Bibbia a fumetti - Castigat ridendo mores - da Astrologia a Vita Sociale il dizionario dei problemi dell'uomo moderno

 

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UOMO

 

UOMO

 

 

Essere complesso e misterioso, dotato di intelligenza e di libera iniziativa, grazie alle quali riesce a distanziarsi dall'ambiente che lo circonda oggettivandolo, strumentaliz­zandolo e dominandolo.

La filosofia ha sempre fatto dell'uomo argo­mento del suo studio e delle sue ricerche. Ma mentre la filosofia classica tratta l'uomo solo dal punto di vista della ragione, la filosofia cristiana lo studia anche dal punto di vista della fede. Dal canto suo la teologia consi­dera l'uomo soprattutto alla luce della Parola di Dio.

La riflessione filosofica e teologica di S. Tommaso sull'uomo è contenuta principalmente nelle due Summe e nel Commento alle Sentenze; ma non vanno trascurati il De Anima e il commento all'opera omonima di Aristotele, nonché le Quaestiones disputatae De Malo, De Veritate, De Potentia, De Virtutibus, do­ve la discussione dei problemi antropologici è assai rilevante e significativa. L'attenzione dell'Angelico per l'uomo è costante. Il suo sguardo quando è rivolto a Dio e a Gesù Cristo non trascura mai 1'uomo: questi è sempre o il punto di partenza oppure il punto d'arri­vo d'ogni sua ricerca. Nell'indagine metafisi­ca per via resolutonis ascende dall'uomo a Dio; nella riflessione teologica, percorrendo la via compositionis, discende da Dio all'uomo. Più di ogni altro studioso che l'ha preceduto op­pure seguito, sia tra i pensatori cristiani sia tra quelli non cristiani, si può dire di S. Tommaso che ha una visuale piena, completa, integra­le dell'uomo: tutto quanto appartiene all'uomo, anima e corpo, sentimenti, passioni, istinti, facoltà, vizi, virtù, aspirazioni, alienazioni, bisogni, capacità naturali e doni soprannatu­rali, viene preso in considerazione e valoriz­zato dal Dottore Angelico. Da lui l'uomo è ap­prezzato non solo nella dimensione spiritua­le che è certamente la più importante, ma anche nella dimensione somatica, ritenuta non meno essenziale all'uomo; non solo nella sfera interiore e privata, ma anche in quella esteriore, pubblica e sociale. Quello di uma­nista non è un titolo esclusivo dei pensatori laici. Esso appartiene di diritto anche ai pen­satori cristiani. soprattutto a S. Tommaso. «In realtà S. Tommaso merita questo titolo per più ragioni; es­se sono, particolarmente, l'affermazione della dignità della matura umana, così netta nel Dottore Angelico; la sua concezione del­l'avvenuto risanamento ed elevazione del­l'uomo a un superiore livello di grandezza in forza dell'Incarnazione del Verbo; l'esatta formulazione del carattere perfettivo della grazia come principio‑chiave della visione del mondo e dell'etica dei valori umani, così sviluppata nella Summa; l'importanza attri­buita dall'Angelico alla ragione umana nella conoscenza della verità e nella trattazione delle questioni morali ed etico‑sociali» (Gio­vanni Paolo II).

Della sua antropologia, così ricca e così profonda, tanto più che essa abbraccia sia l'aspetto filosofico sia quello teologico, qui non ci sarà consentito di esporre che alcuno linee essenziali. Ovviamente ci soffermere­mo maggiormente su quelle più importanti e originali.

 

1. L'UOMO NELLA SUA STRUTTURA ESSENZIALE

 

     S. Tommaso ha affrontato tutti i problemi fon­damentali dell'antropologia filosofica (Che cos'è l’uomo? Quali sono le sue operazioni spe­cifiche? Quale la sua origine e quale il suo fi­ne ultimo? In che rapporto si trova l'anima col corpo? Cosa resta dell'uomo dopo la morte del corpo? In che rapporti si trova l’uomo, con Dio e con i propri simili?) col massimo im­pegno, e ha dato loro una soluzione che solo in parte ha ereditato dalla filosofia classica e cristiana. Per essere più precisi, per alcuni problemi 1'Aquinate fa sue alcune soluzioni tradizionali, mentre per altri presenta solu­zioni nuove, molto geniali. Sostanzialmente tradizionali sono le sue risposte ai problemi della libertà, della immortalità dell'anima, del primato dell'intelletto sulla volontà, an­che se queste risposte vengono sorrette da argomentazioni originali. Invece non sono affatto tradizionali le soluzioni che egli pro­pone per il problema della persona e per quello dei rapporti tra anima e corpo.

La principale novità dell'antropologia di S. Tommaso riguarda i rapporti tra anima e corpo. In questa questione i suoi contemporanei e tutti i filosofi e teologi cristiani che l'aveva­no preceduto, avevano seguito Platone il quale aveva identificato l'uomo con l'anima, e avevano ritenuto accidentale l'unione dell'a­nima col corpo. S. Agostino, per esempio, aveva definito 1'uomo «un'anima ragionevole che si serve di un corpo mortale». Con siffat­ta concezione dei rapporti tra anima e cor­po, il problema dell'immortalità dell'anima era già risolto in partenza e non presentava nessuna difficoltà.

A S. Tommaso la soluzione platonica e agosti­niana, certamente comoda, parve assai di­scutibile, perché in contrasto con l'esperien­za, la quale non conferma in nessun modo quell'autonomia dell'anima rispetto al cor­po, asserita da Platone. Anzi l'esperienza più immediata ci dice che l'uomo è un corpo ani­mato e non il contrario.

Seguendo Aristotele S. Tommaso insegna che l'uomo è composto di due elementi essenziali, l'anima e il corpo, che si trovano in rapporto di forma e di materia: l'anima svolge la fun­zione della forma, il corpo della materia. Egli respinge categoricamente la tesi plato­nica secondo cui l'anima intellettiva non si unisce al corpo come forma alla materia, ma solo come motore al mobile, dicendo che l'anima è nel corpo «come il pilota nella na­ve». L'argomento più probante è quello che fa leva sul fatto che nell'uomo ci sono attività che non procedono esclusivamente dal cor­po o dall'anima, ma da entrambi, trattando­si di attività squisitamente psicofisiche. In­fatti, «sebbene l'anima abbia un'operazione tutta sua, in cui non entra il corpo, cioè il pensare, tuttavia ci sono altre operazioni co­muni ad essa e al corpo, come il temere, l'adi­rarsi, il sentire e simili; queste avvengono con una certa trasmutazione di una determi­nata parte del corpo, da cui risulta che sono insieme operazioni dell'anima e del corpo. Occorre pertanto ammettere che l'anima e il corpo fanno una cosa sola e che non sono diversi quanto all'essere» (C. G., II. c. 57), e questo perché l'unità nell'operare esige e presuppone l'unità nell'essere.

     L'adesione alla teoria ilemorfistica di Aristotele costò a Tommaso lotte acerbe du­rante tutta la vita tanto con l'ambiente eccle­siastico quanto con quello laico; giacché a quei tempi seguire Aristotele significava praticamente negare l'immortalità dell'ani­ma, perché così gli aveva fatto dire il grande commentatore Averroè. Ma S. Tommaso non si ras­segnò ad accettare supinamente la versione averroistica di Aristotele e volle controllare direttamente come stavano effettivamente le cose. Lesse e commentò quasi tutte le opere dello Stagirita e ne uscì con la convin­zione che la interpretazione di Averroè era possibile ma non necessaria. Certo Aristote­le non era stato così chiaro come sarebbe stato auspicabile. Tuttavia dall'insieme dei suoi scritti non era lecito concludere, come voleva Averroè. che egli aveva negato l'im­mortalità dell'anima individuale. Senonché rimaneva il fatto che restando arroccati su posizioni aristoteliche non sarebbe stato possibile fornire a questo gravissimo proble­ma una soluzione pienamente soddisfacen­te, perché, leggendo 1'uomo solo in chiave ile­morfistice, non si capisce come l'anima pos­sa continuare a esistere anche dopo la morte del corpo, non potendo la forma avere esi­stenza se non nella materia che le è propria. A questo punto Tommaso scavalca Aristotele e riesce a farlo, mettendo a frutto la sua intuizione fondamentale, architrave di tutta la sua metafisica, la nozione di actus essendi, considerato come perfezione radicale, per­fezione di ogni altra perfezione, perfectio omnium perfectionum e actualitas omnium actuum. Aristotele aveva obliato l'essere, come ha giustamente osservato Heidcgger, e si era preoccupato esclusivamente della so­stanza. Per spiegare il divenire delle sostan­ze corporee aveva capito che occorreva am­mettere che la loro essenza è composta dì due elementi, materia e forma. La corruzio­ne delle cose materiali è dovuta alla intrinse­ca fragilità del nesso che lega insieme la ma­teria e la forma. S. T. riprende da Aristotele la dottrina dell'ilemorfismo e fa della mate­ria e della forma l'essenza degli esseri corpo­rei, l'a, compreso. Ma non dimentica che l'ente non è costituito solo dall'essenza, ben­sì dall'essenza e dall' actus essendi, e che quest'ultimo è l'elemento che conta di più. Concentrando la sua indagine sull'atto del­l'essere anziché sull'essenza, ('Aquinate ar­riva a dare al problema dei rapporti tra ani­ma e corpo e al problema dell'immortalità urta soluzione di gran lunga più soddisfacen­te di quella dello Stagirita.

Anima e corpo, insegna Tommaso, han­no con l'essere un rapporto diverso da quel­lo che hanno comunemente la materia e la forma (e, perciò, queste sono categorie che si possono applicare all'uomo solo analogica­mente). Di solito, materia e forma hanno l'essere solo nel composto, nel sinolo: né la materia né la forino hanno Messere in pro­prio, separatamente, lo hanno soltanto in­sieme. L'essere appartiene alla sostanza ma­teriale. Così, per es., il bronzo per conto suo, senza nessuna forma determinata, non ha l'essere; e non l'ha neppure la sfera. $ dotata di essere soltanto la sfera bronzea. Invece nel caso dell'anima e del corpo le co­se stanno diversamente. A causa della in­commensurabile superiorità dell'anima ri­spetto al corpo, superiorità attestata da alcu­ne attività squisitamente spirituali, che sono proprie esclusivamente dell'anima, quali il giudicare, il ragionare, il riflettere, scegliere liberamente ecc., l'essere appartiene anzitutto all'anima, è proprietà dell'anima. In­fatti «ciò che ha un'operazione per conto proprio (per se), ha anche l'essere e la sussi­stenza per conto proprio; mentre ciò che non ha un'operazione propria non ha nep­pure un proprio essere» (In I De Anima I, lect. 2, n. 20). «Avendo un essere sciolto dalla materia, come attesta il suo operare, l'anima non riceve l'essere dalla materia; vi­ceversa è il composto che riceve l'essere dal­l'anima » (In II Sent., d. 19, q. 1, a. 1, ad 3). Tuttavia l'anima, pur essendo dotata di un proprio actus essendi, ha bisogno dell'aiuto del corpo per svolgere le proprie attività e, per questo motivo, rende partecipe il corpo del proprio atto di essere. In tal modo l’A­quinate spiega in modo egregio e originale la profonda, sostanziale unità che si istituisce tra l'anima e il corpo. Ciò è dovuto precisa­mente al fatto che unico è l'atto di essere dell'uomo e nell'uomo. Quell'atto di essere che spet­ta all'anima per priorità ontologica, è anche l'atto di essere che conferisce attualità al corpo: «Lo stesso essere che appartiene al­l'anima per sé, diviene anche l'essere del composto; perché l'essere del composto non è altro se non l'essere della sua forma» (I Sent., d. 8, q. 5, a. 2. ad 2).

     In tal modo, assegnando all'anima un proprio atto di essere, S. Tommaso pone anche le premesse per una soluzione positiva dell'ar­duo e tanto dibattuto problema della im­mortalità dell'anima, ossia della sua soprav­vivenza dopo la morte del corpo. Se, infatti, l'anima non dipende dal corpo nel profondo del proprio essere, le vicissitudini del corpo, in particolare la sua morte e corruzione, non possono compromettere la sua esistenza. Ecco come l'Aquinate svolge questo argo­mento nella Summa Theologiae: «È necessa­rio affermare che l'anima umana, cioè il principio intellettivo, è incorruttibile. Infatti la corruzione di una cosa avviene o diretta­mente (per se) oppure indirettamente (per accidens). Ora non è possibile che un essere sussistente nasca o perisca in maniera indi­retta, ossia in forza della generazione o della corruzione di un altro ente. Infatti la genera­zione e la corruzione appartengono a una cosa alla stessa maniera che le appartiene l'essere. Per conseguenza, chi direttamente possiede l'essere non può soggiacere alla ge­nerazione e alla corruzione altro che diretta­mente; al contrario, gli enti non sussistenti, come gli accidenti e le forme materiali, si di­ce che nascono e periscono indirettamente, in seguito alla generazione e corruzione del composto in cui si trovano (...). Ora abbia­mo visto che l'anima è una forma sussisten­te, e perciò non può venire meno che me­diante la propria diretta distruzione. Questo però è impossibile non solo per essa, ma per ogni essere sussistente che sia soltanto for­ma» (I, q. 75, a. 6). Come si vede, nella so­luzione del problema dei rapporti tra anima e corpo, Tommaso rimane aristotelico fino a un certo punto: solo fino a quando si tratta di affermare che la loro unione è talmente intima da potersi interpretare mediante le categorie di materia e forma; ma poi egli ab­bandona e supera Aristotele (e l'ambiguità della sua dottrina sulla immortalità dell'ani­ma), innestando le categorie di materia e forma nell'essere, inteso come perfezione e attualità fontali, e pertanto come fondamen­to d'ogni attualità e d'ogni perfezione, e adeguandole alle esigenze del caso, ossia considerando l'anima una sostanza completa per conto proprio, in quanto dotata di un proprio atto di essere e pertanto in grado di permanere nell'essere anche dopo che si è separata dal corpo.

Mediante l'esplorazione delle condizioni ontologiche dell'anima S. Tommaso mette a punto anche il concetto fondamentale di persona, concetto già utilizzato da Agostino nella di­scussione del Mistero Trinitario, e che aveva ricevuto un'esatta definizione da Boezio, presso il quale però conservava ancora un carattere essenzialistico piuttosto che esi­stenziale. La persona, infatti, viene da lui in­tesa come una sostanza che si differenzia dalle altre sostanze in quanto è dotata di ra­zionalità: «Rationalis naturae individua sub­tantia,» (Contra Eutichen et Nestorium, c. 4). S. Tommaso porta la perfezione della perso­nalità a un livello più alto, oltre quello della sostanza, e la situa al livello della sussisten­za. È persona qualsiasi sussistente nell'ordi­ne razionale oppure intellettuale: «Omne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona» (C. G., IV, c. 35, n. 3725). Si tratta di una perfezione altissima, la massi­ma delle perfezioni che si incontrano nell'u­niverso: «Persona significat id quod est per­fectissimum in tota natura, scilicet subsistens in natura rationali» (I, q. 28. a. 3). Secondo S. Tommaso persona è l’uomo singolo e concreto, in tutta la sua ricchezza e complessità, unicità e irripetibilità. La persona, come totalità del­l'essere singolo abbraccia i seguenti elemen­ti: la materia (il corpo), la forma sostanziale (l'anima), le forme accidentali (tutte le varie facoltà sia sensitive sia intellettive) e l'atto d'essere (l'actus essendi). Il costitutivo for­male della persona è dato da quest'ultimo elemento, perché l'atto d'essere è la perfe­zione massima ed è ciò che conferisce attua­lità alla sostanza e a tutte le sue determina­zioni. Perciò «la personalità appartiene ne­cessariamente alla dignità e alla perfezione di una realtà, in quanto questa esiste per sé: il che è inteso nel nome di persona» (III, q. 2, a. 2, ad 2). L'atto di essere conferisce alla persona la proprietà della incomunicabilità; «De ratione personae est quod sit incommu­nicabilis» (I, q. 30, a. 4, ob. 2). Grazie al­lactus essendi la realtà umana diviene com­pleta, in se stessa, ontologicamente chiusa. La persona, precisa S. Tommaso, gode di triplice in­comunicabilità: «Anzitutto l'individuo che è persona non può comunicare con le altre co­se come parte, essendo un tutto completo; poi non può comunicare come l'universale comunica con i singoli, in quanto la persona è qualche cosa di sussistente; infine non può comunicare come qualche cosa di assumibile perché ciò che è assumibile passa nella per­sonalità dell'assumente, e non ha più una personalità sua propria» (III Sent,, d. 5, q. 2, a 1, ad 2). A motivo della incomunicabi­lità la persona si distingue nettamente sia dall'essenza sia dalla natura; infatti «il con­cetto di persona comporta che si tratti di qualche cosa di distinto, sussistente e com­prendente tutto ciò che c'è nella cosa; invece il concetto di natura abbraccia solo gli ele­menti essenziali» (ibid., d. 5, q. 1, a. 3). Ov­viamente, quando Tommaso parla di inco­municabilità riguardo alla persona, non si riferisce alla comunicazione verbale, affetti­va, spirituale, ma semplicemente alla comu­nicazione ontologica: ciò di cui nessuna per­sona si può privare è il proprio actus essendi; è l'atto d'essere che è incomunicabile. Ma tale incomunicabilità ontologica costituisce il presupposto d'ogni altra comunicazione. La persona è sempre una realtà spirituale in toto (Angeli e Dio) oppure in parte (l'uomo); ed essere spirito significa avere la massima attitudine per entrare in comunicazione con gli altri. Per questo motivo, la definizione ontologica di persona proposta da S. Tommaso non esclude definizioni più moderne (e meno profonde) come le definizioni dialogiche e psicologiche.

Visto chi è l'uomo, S. Tommaso può trovare rispo­ste adeguate anche per altri due quesiti fon­damentali: a) che cosa può conoscere l'uomo e quali sono le sue facoltà conoscitive?: b) che cosa può e deve fare 1'uomo? Le soluzioni che egli offre per questi due quesiti, che erano stati oggetto di appassionate discussioni sin dai tempi di Socrate e dei Sofisti, sono per­fettamente in linea con la sua visuale antro­pologica che, come s'è visto, è sostanzial­mente di stampo aristotelico. In effetti, sia in gnoseologia sia in etica l'Aquinate fa sua la dottrina di Aristotele; ma non si tratta di una ripetizione letterale. Soprattutto riguar­do al secondo quesito: Che cosa può e deve fare l'uomo le innovazioni di S. Tommaso sono notevo­li e profonde.

Nel campo conoscitivo (gnoseologia) la grande innovazione di S. Tommaso rispetto ai suoi contemporanei, che erano ancora tutti alli­neati su posizioni platonico‑agostiniane e spiegavano la conoscenza delle «verità eter­ne». (i principi primi, i giudizi necessari, le idee trascendentali) con la dottrina della il­luminazione, fu quella di abbandonare que­sta celebre dottrina, per sostituirla con quel­la aristotelica dell'astrazione. Si trattò certa­mente di un'operazione molto ardita, per­ché da molti la dottrina dell'astrazione era giudicata dissacrante, antireligiosa, pagana. E, per questo motivo, essa costituiva una delle principali ragioni per cui Aristotele era stato ripetutamente proscritto dall'universi­tà di Parigi e dalle altre scuole filosofiche e teologiche della Francia, Italia e Inghilterra. Tommaso, ottimo conoscitore e commenta­tore di Aristotele, non aveva tardato ad ac­corgersi che in sede strettamente teoretica la dottrina dell'astrazione era molto più solida di quella dell'illuminazione e se ne fece stre­nuo difensore contro tutti gli attacchi dei pensatori di indirizzo agostiniano del suo tempo. Non si trattò di innovazione di poco conto, perché, come nota E. Gilson, «elmi­nando qualsiasi collaborazione speciale di un agente esterno alla produzione della cono­scenza dell'anima umana, S. Tommaso eliminava si­multaneamente il Dator formarum di Avi­cenna e un aspetto importante del Dio illu­minatore di Agostino (...). Questo fatto è uno dei più grandi avvenimenti filosofici di tutto il medioevo occidentale. (E. GILSON, «Pourquoi saint Thomas a critiqué saint Au­gustin», in Archives d'histolre doctrinale et litteraire da moyen áge, vol. 1, 1926‑1927, p. 120). La posizione di S. Tommaso a sostegno della teoria dell'astrazione si delinea già chiara­mente nel Commento alle Sentenze, che, co­me sappiamo, è la sua prima opera. A giudi­zio dell'Aquinate tutta la conoscenza umana trae origine e si sviluppa dai dati sensitivi: senza i «fantasmi», cioè senza le immagini della fantasia, non si danno né concetti, né giudizi, né ipotesi scientifiche: «Nella vita presente, come dice il Filosofo nel De anima III, c. 30, l'anima senza i fantasmi non cono­sce nulla non soltanto nel momento in cui acquisisce una scienza, ma anche quando considera le cose che già conosce: perché i fantasmi stanno all'intelletto come i dati sensibili al senso» (III Sent., d. 31, q. 2. a. 4). Questo modo di conoscere secondo S. Tommaso, si addice perfettamente alla nutura uma­na per due ragioni. In primo luogo perché, tra le nature dotate di intelletto, quella del­l'uomo, occupa il gradino più basso e per questo motivo possiede un intelletto che si trova in condizione di possibilità rispetto a tutte le idee, allo stesso modo che la materia prima si trova in stato di possibilità (potenzialità) rispetto a tutte le forme sensibili. E così, per passare dalla potenza all'atto, l'intelletto de­ve anzitutto ricevere le immagini delle cose e ciò avviene per il tramite dei sensi e della  fantasia. In secondo luogo, perché l'anima è forma del corpo ed è quindi opportuno che la sua operazione sia un'operazione di tutto l’uomo, compreso il corpo. Questo però concor­re a tale operazione non in qualità di stru­mento, bensì di oggetto in quanto fornisce all'intelletto i fantasmi dell'immaginazione. A queste due ragioni nella Summa Theolo­giae, Tommaso ne aggiunge una terza: l'in­sostenibilità intrinseca sia della teoria di Pla­tone, secondo cui le idee si trovano innate nella nostra mente, sia della teoria agosti­niana, secondo cui le «verità eterne» ci sono comunicate per illuminazione. Siffatte posi­zioni sono insostenibili, «primo, perché se l'anima possiede una nozione naturale di tutte le cose, non sembra possibile che cada in tale oblio di questa conoscenza naturale, da ignorare persino di possedere tale cono­scenza. Nessuno infatti dimentica quello che conosce per natura, per es., che il tutto è maggiore della parte e altre verità del gene­re (...). Secondo, la falsità della teoria appa­re chiaramente dal fatto che, quando abbia­mo la mancanza di un dato senso, viene a mancare la scienza di quelle cose che sono percepite per mezzo di esso; così il cieco na­to non può avere nessuna nozione dei colori. Ora, questo non avverrebbe se nell'anima fossero innati i concetti dì tutte le cose intel­ligibili» (I, q. 84, a. 3). Per spiegare il pro­cesso astrattivo S. Tommaso ricorre alla celebre di­stinzione aristotelica tra intelletto agente (attivo) e paziente (passivo). Il primo svolge la funzione di illuminare i fantasmi e coglie­re le idee; mentre il secondo le riceve e le conserva (I q. 79, aa. 1‑5). S. 'Tommaso distingue tre grandi classi di idee che si ottengono me­diante l'astrazione: idee fisiche, matemati­che e metafisiche. Si tratta di tre livelli diffe­renti dì astrazione: nel primo caso si lascia fuori soltanto la materia individuale, nel se­condo si prescinde dalla materia sensibile ma non da quella intelligibile; mentre nel terzo caso si esclude qualsiasi materia. Le idee trascendentali e, ovviamente, l'idea di Dio si ottengono mediante il terzo grado di astrazione. Sui tre gradi di astrazione si basa anche la divisione delle scienze: le quali so­no appunto le scienze fisiche, matematiche e metafisiche (In De Trin., lect. II, c. 1, n. 1).

     Mediante la conoscenza intellettiva l’uomo già supera infinitamente la condizione degli animali ed entra nel mondo dello spirito. Ma egli è in grado di fare altrettanto anche me­diante la volontà. Questa è la facoltà del de­siderare, del scegliere, del fare; essa condu­ce l'uomo oltre la sfera della contemplazione e lo inserisce in quella dell'azione. Diversa­mente dagli animali che agiscono per istinto e quindi sono determinati all'azione dalla natura stessa, l’uomo può scegliere, può agire li­beramente, può autodeterminarsi. Si è soliti tacciare S. Tommaso di intellettualismo: ma questa è un accusa del tutto ingiustificata. Basta ve­dere con quale vigore egli afferma l'assoluta eccellenza della libertà, attività in cui con­fluiscono sia l’intelletto sia la volontà, per costatare che S. Tommaso non è affatto un avvocato dell'intellettualismo. Secondo il Dottore Angelico l'atto libero esige anzitutto che si conosca quello che si deve fare e, pertanto, implica un esame attento dell'azione che si intende compiere o dell'oggetto che si vuole raggiungere. È quanto facciamo normal­mente. Se, per es., ci viene in mente di ac­quistare un'enciclopedia, anzitutto ci infor­miamo di che cosa si tratta, se è buona, quanto costa ecc, Acquisite sufficienti infor­mazioni valutiamo i pro e contro: se vale la pena o meno, per es., di acquistare quell'en­ciclopedia. Ma anche la valutazione positiva non comporta ipso facto il compimento del­l'azione o la scelta dell'oggetto, perché si può trattare ancora di una valutazione astratta, che non riguarda noi in questo de­terminato momento. Perché al giudizio se­gua l'azione occorre che il giudizio sia un giudizio pratico e non semplicemente specu­lativo: deve dire che quell'acquisto è oppor­tuno per noi in questo momento. Se il giudi­zio assume queste caratteristiche, allora si emette l'atto di volizione. Pertanto, l'atto li­bero, che si consuma nell'elezione è un atto complesso ed è il risultalo di un dialogo tra intelletto e volontà. Infatti nell'elezione o scelta «concorrono un elemento di ordine conoscitivo e un elemento di ordine appetiti­vo: da parte della potenza conoscitiva si ri­chiede il consiglio, col quale si giudica quale sia il partito da preferire; da parte invece della potenza appetitiva si richiede che sia accettato mediante il desiderio quanto viene giudicato mediante il consiglio (consilium). Per questa ragione Aristotele, lascia sospesa la questione se la scelta appartenga di più al­la facoltà appetitiva o a quella conoscitiva; dice infatti che la scelta é, "o un intelligenza appetitiva oppure un'appetizione intelletti­va". Però egli nell'Etica propende per l'ap­petito intellettivo» (I, q. 83, a. 3). Chiaren­do la perplessità di Aristotele, S. Tommaso mostra che l’atto libero spetta sostanzialmente alla volontà pur dipendendo essenzialmente an­che dall'intelletto: «Quell'atto con cui la vo­lontà tende verso qualche cosa che viene proposta come bene, essendo ordinato dalla ragione a un fine, materialmente è atto della volontà, mentre formalmente è atto della ra­gione. In effetti la sostanza dell'atto qui si comporta come materia rispetto all'ordine imposto alla potenza superiore. Perciò l'ele­zione sostanzialmente non è atto della ragio­ne bensì della volontà: infatti l'elezione con­siste in un moto dell'anima verso il bene pre­scelto. Dunque è chiaro che essa è un atto della potenza appetitiva» (I‑II, q. 13, a. 1).

Dall'acuta analisi di S. Tommaso risulta che l’at­to libero è un atto assai complesso e dinami­co e non consiste affatto in quella indifferen­za di fronte a opposte alternative di cui han­no parlato alcuni autori medioevali e moder­ni, ma consiste invece nella scelta responsa­bile (electio) di una delle varie alternative dopo un ponderato esame di tutti i pro e contro (deliberatio et judicium). Si tratta di un atto unico, di una realtà unica, anche se ottenuta mediante il concorso di due facoltà, l'intelletto e la volontà. E secondo la fine precisazione dell'Aquinate si possono ben distinguere in questo atto unico un elemento sostanziale (materiale) e un elemento for­male (specifico): il primo appartiene alla volontà, il secondo all'intelletto. Dell'atto libe­ro l'autore è l’uomo, anche se non si escludono apporti di altri attori, perché l'uomo non è né un essere assoluto né un essere isolati, bensì essenzialmente socievole. Su questo punto l'Angelico Dottore è categorico. Nella Sum­ma (I, qq. 105‑106) e nel De Veritate (q. 22, aa. 8‑9) egli dimostra che causa dell'atto libero è la persona che lo compie, non Dio, né i demoni, né gli astri, né altre cose di que­sto genere. Questo è un punto fermo irri­nunciabile, come è un punto fermo, innega­bile, che il libero arbitrio è dote dell'uomo È in­dubbiamente una dote singolarissima, unica in tutto l'immenso universo della natura. L'uomo solo ne è in possesso mentre tutte le al­tre cose di questo mondo ne sono prive.

Situato nel mondo dello spirito mediante le facoltà dell'intelletto e della volontà l'uomo è capax infiniti (II‑II, q. 24, a. 7); però egli è, ovviamente, infinito (cioè senza confini spa­zio‑temporali) solo in potenza, non in atto. E tutta la vita umana è uno sforzo incessante di tradurre in realtà questa immensa poten­zialità, sforzo gigantesco destinato a fallire miseramente, anche perché dopo il peccato originale l'uomo si trova in una situazione di profonda alienazione; egli è dotato di libero arbitrio e non di libertà, come ha puntualiz­zato S. Agostino e come ammette S. Tommaso. Così dalla sua struttura essenziale, assai ricca e meravigliosa, l’uomo non può ricavare la piena realizzazione di se stesso e perciò non può conseguire la perfetta felicità. Ma questi ec­celsi traguardi gli sono stati resi accessibili dalla bontà e dalla misericordia di Dio gra­zie all'opera di Gesù Cristo. A questo pun­to, dopo avere delineato un quadro comple­to (che comprende anche uno studio detta­gliato e affascinante delle passioni, delle vir­tù e dei vizi, dello scopo della vita umana, della legge naturale e della legge positiva) dell'antropologia filosofica, S. Tommaso, alla luce della rivelazione cristiana, presenta l'imma­gine dell'uomo nuovo, secondo le lince dell'an­tropologia teologica.

 

2.  L'UOMO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA

 

     Allo studio dell'uomo nelle sue strutture es­senziali S. Tommaso, nella Summa, fa seguire im­mediatamente quello dell'uomo nel corso della storia della salvezza, nelle sue tre grandi fasi e rispettive condizioni: condizione privile­giata nel paradiso terrestre, condizione di al­lontanamento da Dio dopo il peccato e con­dizione di riconciliazione mediante la grazia. È una vastissima trattazione che abbraccia le ultime questioni della Prima Pars e tutt'inte­ra la Seconda Pars. Mentre la Tertia sarà poi riservata allo studio di Cristo, il Salvatore, e ai Sacramenti, i mezzi della salvezza. Questa collocazione della antropologia soprannatu­rale è stata oggetto dì critiche e di riserve da parte di numerosi teologi contemporanei, che trovano quanto meno illogico posporre la trattazione del mistero di Cristo a quella della grazia e delle virtù connaturali (fede, speranza, carità), delle quali Egli è l'unica fonte. Ma le critiche sono ingiustificate se si tien conto che la trattazione dell'Angelico non segue l’ordine genetico e storico ma quello sistematico e metafisico, per cui di volta in volta egli sviluppa un discorso com­pleto, filosofico‑teologico, intorno all'ogget­to in discussione. Così quando nella Prima Pars tratta di Dio, lo affronta esaustivamen­te, e studia Dio in tutti i suoi aspetti, Unità e Trinità, perfezioni e attributi, azioni ad intra e ad extra (creazione). Altrettanto fa succes­sivamente per l'uomo (ultime questioni della Prima e tutt'intera la Secunda) e lo stesso fa­rà per Cristo nella Tertia. La collocazione del trattato sulla grazia e della cristologia ri­sulta perfettamente logica nel piano tomisti­co che, com'è noto, è un piano articolato in due momenti: quello dell'exitus delle creatu­re da Dio e che si conclude con la creazione dell'uomo, e quello del reditus che inizia dall'uomo e termina in Dio mediante l'intervento di Cristo.

La condizione dell'uomo prima del peccato, quando la sua natura era ancora integra (sta­tus naturae integrae) viene studiata attenta­mente dall'Angelico nelle questioni 97‑102 della Prima Pars. L'importante questione 93, che comprende 9 articoli, è riservata allo studio della rassomiglianza dell'uomo con Dio, la imago Dei, tratto fondamentale dell'an­tropologia cristiana su cui sia i padri greci che latini avevano tanto insistito. In accordo con la tradizione S. 'Tommaso riserva la qualifica di imago solo all'anima e precisamente alla mente, mentre il titolo di vestigio lo applica anche al corpo: «Si è visto che in ogni crea­tura si trova una qualche rassomiglianza con Dio, ma soltanto nella creatura ragionevole essa si trova come immagine, mentre nelle altre vi si trova come vestigio. Ora, la crea­tura ragionevole supera le altre creature per l'intelletto o mente. Quindi è chiaro che nel­la stessa creatura ragionevole si trova l'im­magine di Dio soltanto in rapporto alla men­te. In rapporto invece alle altre sue parti, vi sarà soltanto la somiglianza di vestigio, co­me avviene per tutti gli altri esseri ai quali somiglia per le parti suddette» (I, q. 93, a. 6). Tommaso distingue tre livelli di somi­glianza, e il livello minimo lo assegna a tutti gli uomini, sia giusti sia peccatori: «Essendo l'uomo immagine dì Dio per la sua natura intellettiva, egli raggiungerà il grado massi­mo in questa sua somiglianza nell'atto in cui la natura intellettiva può massimamente imi­tare Dio. Ora la natura intellettiva imita Dio al massimo grado nella intellezione e nell'a­more che Dio ha per se medesimo. Perciò l'immagine di Dio nell'uomo si può conside­rare sotto tre aspetti. Primo, in quanto l'uo­mo ha una attitudine naturale a conoscere e ad amare Dio: e questa attitudine consiste nella natura stessa della mente, che è comu­ne a tutti gli uomini. Secondo, in quanto l'uomo conosce e ama Dio in maniera attua­le o abituale, però non in modo perfetto: e questa è l'immagine dovuta alla conformità causata dalla grazia. Terzo, in quanto l’uo­mo conosce e ama Dio in maniera attuale e perfetta: e questa è l'immagine secondo la somiglianza della gloria (...). Concludendo, la prima immagine si trova in tutti gli uomi­ni, la seconda nei soli giusti, la terza soltanto nei beati» (I, q. 93, a. 4).

     I progenitori, nel paradiso terrestre, go­devano di speciali privilegi. in particolare di una straordinaria sapienza e di un alto livel­lo di santità. Adamo ebbe da Dio la scienza di tutte le cose necessarie per la vita: la scienza non solo di quelle che si possono sa­pere per via naturale, ma anche di quelle che eccedono la conoscenza naturale e che sono necessarie per raggiungere il fine so­prannaturale (I, q. 94, a. 3). La santità di Adamo raggiungeva tale livello da eccellere in tutte le virtù: «L'uomo nello stato di inno­cenza aveva in qualche modo tutte le virtù. Infatti abbiamo visto sopra che la perfezione dello stato primitivo era tale da implicare la subordinazione della ragione a Dio e delle potenze inferiori alla ragione. Ora, le virtù non sono altro che perfezioni, le quali ordi­nano la ragione a Dio e dispongono le po­tenze inferiori seconda la regola della ragione. Perciò la perfezione dello stato primitivo (primi.status) esigeva che l'uomo possedesse in qualche modo tutte le virtù» (I, q. 95, a. 3).

Col peccato, che secondo Tommaso fu essenzialmente un atto di disordine pecca­tum proprie nominat actum inordtnatum») (I‑II, q. 71, a. 1), e specificamente un allon­tanamento da Dio sommo bene e un rivolgi­mento verso beni mutevoli («inordinata con­versio ad commutabile bonum») (I‑II q. 84, a. 1). Adamo (l'uomo) non solo venne pri­vato dei doni preternaturali ma la sua stessa natura mutò condizione: dallo status di natu­ra integra passò allo status naturae corrup­tae. Non fu quindi un evento che ferì soltan­to il colpevole (Adamo) ma situandolo in una diversa condizione (status naturae corrup­tae), comportò conseguenze disastrose e funeste per tutti i suoi discendenti i quali vennero necessariamente a trovarsi in tale stato di corruzione, stato di peccato. Il pec­calo originale che accompagna tutti i discen­denti di Adamo è come un nuovo abito (ha­bitus) che li inclina verso il male anziché ver­so il bene: «Il peccato originale è precisa­mente un abito di questo genere. Infatti esso è una disposizione disordinata derivante dal turbamento di quell'armonia che costituiva la giustizia originale: esattamente come la malattia del corpo è una disposizione disor­dinata di esso, la quale turba l’equilibrio che costituisce la salute. Perciò si dice che il pec­cato originale è un'infermità della mente» (I‑II, q. 82, a. 1). Allontanandosi dalla tra­dizione agostiniana che faceva consistere il peccato originale nella concupiscenza, S. Tommaso lo fa consistere nel disordine della volontà. Infatti, argomenta l'Aquinate, «tutto l’ordi­ne della giustizia originale si doveva al fatto che la volontà umana era sottomessa a Dio. Sottomissione che consisteva principalmen­te nella volontà che ha il campito di muove­re tutte le altre facoltà verso il fine. Perciò la volontà, con il suo allontanamento da Dio (ex aversione a Deo) ha portato il disordine in tutte le altre facoltà dell'anima. Ecco quindi che la privazione della giustizia origi­nale, che assicurava la sottomissione della volontà a Dio, è l'elemento formale del pec­cato originale: mentre tutto il disordine del­le altre facoltà ne è come l'elemento mate­riale. Questo ultimo disordine consiste so­prattutto nel fatto che queste facoltà si vol­gono disordinatamente ai beni transitori, e tale disordine con nome generico si può chiamare concupiscenza» (I‑II, q. 82, a. 3). Il peccato originale è una condizione perma­nente (appunto uno status) di allontanamen­to da Dio, e perciò è una condizione perma­nente di peccato. Tuttavia, diversamente da Agostino, il quale nella dura polemica con­tro Pelagio aveva sostenuto che in tale con­dizione l’uomo non sarebbe più in grado di com­piere nessuna azione moralmente buona e che le stesse virtù dei pagani sarebbero vizi mascherati, S. Tommaso non la considera una con­dizione di peccaminosità inevitabile: l’uomo può ancora conoscere il vero con la sua ra­gione (I‑II, q. 109, a. 1) e compiere alcune buone azioni con la sua volontà: «Non es­sendo la natura umana del tutto corrotta dal peccato, al punto di essere privata di ogni bene naturale, l'uomo, nello stato di natura corrotta, può ancora compiere determinati beni particolari, come costruire case, pianta­re vigne, e altre cose del genere; ma non può compiere tutto il bene a lui connaturale, casì da non commettere qualche mancanza. Un infermo, per es., può da se stessa compiere alcuni movimenti, ma non è in grado dì com­piere perfettamente i moti di un uomo sano, se non viene risanato con l'aiuto della medi­cina» (I‑II, q. 109, a. 2).

     Ciò che va rilevato nella dottrina toma­siana del peccato, nella sua essenza e in tutte le sue espressioni, non ha nulla di fatalistico, di fisicalistico o di cosistico, come qualche studioso ha affermato. Per contro la dottrina Tomasiana viene formulata con le categorie del migliore personalismo. Il peccato viene presentato come rottura dei rapporti dell'uomo con Dio: da rapporti di corrispondenza, amore, obbedienza, si trasforma in rapporto di avversione, odio, disobbedienza. Il peccato è allontanamento da Dio (aversio a Deo) in quanto misura e fine ultimo della nostra vita. L'uomo vuol contare esclusivamente sulle sue forze, rientra in se stesso e si chiude. In tal modo si rende schiavo del peccato: di­venta schiavo di se stesso volendo fare lui da padrone. Tutte quelle energie che traggono alimento dal fine ultimo. Dio, cui l'essere umano si trova naturalmente inclinato e chiamato, ora si trovano dirottate verso la propria persona, il nuovo Dio. È una situa­zione nella quale l’uomo, una volta che vi sia en­trato, non trova più scampo. Uno spirito che si sia allontanato da Dio, non potendo ope­rare se non in vista di un fine ultimo, deve trasformarsi in un surrogato di Dio. È que­sta precisamente la misura dell’asservimen­to. Ma uno spirito non più sottomesso a Dio perde anche il potere su altre forze umane, che nella condizione originaria obbedivano spontaneamente ai suoi ordini. Ora si ren­dono indipendenti dal potere della ragione e seguono 1e loro tendenze (I‑II, q. 109, a. 8). I sensi si ribellano e soltanto con grandi sfor­zi la ragione riuscirà a dominarli. Questo profondo disordine è la pena necessaria per il peccato, quella che, come manifestazione empirica, si esprime nella sofferenza. L'A­quinate caratterizza la pena per il peccato in questi termini: «Dio lascia l'uomo in balia della sua natura» (natura humana sibi relin­quitur) (I‑II, q. 87, a. 7). È questa la vera e profonda conseguenza del peccato ma anche al tempo stesso la pena che Dio infligge. Il peccato sta nel fatto che l'uomo rifiuta l'amore e la grazia di quel Dio che lo chiama a vivere in comunione con Lui. E allora Dio rifiuta questo amore all'essere umano, non lo «di­sturba» più, lo lascia solo a se stesso. E la­sciato solo a se stesso l'uomo precipita sempre più in basso.

Impossibilitato a rimettersi da solo sul retto cammino, a causa della profonda di­sgregazione che il peccato ha causato nel suo essere, perché egli possa raggiungere la pie­na realizzazione di se stesso e conseguire co­sì la felicità (beatitudine eterna), Dio stesso gli viene in soccorso, inviando in questo mondo il suo unico Figlio, Gesù Cristo. Questi libera l'uomo dal peccato, cioè dalla aversio a Deo, lo riconcilia con Dio e lo co­stituisce in una nuova condizione di vita: lo status naturae risanatae. In tale stato la ima­go Dei che, col peccato, era stata indebolita e deturpata ma non distrutta, viene ripulita e potenziata: portata al secondo livello per cui può conoscere e amare Dio in maniera attuale, viene messa anche in condizione di raggiungere il terzo livello, in cui conoscerà e amerà Dio in maniera perfetta. L'effetto del risanamento della imago operato da Cri­sto viene espresso da S. Tommaso (come già da S. Agostino) con la dottrina della grazia santi­ficante.

     La grazia viene definita anzitutto, secon­do il linguaggio della Scrittura, come lex no­va: «Principaliter lex nova est ipso gratia Spi­ritus Sancti, quae datar Cristi fidelibus» (I‑II, q. 106, a. 1). Ma poi, a livello di ap­profondimento filosofico, Tommaso ricorre al linguaggio aristotelico e definisce la grazia come forma o qualità. È una nuova forma o qualità che diventa nell'anima sorgente del suo agire soprannaturale; non è quindi sem­plicemente un impulso divino ad agire bene, che rimane al dì fuori di noi; bensì qualche cosa che viene posto da Dio dentro il nostro essere trasformandolo. S. Tommaso lo prova me­diante l'analogia di quanto accade nell’ ordi­ne naturale. In tale ordine «Dio non prov­vede alle creature soltanto muovendole ai loro atti naturali, ma donando loro le forme e le facoltà che sono i principi di codesti atti. perché da se stesse tendano ad essi. Ed è così che i moti impressi da Dio diventano conna­turali e facili alle creature, secondo le parole della Sapienza: “Tutto dispone con soavità”. Perciò a maggior ragione egli infonde forme o qualità soprannaturali (formas vel qualita­tes supernaturales) in coloro che muove al conseguimento di un bene soprannaturale, mediante le quali li muove a raggiungere i beni eterni con soavità e con prontezza. Ec­co quindi che il dono della grazia è una qua­lità» (I‑II, q. 110, a. 2). La grazia risiede di­rettamente nell'essenza stessa dell'anima, non in qualche abito o facoltà, e così rende l'anima partecipe della natura divina: «La grazia, come precede le virtù, così deve ave­re una sede che preceda le potenze dell'anima (dato che le virtù perfezionano le poten­ze): essa cioè deve risiedere nell'essenza del­l'anima. Infatti l'uomo, come partecipa alla conoscenza divina con la virtù della fede me­diante l'intelletto, e all'amore divino con la virtù della carità mediante la facoltà voliti­va; così partecipa alla natura divina, secon­do una certa somiglianza, con una nuova ge­nerazione o creazione, mediante la natura dell'anima» (I‑II, q. 110, a. 4).

     Nella spiegazione del piano soprannaturale Tommaso si serve come modello del piano naturale e ne riprende tutte le linee fondamentali. Ora, poiché l'Aquinate sa be­ne che nel piano naturale l’uomo. oltre a una forma sostanziale, l'anima, possiede anche delle facoltà (e le facoltà spirituali sono tre: memoria, intelletto e volontà), analogamen­te per il piano soprannaturale egli considera necessario dotare l'anima oltre che di una nuova forma, la grazia, anche di tre facoltà: fede, speranza e carità, le quali investono immediatamente le tre potenze maturali tra­sformandole ed elevandole così da metterle in condizione di svolgere atti conformi a quella natura divina, di cui l'anima è resa partecipe mediante la grazia. L'aversio a Deo viene così radicalmente estirpata, men­tre la conversio ad Deum diviene profonda anche se non definitiva. La partecipazione alla vita divina, secondo S. Tommaso, non è una semplice metafora ma una stupenda realtà. Seppure in modo speculare anziché diretto (« a faccia a faccia») mediante la fede, la spe­ranza e la carità, chi è stato rigenerato da Cristo e professa la nova lex, conosce Dio, possiede e ama se stesso (I‑II, q. 110, a. 3). Dobbiamo ripetere qui, a proposito della dottrina tomasiana della grazia, quanto ab­biamo già osservato in precedenza a propo­sito della sua dottrina sul peccato. Lungi dall'intendere il mistero della grazia secon­do schemi fisicalistici, esterioristici, cosistici, come qualcuno gli ha rimproverato, l’Aqui­nate lo interpreta in un senso squisitamente personalistico. La grazia tocca in modo reale e profondo tutto l'essere dell'uomo e lo tocca in maniera tale da trasformare radicalmente il suo agire: mediante la conversio ad Deum e la generazione alla vita divina egli entra nuovamente in rapporti di dialogo, di obbe­dienza, di amore, di pietà filiale verso Dio; e i nuovi rapporti con Dio esigono nuovi rap­porti anche col prossimo: diventano anch'es­si rapporti di fiducia, di dialoga, di solidarie­tà, di amore. L'amore verso Dio e verso il prossimo è la espressione concreta della no­va lex che Cristo ha consegnato all'umanità. Così il circolo dell'amore si chiude: quell’a­more che era partito da Dio per ricondurre l’uomo a se stesso rigenerandolo a nuova vita, ritorna a Dio attraverso l’uomo il quale ora, me­diante la partecipazione alla vita divina, può amare Dio come Lui ama se stesso.

Qui siamo riusciti a tracciare soltanto un abbozzo del pensiero di S. Tommaso sull'uomo sia in sede filosofica che teologica, ma è quanto basta per apprezzarne la enorme ricchezza. La figura dell'uomo, nella triplice condizione: integra, corrotta e rigenerata, che egli ci of­fre è tra le più lucide e complete di quante siano mai state delineate. Ovviamente nep­pure l'antropologia del Dottore Angelico è perfetta; per es., si dice troppo poco della dimensione culturale e storica dell'uomo Ma, quanto meno nelle intenzioni, quello di Tommaso è certamente un umanesimo inte­grale, che rifugge da ogni decurtazione dell’uomo sia sul versante somatico (contro i plato­nici) sia su quello spirituale (contro i mate­rialisti). Ed è inoltre un umanesimo ottimi­stico, che ha fiducia nel destino dell'uomo. S. Tommaso non avrebbe mai condiviso quelle prospetti­ve angosciose sul destino dell'uomo che sono state presentate da qualche teologo prote­stante e dalla maggior parte degli esistenzia­listi. Egli ha un concetto positivo dell’uomo.; sa che Dio non lo abbandona mai, lo insegue sempre col suo amore e non cessa di offrirgli il suo aiuto perché possa giungere alla sal­vezza: «L'uomo caduto in peccato, finché dura lo stato della vita presente, possiede l'attitudine di muoversi al bene, e ne sono segno il desiderio del bene e il dolore del male, che rimangono in noi dopo il peccato (...). L’uomo, dunque, con la potenza di Dio, può essere riportato al bene e, così, con l’aiuto della grazia può ottenere la remissione dei peccati» (C. G., III,  c. 156)

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        Battista Mondin.

        Dizionario enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D'Aquino,

        Edizioni Studio Domenicano, Bologna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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