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Le piaghe d'Egitto

 

            Il racconto drammatico di Esodo da 7, 8 a 10, 29 presenta i caratteri di una grande elaborazione letteraria in forma epica, che narra in successio­ne serrata le fasi della lotta divino-umana per La liberazione d’Israele.

 

                     Ripetiamo che anche queste pagine non vanno lette come un resoconto verbale.

 

            Ricordando i diversi secoli di trasmissione orale delle notizie, bisogna tenere presente che le tra­dizioni narrative sono state più d’una, dettate an­che da un senso di esaltazione poetica della pro­pria storia religiosa, e potevano distinguersi tra loro per la varietà di contenuti, di forma, di scopo liturgico oppure catechistico.

 

            Si pensi che l’analisi letteraria ci permette di riconoscere nelle stesure scritte le tracce di alme­no due o tre tradizioni distinte, di epoca, menta­lità ed estensione diversa.

 

            Lo scrittore che, attuando un mirabile disegno artistico, compilava il testo definitivo dell’Esodo, ha operato scelte e adattamenti tra questo ma­teriale seguendo determinati criteri, che non erano e non potevano essere quelli di un semplice cronista.

 

            Accanto all’Esodo poi ci sono giunti, come sag­gio della detta varietà di tradizioni, le strofe dei Salmi 78/77, 41-53 e 105/104, 24-39 nonché le ri­flessioni più tardive di Sapienza 11, 5-20; 16, 1-18; 17, 1-20; dove troviamo la materia per confronti istruttivi.

 

            Tra l’altro non bisogna stupire che un lavoro di compilazione come questo conservi delle in­coerenze su qualche particolare: l’intenzione dello scrittore è di affermare il pensiero complessivo, non i singoli dettagli materiali.

 

            Le due forze in lotta nella prima parte dell’Esodo sono in condizioni diametralmente opposte e nell’agire non si ispirano agli stessi criteri. Da un lato sta il faraone d’Egitto, l’implacabile op­pressore, che è signore del regno più potente sulla terra e si fa riconoscere i titoli e la dignità di un dio: eppure non è assistito da forze divine, per­ché i numerosi "dèi" della sua nazione, per quanto magnificati nei loro templi dal culto ufficiale, non sono che immagini e nomi senza consistenza.

 

            Dall’altra pane Jahvè, l’unico Dio vero, Crea­tore dell’universo e Padre di tutti gli uomini. che tuttavia non è conosciuto se non dal piccolo nu­mero degli Ebrei, incapaci di apprezzare la sua chiamata e gementi sotto una dura persecuzio­ne; la loro guida, Mosè, manca di ogni mezzo umano di successo.

 

            Il disegno sarebbe quello di espugnare l’egoi­smo dei faraone, il quale in un primo tempo ha deciso il genocidio degli Ebrei e poi, in alterna­tiva, li sfrutta esosamente come forza-lavoro fin­ché trova utile conservarli in vita (Esodo capitoli 1 e 5).

 

            L’Egitto vantava con somma fiducia i poteri dei suoi incantatori e maghi (vedi la satira di Isaia 19, 1-15). Era naturale che Mosè iniziasse da un confronto rivolto a loro, con la sfida del bastone, adeguandosi a giocare sul loro terreno. E così si dimostra capace di fare quanto possono loro stes­si, anzi di superarli. Dopo ciò scatena quella se­rie di flagelli successivi che di solito chiamiamo "piaghe" con un termine di origine greco-latina che significa "percosse".

 

            Le prime quattro sono infatti pesanti e disgu­stose: due provengono dai Nilo, cioè l’acqua che assume certe apparenze di sangue corrotto, e poi un’infestazione abbondante di rane; due sono in­vasioni di insetti assai molesti, prima zanzare, poi mosconi.

 

            I quattro eventi corrispondono a fenomeni che accadono in Egitto annualmente in collegamen­to con il ciclo dell’inondazione del Nilo: in luglio ­agosto il cosiddetto "Ni1o rosso" causato da micro­organismi, nell’estate-autunno le tre infestazioni l’una dopo l’altra.

 

            Secondo il testo, anche i maghi riescono a pro­vocare i primi due fenomeni, ma quando il faraone volle liberarsi dal flagello delle rane fu costretto a supplicare Mosè perché intervenisse con le sue preghiere a! Signore Jahvè.

 


            Quelli potevano attribuirsi effetti che non usci­vano dall’ordine naturale. Ma anche in tale sfera il solo Mosè dimostrava il potere di governare tut­to il fenomeno, scatenandolo e revocandolo nel­la misura voluta da Dio. Questa da una volta al­l’altra risulta sempre più grave delle modalità consuete.

 

            Davanti alle zanzare i maghi devono riconoscer­si affatto privi dei poteri di Mosè e accettare la sconfitta dichiarando: "E' il dito di Dio!" (Esodo 8,15).

 

            Le altre quattro piaghe, assai più dure che le prime, colpiscono la salute fisica e i beni di pro­prietà: la quinta e la sesta sono epidemie che af­fliggono rispettivamente il bestiame e le perso­ne; la settima e l’ottava, grandine e cavallette, devastano con violenza straordinaria quanto si trova nei campi.

 

            Con la malattia delle ulcere o pustole i maghi. che rimanevano come spettatori disarmati, sono costretti ad allontanarsi, colpiti loro stessi come tutti gli altri, e ormai abbandonano la scena. Par­titi loro, pallido segno della potenza illusoria del faraone, il campo resta più libero per la manife­stazione divina.

 

            La narrazione della grandine è fatta con am­piezza, mettendo in rilievo sia la pazienza bene­vola del Signore, che tenta di scuotere la capar­bietà del re, sia la grandiosità del fenomeno, ac­compagnato da continui fulmini e tuoni, segni abi­tuali dell’apparire di Dio come giudice universale.

 

            L’annuncio di un giudizio che si avvicina si po­teva già sentire dalla quarta piaga, quella del mo­sconi, quando la narrazione ha cominciato a notare l’effetto selettivo esercitato da queste piaghe: i figli d’Israele. oppure la terra di Gosen da co­storo abitata, rimangono esenti dai flagelli che si abbattono sul resto del paese.

 

            Tale discriminazione, che trascende le capaci­tà della natura, sarà la nota caratteristica degli eventi che ancora seguiranno: con essa Jahvè di­mostrava di essere il vero Signore della terra egi­ziana, nella quale disponeva gli avvenimenti Secondo il proprio volere.

 

            La nona piaga e quella delle tenebre. Si tratta del vento caldo "khamsin", che soffia dal deser­to in marzo-aprile (la stagione della Pasqua) por­tando dense nuvole di sabbia e polvere capaci di oscurare la luce del sole: vento nocivo alla cam­pagna e a tutti i viventi. Sono tre giorni di notte continua. preludio di morte e di trasformazione, segno di un’epoca che deve terminare per cedere il posto a un’altra del tutto nuova.

 

            Le narrazioni successive (Esodo capitoli da 11 a 15) mostreranno come la notte pasquale ormai vicina, con Ia morte dei primogeniti, decima e ultima piaga, apre l’accesso verso l’altra not­te dell’attraversamento del mare, inizio della vita nuova del popolo liberato.

 

            A partire dalla settima piaga, la grandine, il fa­raone aveva accennato per qualche momento a considerare l’ipotesi di una resa, almeno parzia­le, premuto dalle circostanze sempre più minac­ciose (Esodo 9,27-28; ecc.), ma appena queste si addolcivano, era tornato all’ostinazione di sem­pre, perché non aveva mai aperto l’animo a un im­pulso di fede.

 

            Anche dopo la resa effettiva causata dalla morte del primogenito, ritornerà alla chiusura primiti­va pentendosi di avere ceduto, per cui finirà con la morte inevitabile del peccatore.


 

 

 

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