani una scuola di vita che educa alla solidarietà e alla disponibilità
a dare non semplicemente qualcosa, ma se stessi. All'anti-cultura della
morte, che si esprime per esempio nella droga, si contrappone così l'amore
che non cerca se stesso, ma che, proprio nella disponibilità a « perdere se
stesso » per l'altro (cfr Lc 17, 33 e par.), si rivela come cultura
della vita. Anche nella Chiesa cattolica e
in altre Chiese e Comunità ecclesiali sono sorte nuove forme di attività
caritativa, e ne sono riapparse di antiche con slancio rinnovato. Sono forme
nelle quali si riesce spesso a costituire un felice legame tra
evangelizzazione e opere di carità. Desidero qui confermare esplicitamente
quello che il mio grande Predecessore Giovanni Paolo II ha scritto nella sua
Enciclica Sollicitudo rei socialis,[28] quando ha dichiarato la
disponibilità della Chiesa cattolica a collaborare con le Organizzazioni
caritative di queste Chiese e Comunità, poiché noi tutti siamo mossi dalla
medesima motivazione fondamentale e abbiamo davanti agli occhi il medesimo
scopo: un vero umanesimo, che riconosce nell'uomo l'immagine di Dio e vuole
aiutarlo a realizzare una vita conforme a questa dignità. L'Enciclica Ut unum sint ha poi ancora una volta sottolineato
che, per uno sviluppo del mondo verso il meglio, è necessaria la voce comune
dei cristiani, il loro impegno « per il rispetto dei diritti e dei bisogni di
tutti, specie dei poveri, degli umiliati e degli indifesi ».[29] Vorrei qui esprimere la mia gioia
per il fatto che questo desiderio abbia trovato in tutto il mondo una larga
eco in numerose iniziative. Il profilo specifico
dell'attività caritativa della Chiesa a) Secondo il modello offerto dalla parabola del buon
Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò
che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli
affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista
della guarigione, i carcerati visitati, ecc. Le Organizzazioni caritative
della Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas (diocesana,
nazionale, internazionale), devono fare il possibile, affinché siano
disponibili i relativi mezzi e soprattutto gli uomini e le donne che assumano
tali compiti. Per quanto riguarda il servizio che le persone svolgono per i
sofferenti, occorre innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori
devono essere formati in modo da saper fare la cosa giusta nel modo giusto,
assumendo poi l'impegno del proseguimento della cura. La competenza
professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si
tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di
qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità.
Hanno bisogno dell'attenzione del cuore. Quanti operano nelle Istituzioni
caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano
ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano
all'altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi
sperimenti la loro ricchezza di umanità. Perciò, oltre alla preparazione
professionale, a tali operatori è necessaria anche, e soprattutto, la «
formazione del cuore »: occorre condurli a quell'incontro con Dio in Cristo
che susciti in loro l'amore e apra il loro animo all'altro, così che per loro
l'amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire
dall'esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa
operante nell'amore (cfr Gal 5, 6). b) L'attività caritativa cristiana deve essere
indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in
modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è
attualizzazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno. Il
tempo moderno, soprattutto a partire dall'Ottocento, è dominato da diverse
varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il
marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell'impoverimento: chi
in una situazione di potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l'uomo con
iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di
ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto, sopportabile.
Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi bloccato il
rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene contestata ed
attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In realtà,
questa è una filosofia disumana. L'uomo che vive nel presente viene
sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui effettiva
realizzazione rimane almeno dubbia. In verità, l'umanizzazione del mondo non
può essere promossa rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo umano.
Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in
prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità,
indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del
cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è « un
cuore che vede ». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in
modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi,
quando l'attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa
comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre
istituzioni simili. c) La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in
funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L'amore è
gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi.[30] Ma questo non significa che
l'azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È
in gioco sempre tutto l'uomo. Spesso è proprio l'assenza di Dio la radice più
profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non
cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l'amore
nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel
quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è
tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare
solamente l'amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende
presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché amare.
Egli sa — per tornare alle domande di prima —, che il vilipendio dell'amore è
vilipendio di Dio e dell'uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di
conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell'uomo consiste proprio
nell'amore. È compito delle Organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare
questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire
— come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio —
diventino testimoni credibili di Cristo. I responsabili dell'azione
caritativa della Chiesa 32. Infine, dobbiamo rivolgere
ancora la nostra attenzione ai già citati responsabili dell'azione caritativa
della Chiesa. Nelle precedenti riflessioni è ormai risultato chiaro che il
vero soggetto delle varie Organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio
di carità è 33. Per quanto concerne i
collaboratori che svolgono sul piano pratico il lavoro della carità nella
Chiesa, l'essenziale è già stato detto: essi non devono ispirarsi alle
ideologie del miglioramento del mondo, ma farsi guidare dalla fede che
nell'amore diventa operante (cfr Gal 5, 6). Devono essere quindi
persone mosse innanzitutto dall'amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo
ha conquistato col suo amore, risvegliandovi l'amore per il prossimo. Il
criterio ispiratore del loro agire dovrebbe essere l'affermazione presente
nella Seconda Lettera ai Corinzi: « L'amore
del Cristo ci spinge » (5, 14). La consapevolezza che in Lui Dio stesso si è
donato per noi fino alla morte deve indurci a non vivere più per noi stessi,
ma per Lui, e con Lui per gli altri. Chi ama Cristo ama L'azione pratica resta
insufficiente se in essa non si rende percepibile l'amore per l'uomo, un
amore che si nutre dell'incontro con Cristo. L'intima partecipazione
personale al bisogno e alla sofferenza dell'altro diventa così un
partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l'altro, devo dargli non
soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come
persona. 35. Questo giusto modo di
servire rende l'operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità
di fronte all'altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua
situazione. Cristo ha preso l'ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio
con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in
condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato
anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare.
Questo compito è grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più
capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17,
10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior
efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l'eccesso
del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione
dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il sapere che, in
definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà
così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il
necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile
fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo,
non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e
finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza
di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù
Cristo sempre in movimento: « L'amore del Cristo ci spinge » (2 Cor 5,
14). 37. È venuto il momento di
riaffermare l'importanza della preghiera di fronte all'attivismo e
all'incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo.
Ovviamente, il cristiano che prega non pretende di cambiare i piani di Dio o
di correggere quanto Dio ha previsto. Egli cerca piuttosto l'incontro con il
Padre di Gesù Cristo, chiedendo che Egli sia presente con il conforto del suo
Spirito in lui e nella sua opera. La familiarità col Dio personale e
l'abbandono alla sua volontà impediscono il degrado dell'uomo, lo salvano
dalla prigionia di dottrine fanatiche e terroristiche. Un atteggiamento
autenticamente religioso evita che l'uomo si eriga a giudice di Dio,
accusandolo di permettere la miseria senza provar compassione per le sue
creature. Ma chi pretende di lottare contro Dio facendo leva sull'interesse
dell'uomo, su chi potrà contare quando l'azione umana si dimostrerà
impotente? 38. Certo Giobbe può lamentarsi
di fronte a Dio per la sofferenza incomprensibile, e apparentemente
ingiustificabile, presente nel mondo. Così egli parla nel suo dolore: « Oh,
potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! ... Verrei
a sapere le parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. Con
sfoggio di potenza discuterebbe con me? ... Per questo davanti a lui sono
atterrito, ci penso ed ho paura di lui. Dio ha fiaccato il mio cuore,
l'Onnipotente mi ha atterrito » (23, 3. 5-6. 15-16). Spesso non ci è dato di
conoscere il motivo per cui Dio trattiene il suo braccio invece di
intervenire. Del resto, Egli neppure ci impedisce di gridare, come Gesù in
croce: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27, 46).
Noi dovremmo rimanere con questa domanda di fronte al suo volto, in dialogo
orante: « Fino a quando esiterai ancora, Signore, tu che sei santo e verace?
» (Ap 6, 10). È sant'Agostino che dà a questa nostra sofferenza la
risposta della fede: « Si comprehendis, non est Deus » — Se tu lo
comprendi, allora non è Dio.[35] La nostra protesta non vuole
sfidare Dio, né insinuare la presenza in Lui di errore, debolezza o
indifferenza. Per il credente non è possibile pensare che Egli sia impotente,
oppure che « stia dormendo » (cfr 1 Re 18, 27). Piuttosto è vero che
perfino il nostro gridare è, come sulla bocca di Gesù in croce, il modo estremo
e più profondo per affermare la nostra fede nella sua sovrana potestà. I
cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e
confusioni del mondo circostante, nella « bontà di Dio » e nel « suo amore
per gli uomini » (Tt 3, 4). Essi, pur immersi come gli altri uomini
nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi
nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane
incomprensibile per noi. 39. Fede, speranza e carità
vanno insieme. La speranza si articola praticamente nella virtù della
pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all'apparente
insuccesso, ed in quella dell'umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida
di Lui anche nell'oscurità. La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo
Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio
vero: Dio è amore! In questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i
nostri dubbi nella sicura speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e
che nonostante ogni oscurità Egli vince, come mediante le sue immagini
sconvolgenti alla fine l'Apocalisse mostra in modo radioso. La fede,
che prende coscienza dell'amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù
sulla croce, suscita a sua volta l'amore. Esso è la luce — in fondo l'unica —
che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e
di agire. L'amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché
creati ad immagine di Dio. Vivere l'amore e in questo modo far entrare la
luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente
Enciclica. CONCLUSIONE 40. Guardiamo infine ai Santi,
a coloro che hanno esercitato in modo esemplare la carità. Il pensiero va, in
particolare, a Martino di Tours († 397), prima soldato poi monaco e vescovo:
quasi come un'icona, egli mostra il valore insostituibile della testimonianza
individuale della carità. Alle porte di Amiens, Martino fa a metà del suo
mantello con un povero: Gesù stesso, nella notte, gli appare in sogno
rivestito di quel mantello, a confermare la validità perenne della parola
evangelica: « Ero nudo e mi avete vestito ... Ogni volta che avete fatto
queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a
me » (Mt 25, 36. 40).[36] Ma nella storia della Chiesa,
quante altre testimonianze di carità possono essere citate! In particolare
tutto il movimento monastico, fin dai suoi inizi con sant'Antonio abate (†
356), esprime un ingente servizio di carità verso il prossimo. Nel confronto
« faccia a faccia » con quel Dio che è Amore, il monaco avverte l'esigenza
impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio, tutta
la propria vita. Si spiegano così le grandi strutture di accoglienza, di
ricovero e di cura sorte accanto ai monasteri. Si spiegano pure le ingenti
iniziative di promozione umana e di formazione cristiana, destinate innanzitutto
ai più poveri, di cui si sono fatti carico dapprima gli Ordini monastici e
mendicanti e poi i vari Istituti religiosi maschili e femminili, lungo tutta
la storia della Chiesa. Figure di Santi come Francesco d'Assisi, Ignazio di
Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de' Paoli, Luisa de
Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di
Calcutta — per fare solo alcuni nomi — rimangono modelli insigni di carità
sociale per tutti gli uomini di buona volontà. I santi sono i veri portatori
di luce all'interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di
speranza e di amore. 41. Tra i santi eccelle Maria,
Madre del Signore e specchio di ogni santità. Nel Vangelo di Luca la troviamo impegnata in
un servizio di carità alla cugina Elisabetta, presso la quale resta « circa
tre mesi » (1, 56) per assisterla nella fase terminale della gravidanza. « Magnificat
anima mea Dominum », dice in occasione di questa visita — « L'anima mia
rende grande il Signore » — (Lc 1, 46), ed esprime con ciò tutto il
programma della sua vita: non mettere se stessa al centro, ma fare spazio a
Dio incontrato sia nella preghiera che nel servizio al prossimo — solo allora
il mondo diventa buono. Maria è grande proprio perché non vuole rendere
grande se stessa, ma Dio. Ella è umile: non vuole essere nient'altro che
l'ancella del Signore (cfr Lc 1, 38. 48). Ella sa di contribuire alla
salvezza del mondo non compiendo una sua opera, ma solo mettendosi a piena
disposizione delle iniziative di Dio. È una donna di speranza: solo perché
crede alle promesse di Dio e attende la salvezza di Israele, l'angelo può
venire da lei e chiamarla al servizio decisivo di queste promesse. Essa è una
donna di fede: « Beata sei tu che hai creduto », le dice Elisabetta (cfr Lc
1, 45). Il Magnificat — un ritratto, per così dire, della sua
anima — è interamente tessuto di fili della Sacra Scrittura, di fili tratti
dalla Parola di Dio. Così si rivela che lei nella Parola di Dio è veramente a
casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con 42. Alla vita dei Santi non
appartiene solo la loro biografia terrena, ma anche il loro vivere ed operare
in Dio dopo la morte. Nei Santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si
allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino. In
nessuno lo vediamo meglio che in Maria. La parola del Crocifisso al discepolo
— a Giovanni e attraverso di lui a tutti i discepoli di Gesù: « Ecco tua
madre » (Gv 19, 27) — diventa nel corso delle generazioni sempre
nuovamente vera. Maria è diventata, di fatto, Madre di tutti i credenti. Alla
sua bontà materna, come alla sua purezza e bellezza verginale, si rivolgono
gli uomini di tutti i tempi e di tutte le parti del mondo nelle loro
necessità e speranze, nelle loro gioie e sofferenze, nelle loro solitudini
come anche nella condivisione comunitaria. E sempre sperimentano il dono
della sua bontà, sperimentano l'amore inesauribile che ella riversa dal
profondo del suo cuore. Le testimonianze di gratitudine, a lei tributate in
tutti i continenti e in tutte le culture, sono il riconoscimento di
quell'amore puro che non cerca se stesso, ma semplicemente vuole il bene. La
devozione dei fedeli mostra, al contempo, l'intuizione infallibile di come un
tale amore sia possibile: lo diventa grazie alla più intima unione con Dio,
in virtù della quale si è totalmente pervasi da Lui — una condizione che
permette a chi ha bevuto alla fonte dell'amore di Dio di diventare egli
stesso una sorgente « da cui sgorgano fiumi di acqua viva » (cfr Gv 7,
38). Maria, Santa Maria, Madre di Dio, Dato a Roma, presso San
Pietro, il 25 dicembre, solennità del Natale del Signore, dell'anno 2005,
primo di Pontificato. BENEDICTUS PP. XVI NOTE [1] Cfr Jenseits von Gut und Böse,
IV, 168. [2] X, 69. [3] Cfr R. Descartes, Œuvres, a cura
di V. Cousin, vol. 12, Parigi 1824, pp. 95ss. [4] II, 5: SCh 381, 196. [5] Ibid., 198. [6] Cfr Metafisica, XII, 7. [7] Cfr Pseudo Dionigi Areopagita che, nel
suo Sui nomi divini, IV, 12-14: PG 3, 709-713, chiama Dio nello
stesso tempo eros e agape. [8] Cfr Il Convito, XIV-XV,
189c-192d. [9] Sallustio, De coniuratione Catilinae,
XX, 4. [10] Cfr sant'Agostino, Confessiones,
III, 6, 11: CCL 27, 32. [11] De Trinitate, VIII, 8, 12: CCL
50, 287. [12] Cfr I Apologia, 67: PG 6,
429. [13] Cfr Apologeticum 39, 7: PL 1,
468. [14] Ep. ad Rom., Inscr: PG 5,
801. [15] Cfr sant'Ambrogio, De officiis
ministrorum, II, 28, 140: PL 16, 141. [16] Cfr Ep. 83: J. Bidez, L'Empereur
Julien. Œuvres complètes, Parigi 19602, t. I, 2a,
p. 145. [17] Cfr Congregazione per i Vescovi,
Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores (22
febbraio 2004), 194: Città del Vaticano 2004, 2a, 205-206. [18] De Civitate Dei, IV, 4: CCL 47,
102. [19] Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 36. [20] Cfr Congregazione per i Vescovi,
Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores
(22 febbraio 2004), 197: Città del Vaticano 2004, 2a, 209. [21] Giovanni Paolo II, Esort. ap. post
sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), 42: AAS 81
(1989), 472. [22] Cfr Congregazione per [23] Catechismo della Chiesa Cattolica,
1939. [24] Decr. sull'apostolato dei laici
Apostolicam actuositatem, 8. [25] Ibid., 14. [26] Cfr Congregazione per i Vescovi,
Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores
(22 febbraio 2004), 195: Città del Vaticano 2004, 2a, 206-208. [27] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. post
sinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), 41: AAS 81
(1989), 470-472. [28] Cfr n. 32: AAS 80 (1988), 556. [29] N. 43: AAS 87 (1995), 946. [30] Cfr Congregazione per i Vescovi,
Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores
(22 febbraio 2004), 196: Città del Vaticano 2004, 2a, 208. [31] Cfr Pontificale Romanum, De
ordinatione episcopi, 43. [32] Cfr can. 394; Codice dei Canoni
delle Chiese Orientali, can. 203. [33] Cfr nn. 193-198, 204-210. [34] Cfr Ibid., 194, 205-206. [35] Sermo 52, 16: PL 38,
360. [36] Cfr Sulpicio Severo, Vita Sancti
Martini, 3, 1-3: SCh 133, 256-258. |
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