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QUINTO EVANGELO

Di Giacomo Biffi

UNA SCOPERTA SENSAZIONALE

La notizia sarebbe ancora sotto segreto. Una ristretta commissione di esperti sta faticando con la tranquilla impazienza dei dotti a dare una perfetta edizione critica di tutto il materiale di cui sono avventurosamente venuto in possesso.

In questo genere di lavoro di solito si va per le lunghe. E', gente precisa, puntigliosa. E se c'è in taluni un residuo di italica disinvoltura, è intimidito e come raggelato dal pensiero di quel che potranno dire e scrivere i sapienti d'oltralpe. Sicché ci vorranno degli anni.

D'altronde è urgente a mio parere che questi antichi frammenti si conoscano. La carità mi spinge a violare l'impegno al riserbo, col rischio di incorrere nell'ira dei miei colleghi occhialuti e taciturni. Sono persone miti, inoffensive, laboriose come le api. Nulla è però più duraturo e micidiale dei loro risentimenti, quando vengono stuzzicati nel loro proprio campo.

Tanto più grande e meritevole apparirà il mio amore per la cristianità e per le sue attuali controversie. Ma forse è meglio che cominci a spiegare tutto dal principio.

In principio c'è il commendator Giovanni Migliavacca, anzi Migliavacca commendator Giovanni, come ha impavidamente stampato sui suoi biglietti da visita.

Ci fosse un "trattato sull'industriale milanese", verrebbe riprodotto in copertina come uno dei più perfetti esemplari. Cosa fabbrichi non ho mai ben capito, Qualunque cosa sia, riesce a venderla a tutte le latitudini. Ai suoi tempi ha fatto le "tecniche" alla sera e parla il francese e l'inglese con la stessa difficoltà dell'italiano. Le sue impiegate, di bella presenza, dovrebbero sapere tre lingue. Ma quanto più è bella la presenza, tanto meno si formalizza sulla glottologia. Ma non c'è da pensare male: in ufficio è paterno, ma serio. La segretaria gli serve come l'Enciclopedia Treccani nel soggiorno della sua cosa. Arredano l'ambiente: le guarda con soddisfazione, ma non le tocca. Non vuole complicazioni, né con la moglie né con la cultura.

E' cattolico convinto. Sua moglie difatti va a messa tutte le domeniche libere e sua figlia ha studiato dalle Marcelline.

A parole è fiero oppositore del governo, per via delle tasse. In fondo al cuore spera che le cose non cambino. Egli si è fatto tutto nel ventennio democristiano, e all'epoca del "miracolo economico" è riuscito anche a piazzarsi sui mercati internazionali davanti ai concorrenti francesi e inglesi, ai quali è rimasta sempre in fondo al cuore la persuasione di essere stati raggirati: l'avevano preso per un italiano - spaghetti, mandolino, "dolce far niente" - e quando si sono accorti che era un milanese era già troppo tardi.

Le sue convinzioni sociali sono ben definite: dal Po, in giù sono tutti "terroni", ma la colpa è di Garibaldi che ci ha messo insieme; la politica è una cosa sporca ed è per i meridionali che non sanno far altro, però i sottosegretari si invitano a pranzo anche se sono della Basilicata.

I preti devono interessarsi solo di quel che succede in chiesa, ma anche in chiesa non devono proibire di cantare l'"Ave Maria" durante il matrimonio della sua "bambina", perché "lui paga".

Gli operai fanno sciopero perché non hanno voglia di lavorare come invece lavora lui, che è sulla breccia dall'alba a mezzanotte.

Naturalmente, come tutti i milanesi è convinto di avere il "cuore in mano". Non sfugge a nessuna colletta, a nessuna richiesta. In Valsassina, dove ha la casetta del "vikend" mantiene il riscaldamento all'asilo dei paese. E se il Milan vince il campionato, i frati di Padova ricevono un assegno di sei cifre.

Rispetta tutte le opinioni, tranne quelle dei sindacati e dei tifosi dell'Inter.

Rispetta gli animali, i preti, i carabinieri, a patto che restino tutti a una certa distanza.

Io sono un prete. E tuttavia è mio amico.

E' mio amico fin dall'infanzia. Pur essendo più anziano di me di qualche anno, è stato mio compagno di giochi nel cortiletto dei nostro caseggiato popolare, dalle ringhiere perennemente pavesate di camicie e di mutande, donde occhieggiavano di tanto in tanto le nostre madri a rassicurarsi che la nostra scapestraggine restasse nel limite dei sopportabile.

Poi io ho fatto il prete e lui i soldi, ma siamo rimasti amici lo stesso.

Nell'aprile del '67 - proprio poche settimane prima della "guerra dei sei giorni" - il comm. Giovanni Migliavacca mi dice a bruciapelo: "Vieni a fare un giro con me in Palestina?".

Era a causa del Padre Mariano della televisione. L'aveva sentito una sera che era a letto con l'influenza parlare del paese di Gesù, Nazaret, Gerusalemme, Betlemme, nomi che gli ricordavano il presepio e i pomeriggi domenicali all'oratorio, e gli era venuto il ghiribizzo - come una nostalgia - di andarli a vedere di persona. E aveva trovato naturale pensare a me, prete, come accompagnatore.

La proposta mi provocò una crisi di coscienza. Potevo senza rimorsi spendere tanti soldi per un viaggio, sia pure per un pellegrinaggio in Terra Santa? E' vero che io vedevo tanti miei confratelli - i più informati sui nuovi sviluppi del cristianesimo post-conciliare - andare un po' in tutte le parti dei mondo a dialogare sull'impegno e sul disimpegno, sulla comunità primitiva e sulla povertà evangelica.

Si parlava anzi in quei giorni di un prossimo raduno internazionale alle Isole Bahamas per la riscoperta della Chiesa dei poveri. Io però non sarei andato a dialogare e perciò non avevo scuse.

"Ma ghe pensi mi per la grana", ripeteva spazientito il Migliavacca. Era per la mia coscienza cascare dalla padella nella brace: potevo compromettermi in questo modo con un tipico rappresentante del capitalismo e correre così il rischio di venire perfettamente "integrato nel sistema"?

Alla fine il desiderio fu più forte delle mie titubanze. E così una mattina d'aprile salivo sull'aereo dietro il mio commendatore, con l'eccitazione e la vergogna di un adolescente d'altri tempi che varcasse per la prima volta la soglia di una casa di peccato.

Il resoconto del nostro soggiorno palestinese mi porterebbe fuori argomento. Ai nostri fini basti dire che, esaurita la visita ai luoghi santi e qualche approssimativa devozione, il commendator Giovanni Migliavacca si era abbandonato anche là all'istinto dell'uomo d'affari, e, vestito mezzo americano e mezzo arabo, s'aggirava tutto il giorno per le stradette e le bottegucce tutto intento a farsi spennare da quei musi levantini. Ci vedevamo a cena, quando ritornava carico di tutta la paccottiglia del Medio Oriente.

Una sera mi viene in albergo con un involto misterioso pieno di carte sbrindellate. "Tieni, questa è roba per te che hai studiato il latino. Ho capito subito io che sono stracci del "tempo di Carlo Codiga" o almeno dei Lombardi alla prima crociata".

Già avevo cominciato a canzonarlo, come facevo, ma qualcosa in quei brandelli mi colpì. Si trattava senza dubbio di pergamene di una antichità impressionante. Benché sbiaditi e quasi cancellati dalla polvere e dalle macchie, i segni che vi erano mi apparvero subito come caratteri greci, gli stessi dei più antichi codici del Nuovo Testamento. Metteva conto di considerarli con un po' di attenzione.

L'esame degli esperti, dopo il nostro ritorno, diede risultati sensazionali. Erano frammenti - ci si assicurò della metà del secondo secolo, di uno scritto cristiano che poteva benissimo risalire alla fine del primo. Pagine di un "quinto evangelo" sobrio nella forma e originale nel contenuto, capace di gettare una luce nuovissima sull'autentico insegnamento di Gesù.

Finanziati dall'impagabile commendatore - che si dimostrava tanto più entusiasta quanto meno ci capiva - ci si accinse in équipe, com'è d'obbligo oggi, a preparare l'edizione critica, una fatica che è solo ai suoi inizi.

Quando vedrà la luce, sarà un trauma per il mondo dei dotti. Migliaia di volumi pubblicati dalla cultura tedesca, francese, anglosassone per risolvere la questione sinottica e il problema dell'origine degli evangeli dovranno essere mandati al macero e tutto si dovrà ristudiare da capo. Centinaia di professori universitari vivono oggi ignari i loro ultimi anni di tranquillità prima della disperazione e dell'infarto.

Ma io non posso aspettare l'edizione critica. Ed ecco perché.

Un vento nuovo spira in questi anni sulla cristianità. Idee giovani e vigorose lievitano il popolo di Dio. Sacerdoti, teologi, teologhesse enunciano concetti ogni giorno più sorprendenti, nei linguaggi più disparati, tra la meraviglia attonita degli abitanti di Gerusalemme: è una nuova Pentecoste.

Io sarei stato dall'inizio tra gli ammiratori senza riserve di questo moderno multiforme "annuncio", se non avessi incontrato una difficoltà; tutti questi maestri dichiaravano di voler tornare ai genuini insegnamenti di Gesù, come sono contenuti negli scritti del Nuovo Testamento, senza incrostazioni, senza "superstrutture"; eppure le loro dottrine non mi apparivano suffragate dai testi sacri a nostra disposizione.

Non che mi sembrassero sbagliate. Anzi, mi tutte belle e affascinanti, ma non ne vedevo il fondamento evangelico. Mi mancava il loro collegamento con Cristo e questo mi metteva a disagio. Forse, nei rari momenti di silenzio interiore, metteva a disagio anche, i loro sostenitori.

Ed ecco che quasi per miracolo il collegamento mi veniva offerto dalle cartacce raccolte chissà dove dal commendator Migliavacca Giovanni. Ognuno di quei frammenti sembrava costituire la prova finora mancante alla genuinità biblica delle nuove dottrine. Tutto mi diventava chiaro.

Nessuno si meraviglierà allora dell'entusiasmo che mi ha afferrato alla scoperta, e della mia impazienza, per la quale non ho saputo attendere la famosa edizione scientifica, che ho preannunciato, e mi sono deciso a pubblicare questi testi in una traduzione forse un po' spigliata, ma sostanzialmente fedele, e con un modesto commento illustrativo.

Se incorrerò nel biasimo dei miei colleghi, che pubblicheranno tra non molto in modo impeccabile il testo originale e l'esame comparato delle sue fonti spero almeno di avere la riconoscenza di tutti quei pensatori - si fa per dire - che troveranno in queste brevi pagine una base sicura per i loro ardimenti.

A qualcuno potrà non garbare l'idea del vecchio manoscritto. Non vorremmo si arrivasse addirittura a mettere in dubbio la buona fede nostra o del nostro amico commendatore.

Questi ritrovamenti sono capitati con molta frequenza in questi ultimi secoli, anche ai migliori scrittori; Perché sarebbero interdetti solo al signor Migliavacca? Il quale è decisissimo a non mostrare le sue preziose pergamene a nessun curioso che ne facesse richiesta. E ha invece disposto che alla sua morte vengano consegnate alla Biblioteca Ambrosiana, dove resteranno, custodite con uguale amore, assieme alle pagine autografe del celebre Anonimo manzoniano.

 FRAMMENTO 1

Prostratisi lo adorarono. Poi, aperti i loro scrigni, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra (Mt 2, 11).

Prostratisi lo adorarono. Poi, aperti i loro scrigni, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Ma disse Giuseppe: L'oro non lo possiamo accettare, perchè è segno di ricchezza e contamina chi lo dà e chi lo riceve (Quinto evangelo)

L'episodio dei Magi ci descrive la vicenda spirituale degli uomini di cultura, che, persi nella contemplazione delle loro chimere e attardati dalla selva intricata dei loro ragionamenti, arrivano a Betlemme in ritardo su tutti, a spettacolo finito.

Però ci arrivano, perché nella capanna c'è posto per tutti, perfino per qualche intellettuale.

Anche questo evangelo - come quello di Matteo - tace degli altri Magi, che partiti al seguito della stella sbagliata giunsero chi alla reggia del celeste impero, chi dal Negus degli Etiopi e persero così l'occasione di passare alla storia. Distratti, scombinati, pronti sempre sul terreno pratico ad ogni balordaggine, scelgono per il re dei Giudei i regali meno opportuni. Intanto l'offerta della mirra - che serviva per il trattamento dei cadaveri - era di pessimo gusto per un neonato: non si va a suscitare pensieri di morte laddove è appena sbocciata la vita.

L'incenso poi, avviando l'uso nel cristianesimo di questa materia propria delle corti e dei templi orientali, ha segnato l'inizio del trionfalismo liturgico ed ecclesiastico, che tutti deprechiamo.

Ma con l'oro questi goffi personaggi hanno superato ogni limite prevedibile. Come? Il Figlio di Dio vede la luce in una stalla, si circonda di caprari e di vaccari, volendo in tal modo manifestare la sua volontà di fondare la Chiesa dei poveri, ed ecco che arrivano questi signori a contaminare con la loro ricchezza la pura austerità del quadro. Sotto lo sguardo sbigottito dell'asino e del bue, trovava il suo principio la Chiesa costantiniana.

E' mai possibile che questa Chiesa costantiniana nascesse senza contestazioni? Stando a Matteo sembrerebbe quasi che l'oro - emblema e fonte di ogni corruzione - fosse stato tranquillamente accettato dalla sacra famiglia.

Ma qui veniamo a sapere come si sono svolti veramente i fatti: Giuseppe, uomo taciturno e rude, con dignità e calma, ma con estrema fermezza esprime il suo dissenso, enunciandone la ragione profonda: laddove c'è oro, non ci può essere né Cristo né la Chiesa di Cristo.

Il frammento è tanto più significativo in quanto ci riferisce la sola frase del falegname di Nazaret di cui abbiamo notizia: poche parole che valgono interi decreti conciliari.

E i Magi, con l'inconsapevolezza giuliva dei professori quando si avventurano nel mondo degli uomini, se ne ritornarono per un'altra strada, senza avere neppure il sospetto dei guai che avevano causato alla storia universale.

 FRAMMENTO 2

E le folle gli domandavano: "E allora che cosa dobbiamo fare?". Egli rispondeva: "Chi ha due tuniche ne faccia parte a chi non ne ha e chi ha alimenti faccia altrettanto".

Vennero anche alcuni pubblicani per farsi battezzare e gli dissero: "Maestro che cosa dobbiamo fare? ". Egli rispose "Non esigete di più di quanto vi è stato ordinato". Lo interrogarono anche alcuni soldati: "E noi che cosa dobbiamo fare?". E disse loro: "Non vessate né denunziate falsamente nessuno, e contentatevi delle vostre paghe". (Lc 3, 10-14)

Giovanni diceva alla folla: Chi non ha tunica, la strappi a chi ne ha due, e chi non ha da mangiare faccia altrettanto. E ai pubblicani: Lasciate ai figli di Satana il denaro di Satana. Ai soldati diceva: Gettate lo scudo e la lancia, perché anche solo il portare gli strumenti di guerra, rende partecipi dei peccato di Caino. (Quinto evangelo)

E' un frammento illuminante, liberatore. Noi siamo sempre stati inceppati, nel nostro desiderio di aiutare il mondo moderno, non solo dalle parole di Gesù, ma anche da quelle di Giovanni.

Qui invece il messaggio del Battezzatore appare sotto tutt'altra luce e la sua stessa figura, così trasandata nel vestiario e così irrispettosa delle buone norme del vivere borghese, ci si fa simpatica e più vicina.

"Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha". L'ingenuità di questa proposta denota tra l'altro un'assoluta mancanza di senso del ridicolo, a meno di prenderla come una battuta di spirito. Se sono questi i rimedi proposti dal cristianesimo all'ingiustizia del mondo, sarebbe meglio cambiare dottore. Ma ecco che apprendiamo che tutto deve essere rovesciato. E allora la norma si fa chiara, sensata, ragionevolissima.

L'incoraggiamento poi di Giovanni agli esattori perché proseguano nella loro azione seviziatrice, faceva del Battista una delle figure più ostiche della storia. Che rivoluzionario è mai questo tanto integrato da appoggiare addirittura il fiscalismo statale? La risposta qui riferita fa invece contenti tutti: gli eversori della società ingiusta che in tal modo la possono colpire nel suo punto più sensibile; i "figli di Satana", cui è consentito di godere in pace il loro denaro; e i pubblicani che se ne andranno a cercare un'occupazione meno compromettente.

Infine gli obbiettori di coscienza. Non potevano capacitarsi che proprio il Battezzatore, che per altri versi era un personaggio tanto aderente ai loro ideali, fosse uscito in quella acritica accettazione della vita militare. Come appellarsi al Vangelo, se il precursore stesso aveva esortato i soldati a restare soldati, senza neppure avvedersi delle gravi questioni morali implicate dalle sue parole? Anche a loro questo frammento darà non poco sollievo.

 FRAMMENTO 3

Ed avendolo condotto più in alto, gli mostrò tutti i regni della terra in un solo istante. E il diavolo gli disse: "Io ti darò tutta questa potenza con la loro gloria, perché a me è stata data, e io la dò a chi voglio. Se tu dunque ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo". E Gesù così gli rispose: "Sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e a Lui solo renderai culto" (Lc 4, 5-8)

Ed avendolo condotto più in alto gli mostrò tutti i regni della terra in un solo istante. E il diavolo gli disse: io ti darò tutta questa potenza con la loro gloria, perché a me è stata data e io la dò a chi voglio. Se tu dunque ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo. E Gesù così gli rispose: A parte la pretesa di farti adorare, questa terza proposta mi conviene. lo prendo sotto il mio dominio i regni della terra, perché dov'è la miseria io porti la gioia, dov'è l'ingiustizia io porti la giustizia, dov'è la schiavitù e l'oppressione io porti la libertà, e ci sia pace sulla terra Per tutti i figli dell'uomo. (Quinto evangelo)

Questo modo di concludere l'episodio delle tentazioni ci sembra molto più intelligente di quello riferitoci dalla tradizione sinottica. Nostro Signore si rivela un uomo di grande buon senso, che sa per il bene dell'umanità trascurare le questioni di forma.

Perché rinunciare al dominio sui regni della terra, per poi affannarsi a conquistare il mondo con la missione degli apostoli e la fondazione della Chiesa? Una volta che tutto il potere è di Cristo, anche la cristianizzazione diventa più facile.

Nella versione comune, la condotta di Gesù assomiglia a quella di un partito giustiziere e rivoluzionario che rifiutasse l'offerta di andare pacificamente al governo e si ostinasse a preferire la strada lunga, oscura e senza speranza delle cospirazioni.

C'era, è vero, la poca rispettabilità dell'offerente. Ma se non si deve guardare in bocca al cavallo donato, ancor meno si deve guardare in bocca al donatore dei cavallo. Soprattutto in vista di un fine eccellente, come quello che qui viene enunciato. D'altronde Gesù non cede affatto alle pretese del demonio e non si piega in adorazione. Certo Satana, da buon commerciante, ha cercato di avere il prezzo più alto. Ma non insiste, non fa l'esoso: gli basta che Cristo diventi il dominatore politico degli uomini; anche gratis; anche per uno scopo santissimo.

Qui sorge un problema: è possibile impadronirsi della potenza terrestre senza diventare adoratori di Satana? Sotto il profilo puramente letterario, la risposta dei Signore si sembra un poco retorica. "Pace, giustizia, libertà": sono parole che ci appaiono ormai prive di contenuto. C'è da dire che a quei tempi, che non conoscevano né i discorsi domenicali dei parlamentari, né i messaggi dei capi di stato, quei termini conservavano forse ancora qualche significato.

 FRAMMENTO 4

Visto Gesù venire a lui, gridò: Ecco l'Agnello di Dio che toglie il Peccato del mondo (Gv 1, 29)

Giovanni gridò: Ecco il leone di Giuda, ecco colui che mette giustizia in questo mondo (Quinto evangelo)

Qui c'è un significativo cambio di animale: il leone subentra all'agnello e tutto il vangelo ne viene innegabilmente migliorato.

Senza dubbio l'evangelista Giovanni non deve aver ben capito. Il Precursore aveva descritto il Messia veniente coi tratti più robusti: aveva, parlato di "scure alla radice", di "ventilabro" purificatore, di fuoco. Sicché l'immagine dell'agnello appare decisamente stonata.

Molto meglio il leone. Intanto "è meglio vivere un giorno da leone che cent'anni da pecora". E poi "chi si fa pecora il lupo lo mangia", dice il proverbio; e i proverbi esprimono la saggezza universale, una specie di rivelazione informale della Parola, che solo un eccesso di clericalismo potrebbe suggerirci di trascurare. Tanto più che anche il leone è animale biblico e lo stesso evangelista, quasi pentendosi di quanto scriverà nel quarto vangelo, nell'Apocalisse esclama di Cristo: Ha vinto il leone della tribù di Giuda".

Qualche spirito superficiale potrebbe non capire la questione in tutta la sua gravità: agnello o leone sono tutte bestie, tutte destinate - secondo il profeta Isaia - a pascolare nel medesimo prato.

Invece la sostituzione d'animale è stata decisiva. All'insegna della pecora, il cristianesimo ha continuato a belare la sua nostalgia di giustizia in mezzo a un branco di sopraffattori, lasciando in definitiva tutto immutato. In un mondo di lupi, che bisogno c'era di insegnare agli uomini ad essere agnelli? Chi ci avrebbe guadagnato, all'infuori dei lupi?

Agli oppressi, agli affamati che cosa poteva importare un redentore che togliesse i peccati su di sé e li cancellasse? Non le colpe, ma la miseria e la diseguaglianza essi non riescono a portare da soli e vogliono scaricarsi dalle spalle.

Ma adesso la nostra speranza rinasce col "leone di Giuda".

 FRAMMENTO 5

Venne Gesù in Galilea, annunciando il vangelo di Dio e dicendo: Il tempo è compiuto e il Regno di Dio si è fatto vicino. Fate penitenza e credete nel vangelo. (Mc 1, 14-15)

Gesù cominciò ad annunciare il vangelo e a dire: li tempo è compiuto, il regno è vicino. Fate far penitenza e credete nel vangelo. (Quinto evangelo)

"Fate penitenza" nei vangeli convenzionali non è tanto un'esortazione a mortificarsi, quanto un invito a convertirsi. La "penitenza" evangelica è un'inversione della mentalità.

Quasi a dire: il Regno che si è fatto vicino è il mondo ribaltato; ciò che era piccolo, nel Regno è grande; ciò che era grande, nel Regno è piccolo; ciò che era secondario diventa principale ecc. Sicché chi vuol riuscire ad infilare la porta del Regno, deve capovolgere se stesso: allora entrerà diritto in una città rovesciata.

Questa idea della "penitenza" è accettata dal quinto vangelo, con una delicata variante: "fate far penitenza". Si tratta di esercitarla non più verso l'interno dell'uomo, ma verso l'esterno. Non è chi non veda come in tal modo l'operazione del capovolgimento diventi più facile e più efficace.

Se si tratta di "cambiar testa", molto meglio cambiare quella degli altri. Il polso è più fermo, il cuore più coraggioso quando si opera sulla testa altrui. Ché se aspettiamo che ciascuno cambi la propria, il vecchio mondo non si smantella più.

Questo brevissimo frammento basta da solo a salvare il messaggio di Cristo per i nostri contemporanei. Noi alleniamo noi stessi - nelle nostre riflessioni, nei nostri progetti, nelle nostre scelte - soltanto in vista delle rivendicazioni dei nostri diritti. Tanto a richiamarci ai nostri doveri, ci pensano già gli altri fin troppo. E in questo senso educhiamo i nostri figli. Perciò non siamo più avvezzi a batterci il "mea culpa": il pentimento è un fiore esotico che non può più attecchire nel nostro giardino.

Dobbiamo dunque rinunciare a questa fondamentale idea cristiana? Cominciavamo a temerlo, fino a non abbiamo avuto la fortuna di leggere: "Fate far penitenza". Così la conversione è ancora predicabile. Perfino il rito del "mea culpa" - questo pittoresco residuo del monachesimo medievale - si può salvare. Basta batterlo sulla pancia del vicino. La mano tremerà e i colpi saranno più vigorosi e ben centrati. Si potrà alla luce di questo nuovo insegnamento proporre una variante alle pratiche ascetiche quotidiane. Invece del solito esame di coscienza - abitudine tipica del cristianesimo individualista - proponiamo l' "esame di coscienza della Chiesa". Con umiltà e con gioia ogni sera la riconosceremo peccatrice, faremo il proposito per il giorno dopo di cambiarla per quel che ci sarà consentito e così potremo abbandonarci sereni al sonno del giusto.

 FRAMMENTO 6

Al mattino, prima dell'alba, egli si alzò, uscì e se ne andò in un luogo solitario a pregare. Simone andò a cercarlo coi suoi compagni. E avendolo trovato gli dicono: Tutti ti cercano. (Mc 1, 35-36)

Gli dice Simone: Maestro, non ti apparti mai in un luogo solitario a pregare? Rispose Gesù: La mia preghiera è lavorare per gli altri, la mia solitudine è restare in mezzo alla folla (Quinto evangelo)

La scena di Gesù che ogni tanto si allontana da gente e perfino dal gruppetto degli apostoli e si rifugia nella solitudine ad assaporare nella preghiera e nella meditazione la pienezza della sua comunione col Padre, poteva dar origine a qualche malinteso. In primo luogo sembrava costituire un argomento a favore dell'opportunità dei silenzio - esteriore ed interiore - per la ricerca di Dio e l'audizione della sua voce. Come se la voce di Dio per noi non fosse la voce dei nostri fratelli; anche il grido rauco o la filastrocca lagnosa del canzonettista, il clamore di folla che per le strade reclama giustizia, le storielle insulse dei nostri compagni di viaggio. Il silenzio - questa orribile rivelazione del nulla - non può essere oggi per le persone normali.

Pascal s'ingannava: non è solo il silenzio degli spazi infiniti a spaventarci, è anche quello - raro e a minuti frammenti per fortuna - del nostro piccolo mondo.

Poi c'è l'equivoco della " contemplazione ": oggi giustamente se ne vergognano tutti, anche i cosiddetti ordini contemplativi. Nessuno deve evadere. Non è un po' comodo staccare gli occhi dalla terra per guardare il cielo? Tanto comodo che ci si stupisce che siano così in pochi a volerlo.

Il Dio del cielo è un residuo di mitologia. Dio si è incarnato in ogni scheggia del nostro quotidiano esistere di uomini: bisogna cercarlo lì. Il lavoro, la lotta, la discussione, tutto ciò che ci immerge nella folla, ci pone a contatto con Dio: questa è la preghiera sostanziale.

Simone rivela una mentalità nettamente post-tridentina: "Non ti apparti mai a pregare?". Ma noi abbiamo capito che la religione non è un egoistico rapporto personale coi Creatore, ma la totale fusione del singolo nella comunità: l'importante è l'essere insieme, è l'essere in tanti, è il ripetersi senza stanchezza a vicenda le stesse persuasioni. Chi tace è perduto: finirebbe per essere preso dal dubbio o addirittura da qualche crisi di misticismo.

"Siamo grandi, siamo libere, siamo straordinarie. Siamo gli animali più straordinari della giungla! Lo diciamo tutte, quindi deve essere vero", gridano le Bandar-log. Qualcuno potrebbe maliziosamente vedere raffigurato in questo passo del Libro della Giungla un moderno convegno di pensatori cristiani. Noi - lasciando da parte ogni ironia - pensiamo che, proprio perché scimmie, le Bandar-log si rivelano qui molto vicine all'umanità e al suo commovente tentativo di valicare il vuoto in cui si trova immersa, vivendo in modo più nuovo ed intenso la vita della comunità, all'interno della quale ciascuno può sentirsi davvero grande, libero, straordinario.

L'importante è non restare mai. Neppure per un momento, soli e in silenzio. Si rischierebbe di cominciare a pensare.

 FRAMMENTO 7

Venite dietro a me e io farò di voi dei pescatori di uomini. E subito, abbandonando le loro reti, lo seguirono. E andando avanti vide Giacomo, figlio di Zebedeo e Giovanni suo fratello, anch'essi nella loro barca che stavano riassettando le reti. E subito lì chiamò. E lasciando il loro padre, Zebedeo nella barca coi dipendenti, si misero al suo seguito (Mc 1, 17-20).

Io vi farò diventare Pescatori di uomini. Gli dicono i figli di Zebedeo: Dobbiamo allora lasciare le nostre reti, la nostra barca, il nostro padre per seguirti? Ma Gesù disse: Non sapete quello che dite. Se vi separerete dagli uomini, come potrete pescarli? (Quinto evangelo)

Il testo di Marco segna l'esordio del clericalismo. Quelle reti abbandonate sono gravide più di malanni che di pesci. Gli apostoli con le reti sarebbero

dei fratelli tra i fratelli; gli apostoli stati senza reti sono diventati una casta: è innegabile, sulle rive del lago di Genezaret nascono il "clero" e, per opposizione, i "laici". Se i suoi figli che discendono dalla barca diventano "preti", Zebedeo che ci resta è l'iniziatore dello stato laicale, del quale meriterebbe di essere proclamato patrono.

Il fatto nella sua sostanza è certamente avvenuto: gli apostoli che accompagnano Gesù per le montagne della Giudea non si sono portati con sé gli attrezzi per la pesca né si sono dati la pena di cercarsi un altro lavoro decente. Ma è di estremo interesse sapere che Gesù ha separato la propria responsabilità da questo comportamento.

L'"apostolo" - questa è la sua vera idea - non deve abbandonare il proprio mestiere perché non deve separarsi dagli altri uomini. I dodici l'hanno fatto e appaiono sempre come un gruppo segregato in tutta la vicenda evangelica, ma contro il parere di Cristo. Essi forse si sono clericalizzati per la loro pigrizia, della quale abbiamo un altro indizio di rilievo: la decisione raccontata nel libro degli Atti di non mescolarsi ai fratelli neppure per aiutare a servire alle mense, che non era poi un lavoro troppo pesante, ma di voler restare a parte, per attendere "all'orazione e al ministero della parola" (At 6, 2-4).

Come mai Gesù ha potuto tollerare questo travisamento dei suo pensiero?

Per la sua lungimiranza: egli sapeva che - sia pure dopo molti secoli - si sarebbe scoperta da parte di alcuni la sua vera intenzione e si sarebbe alla fine superato il clericalismo dei figli di Zebedeo.

E per il suo amore di pace: gli apostoli, con la loro mancanza di tatto, avrebbero potuto rinfacciargli il suo abbandono della bottega di carpentiere e ne sarebbe sorta una discussione imbarazzante.

 FRAMMENTO 8

In quel tempo andò sulla montagna a pregare e passò tutta la notte a pregare Dio. Poi, fattosi giorno, chiamò i suoi discepoli e ne scelse

Dodici, ai quali diede il nome di apostoli. (Lc 6, 12-13)

E salì sul monte e chiamò quelli che volle lui. E vennero da lui. E costituì i dodici, perché stessero con lui e per mandarli ad annunciare (Mc 3, 13-14).

In quel tempo passò tutta la notte a presiedere la discussione dell'assemblea dei discepoli per la scelta dei dodici apostoli. Diceva infatti: Nessuno può veramente rappresentare gli altri uomini, se non è eletto da loro. Poi chiamò a sé coloro che l'assemblea aveva indicato (Quinto evangelo)

I passi di Luca e Marco, nei quali l'elezione apostolica sembra piovere dall'alto senza consultazione alcuna della comunità, sono responsabili di una delle più perniciose malattie che hanno nei secoli afflitto la cristianità: l'autoritarismo.

"Come il Padre ha mandato me, così io mando voi " persuasi di questa mistica investitura, come potevano i vescovi resistere alla tentazione di scambiare il proprio cervello con la volta celeste e i loro pensamenti come autentiche rivelazioni dello Spirito di Dio? Nacque così nei pastori della Chiesa l'abitudine di non prendere parere da nessuno, se non da quelli che presumibilmente concordassero in tutto con la loro propria opinione: stile che, nonostante le apparenze, era mantenuto con uguale impegno a tutti i livelli della gerarchia, dagli assistenti di oratorio fino al sommo pontefice.

E' vero che le cattive applicazioni di un principio non sono per sé argomento probante contro la bontà e la verità del principio stesso e non vanno rinnegate le prerogative solo per il timore degli abusi nel loro esercizio. Diversamente noti dovrebbero essere lasciati agli uomini né la lingua né gli organi della riproduzione.

Ma il nostro frammento preferisce colpire il male alla radice, canonizzando per la prima volta il metodo assembleare nella scelta degli uomini nella Chiesa. Qualcuno ha autorevolmente osservato che l'intelligenza di un'assemblea è inversamente proporzionale al numero

dei partecipanti: le più pazzesche decisioni dei dittatori di ogni colore - che sono sempre stati i più fanatici propugnatori del metodo assembleare integrale - hanno avuto l'approvazione frenetica di folle oceaniche, anonime e irresponsabili, che alla resa dei conti sono misteriosamente scomparse. Ma non è il nostro caso. Qui si tratta della comunità che è sotto

l'azione dello Spirito di Dio e perciò ne possiede i carismi.

Piuttosto è tutta una nuova ecclesiologia che si impone da questo quinto evangelo: è la comunità che direttamente riceve il mandato di evangelizzare e di santificare, e non i dodici. O meglio, i dodici mandati

dall'assemblea, la rappresentano e assolvono ai loro compiti in nome e per autorità di tutti i fratelli. Propriamente parlando sono "apostoli" non di Cristo, ma della "ekklesía", che come assegna l'incarico così può revocarlo. La visione " piramidale " è nettamente superata. All'idea "aristocratica" della trama delle diverse "missioni" che compaginerebbero la Chiesa secondo lo schema antico (il Padre manda il Figlio, il Figlio manda l'apostolo, l'apostolo manda il vescovo, il vescovo dà origine alla comunità: idea insostenibile dopo la Rivoluzione francese), subentra una concezione più democratica e moderna.

C'è l'incongruenza di Gesù, l'Apostolo per eccellenza, che essendo mandato dal Padre non sembra desumere la propria missione dall'assemblea dei fedeli. Ma bisogna sperare nel progresso degli studi teologici: chi ci dice che non esista anche un sesto evangelo, nascosto in qualche grotta del Mar Morto, che un giorno ci consentirà di correggere anche questa anomalia?

 FRAMMENTO 9

Voi siete la luce del mondo. Non può essere nascosta una città posta sul monte e neppure accendono una lucerna e la mettono sotto il moggio, ma sopra il candelabro, perché faccia luce a tutti quelli di casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini! Perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. (Mt 5, 14-16)

Voi siete una città nascosta e una lucerna posta sotto il moggio. La vostra luce non abbagli gli uomini, ma risplenda solo al cospetto dei Padre vostro che è nei cieli. (V Evangelo)

Il problema della Chiesa e della sua condizione tra gli uomini è tra i più vivi nella teologia del nostro tempo. Gli ultimi due concili ecumenici ne hanno fatto il tema centrale della loro dottrina.

Solo abbiamo l'impressione che le due pagine di storia ecclesiastica si siano scambiate di posto. Il Concilio Vaticano primo, che poteva ancora contemplare l'esistenza di un "popolo di Dio" credente in Cristo e almeno intenzionalmente sottomesso alla sua legge, ha elaborato la sua ecclesiologia alla luce del concetto di "Signum levatum inter gentes". Ai nostri giorni, quando la Chiesa può al massimo sperare di essere un

"segno" - una voce energica, un chiaro e inaspettato cartello indicatore - per l'umanità che ha smarrito la fede e insieme la consapevolezza del suo destino, il Vaticano secondo ha parlato di "Popolo di Dio". Forse nell'orchestra divina c'è stata qualche confusione tra le partiture.

In realtà ambedue i concili sono usciti di strada. Senza colpa di nessuno però, dal momento che questo quinto evangelo per un gioco misterioso della Provvidenza è stato ritrovato soltanto in quest'epoca post-

conciliare.

La Chiesa dunque non è né un popolo né un segno.

Non é un popolo, perché al di fuori dei piccoli gruppi non c'è Chiesa, ma solo un'entità astratta che ha finora usurpato questo nome. "Dovunque saranno non più di due o tre radunati nel mio nome, io sarò in mezzo a loro" - ha detto Gesù: ne siamo sicuri anche se questa variante di Mt. 18, 20 non è stata purtroppo rintracciata tra le carte del Migliavacca.

Niente città sul monte: la Chiesa è questa rete sotterranea di microscopiche comunità, che si radunano a discutere con molta franchezza e con molta fede se il Signore sia o non sia risorto. L'altra, quella delle cattedrali, non è la Chiesa, è il relitto fossile di una cristianità ormai estinta.

E non può essere un " segno ". Dovrebbe far spicco, gridare il suo messaggio, ascoltato o no che sia, far notare continuamente la sua presenza. Dovrebbe rivestire non solo i preti e le suore, ma tutti i battezzati di un abito diverso, che colpisca, faccia pensare, ricordi. Dovrebbe costruire chiese e perfino campanili, anche soltanto per richiamare l'idea del Regno e di una vita diversa da questa.

Ma ci sarebbero due inconvenienti. Il primo, gravissimo, è che per essere un "segno" deve distinguersi dal mondo, dalle sue convenzioni, dai suoi gusti, e talvolta contrastare con essi. Il secondo è quello di mettere a repentaglio la sua umiltà e il suo amore al nascondimento, rischiando di approdare all'ostentazione e al trionfalismo.

Meglio restare sotto il moggio. C'è tra l'altro il vantaggio che non ci si avvede neppure della differenza quando la lucerna si spegne.

 FRAMMENTO 10

Chi non è con me, è contro di me (Mt 12, 30). Chi non è contro di noi, è per noi (Mc 9, 40).

Chi è contro di noi, è per noi (Quinto evangelo).

Una certa confusione è presente, come sì vede, già nei vangeli canonici. Mentre l'aforisma di Matteo denota un atteggiamento di intransigenza e di massimalismo da Controriforma, quello citato da Marco si intona con la larghezza di spirito proprio del Concilio Vaticano II.

Luca, che ha la vocazione dei pacificatore, a buon conto li riferisce ambedue, lasciando ai suoi lettori il compito di trovare la giustificazione logica dell'accordo (Lc 9, 50; 11, 23).

Ma sopravviene il quinto evangelo e ogni tentativo di concordismo appare del tutto inutile.

Chi giova di più al Regno?

Coloro che vivendo dall'interno la vita della Chiesa si lasciano avvolgere dalla forza persuasiva e trasformante della Parola di Dio; tengono desta l'attesa dell'incontro col Signore, e si studiano di vivere ogni giorno nel silenzio e nel nascondimento la vita d'amore per Dio e per gli altri, persuasi che il più bel regalo che possono fare agli uomini è la loro stessa esistenza cristiana, che diventa luce per gli smarriti, pace per gli inquieti, inquietudine per i sazi; oppure i cristiani "anonimi", coloro che dal di fuori, lavorano ignari per la causa della verità e della giustizia, con onestà, con disinteresse, con sincero desiderio di ricerca?

Né gli uni né gli altri, ci dice il nostro frammento. La questione è superata. I più efficaci artefici del Regno sono i demolitori dall'interno. Quelli che combattendo e perfino irridendo la fede dei semplici, li costringono a farsi adulti; quelli che lottando contro ogni struttura e ogni autorità impongono a tutti un salutare stato di incertezza, di smarrimento, di angosciata perplessità, ben lontano da ogni serenità illusoria e antievangelica; quelli che nella propria casa sanno cogliere il male anche quando è scarso, senza lasciarsi incantate dal bene, anche quando è copioso.

E' vero: è una misteriosa e valida legge dello spirito, che non arrivano a percepire il male negli altri, se non quelli che hanno una insufficiente esperienza del bene nel loro cuore. Benedetta allora la trave che c'è nell'occhio nostro, se proprio essa ci consente di cogliere la più piccola pagliuzza nell'occhio della Chiesa, e di procedere senza sentimentalismi alla correzione di questa nostra indocile madre.

Si sa: l'educazione dei genitori è l'opera più difficile, ma anche la più meritoria. E sarà anche la meglio ricompensata. Cristo ci sarà senza dubbio riconoscente per questa nostra capacità di trovare le rughe sul volto della sua sposa e a tempo debito non mancherà di manifestarci sensibilmente la sua gratitudine.

 FRAMMENTO 11

Ti benedico o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai furbi e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11, 25)

Ti ringrazio o Padre perché hai voluto rivelare i misteri del Regno ai dotti e agli intelligenti,- che così li potranno spiegare ai semplici (V Evangelo)

 L'importanza di questo frammento sta nel fatto che esso fonda lo "status" dei teologi professionisti nella Chiesa; status che finora mancava di un supporto biblico evidente.

Che i dotti e gli intelligenti di cui qui si parla siano gli insegnanti della "sacra doctrina" è fuori discussione. Quali altri potrebbero meritare questa qualifica? Non certo i vescovi che di intelligenza non sono privi, ma per modestia non ne fanno sfoggio troppo frequente e hanno la cultura tra i cari ricordi della loro giovinezza.

D'altronde, se non fosse possibile attribuire a loro neppure questo accenno evangelico, come potrebbero i teologi rivendicare la più sacrosanta delle loro libertà, quella dal Magistero, senza di che finirebbero per essere confusi con i fedeli?

Essi cercano talvolta di appoggiarsi ad altri passi quali l'esortazione di Paolo a Timoteo di predicare la parola "opportune et importune", cioè a proposito e a sproposito [Cfr. Concilium, anno V, fasc. I, 1969]. Ma illegittimamente, poiché il diritto di parlare a sproposito è sempre stato una prerogativa episcopale: Timoteo è senza dubbio insignito del carisma apostolico.

La Rivelazione, ci si dice, discende dai teologi ai "semplici". Si chiarisce

In tal modo che i "magistri" cui sono stati affidati i misteri dei Regno - anche se hanno l'obbligo di recarsi alla scuola di tutti pensatori alieni dalla fede, per evitare il pericolo di arroccarsi nella loro inespugnabile cittadella e di costituire come un corpo estraneo nell'odierna società - non devono affatto preoccuparsi delle opinioni del popolo cristiano devoto, quello, per intenderci, che viene ancora a messa la domenica e crede negli angeli custodi.

Sarà piuttosto il popolo cristiano devoto a doversi preoccupare del continuo del continuo superamento del pensiero teologico e a inseguirlo come potrà.

Come si vede, secondo un ordine prestabilito discende per gradi la verità nel popolo di Dio.

 FRAMMENTO 12

Avete udito che è stato detto: non commettere adulterio. Io invece vi dico: Chiunque guarda una donna con desiderio ha già commesso con lei adulterio nel suo Cuore (Mt 5, 27-28)

Vi era stato detto: Chiunque guarda una donna con desiderio impuro, ha già commesso con lei adulterio nel suo cuore. Ma adesso io vi dico: Non bisogna esagerare. La donna è fatta per l'uomo e l'uomo per la donna. Purché tutto si faccia per amore (Quinto evangelo).

E' questo il solo frammento che, richiamandosi esplicitamente a un loghion registrato dai vangeli tradizionali, lo supera per approdare a una visione più alta e rasserenante.

Ed è una fortuna incalcolabile che sia stato scoperto. Il discorso della montagna nella sua forma fin qui nota poteva essere proposto a una società prefreudiana, non alla nostra, che ha finalmente le idee chiare sull'uomo e sulla donna: essa sa che il sesso è una realtà così semplice e innocente, da non meritare l'attenzione ossessiva che da sempre gli ha prestato la

morale comune; e insieme è una forza tanto travolgente e fondamentale per l'uomo, che deve invincibilmente assorbire e marchiare ogni suo pensiero, ogni suo impulso, ogni suo momento di vita.

Con divina intelligenza, Gesù in questo testo non aggredisce dal di fuori l'impulso sessuale per coartarlo con norme oggettive, ma cerca di lievitarlo dal di dentro, facendone essenzialmente un'espressione d'amore e quindi un incontro personale, dove è irrilevante la natura di ciò che si compie, perchè tutto si valuta dalla capacità di comunione che è insita nella reciproca attrattiva e nella reciproca donazione.

Si arriva in tal modo alla perfetta libertà interiore, che tutto consente, tranne l'ipocrisia o la debolezza di sentirsi attratti da impegni, da vincoli, da considerazioni esterni all'impulso d'amore.

Una libertà dove ogni timidezza deve essere travalicata da un'audacia autenticamente evangelica: sicché se il tuo occhio destro non ci vede bene, tu guarda con il sinistro, e se la tua mano destra è troppo cauta, adopera la sinistra.

Tuttavia, nota acutamente il Maestro, "non bisogna esagerare". L'invito è nel frammento rivolto ai puritani e agli inibiti. Ma noi, coll'equilibrio che ci contraddistingue, lo estendiamo anche all'altro fronte: per una sana attività sessuale, sia pure non inceppata da inutili moralismi, una certa moderazione è salutare.

 FRAMMENTO 13

Chi rimanda la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio nei confronti della prima; e se una donna ripudia suo marito e ne sposa un altro, commette adulterio (Mc 10, 11-12).

Se qualcuno rimanda la propria moglie e ne sposa un'altra - a meno che la prima sia imbruttita ai suoi occhi - commette adulterio. Chi poi sposa la divorziata compie un vero atto di carità. (Quinto Evangelo)

Abbiamo qualche dubbio sull'autenticità di questo frammento. Da tutto il quinto evangelo Gesù appare come un uomo dalla straordinaria larghezza di idee, ma c'è un limite a tutto. Qui si difende non solo il divorzio, ma addirittura il libero amore. Anche la citazione della regina delle virtù, la carità, appare almeno sorprendente in questo contesto.

Sicchè ci sembra legittimo il sospetto - anche se non c'è nulla sotto il profilo della critica testuale che ci dia argomenti atti a convalidarlo - che queste righe siano state introdotte da qualche copista malevolo, al fine di screditare tutto il nostro prezioso manoscritto. Tuttavia, sia o no opera di un falsario, questo brevissimo brano ha per lo meno, circa il divorzio, il pregio della limpidità.

A nostro avviso su questo argomento le posizioni veramente logiche sono due. O si accetta che l'unione sponsale crea tra i partecipanti una vivente unità che tocca le radici profonde dell'essere e soggiace intatta a tutte le sopravvenienti vicissitudini della vita: "un solo corpo", come si esprime la Scrittura; e in tal caso è del tutto inutile andare alla ricerca di casi pietosi o drammatici che giustificherebbero la divisione: come non si può più sopprimere un nuovo essere cui s'è dato l'esistenza, così quest'"unico corpo" resta al di là delle volontà che l'hanno costituito. O non si ammette che questo nuovo essere esista, e allora è abbastanza ipocrita stendere l'elenco delle situazioni che legittimerebbero il divorzio: non ne esiste nessuna più grave della mancanza di amore. Se c'è amore, anche l'ergastolo o il manicomio di uno dei coniugi non sono ragioni sufficienti; se non c'è amore, anche l'ergastolo o il manicomio non riuscirebbero a rendere il vincolo più insopportabile di quanto già non sia.

In conclusione se non si volesse accettare l'idea prenapoleonica dell'indissolubilità e si decidesse di prestare fede a questo quinto evangelo, il libero amore resterebbe di questo problema l'unica soluzione schietta, coerente, totale.

 FRAMMENTO 14

Il Regno di Dio è simile a un uomo che ha seminato grano nel campo. Dorma o sia levato, di notte o di giorno, il grano germoglia e cresce senza che egli lo sappia. La terra produce spontaneamente lo stelo, poi la spiga, poi il grano nella spiga. E quando il frutto è pronto, egli vi mette la falce, perché la messe è matura. (Mc 4, 26-29)

Il Regno di Dio è simile a un uomo che avendo seminato nel suo campo non si dà più pace, non dorme di notte, non sta fermo di giorno, e non si rassegna ad aspettare fino al tempo dei raccolto. (Quinto Evangelo)

Questa parabola è rivolta a scuotere dalla sonnolenza i pacifisti del Regno di Dio, quelli che, col pretesto della fiducia nella Provvidenza e nella forza interiore della Parola e dei sacramenti, cercano di sottrarsi all'angoscia e all'inquietudine, sentimenti caratteristici del vero cristiano.

In un mondo che è diventato in tutto problematico, la ricerca della serenità di spirito costituisce un peccato di egoismo. In un tempo che scandisce le sue ore all'insegna della frenesia, dove tutto è affanno, agitazione, apprensione, cruccio, irrequietezza, tormento, travaglio, parlare di pace interiore significa colpevolmente separarsi dalla condizione umana e perfino irriderla senza sensibilità.

Anzi il cristianesimo aggiunge altri e più sottili motivi di malessere e di rodimento a quelli che gli uomini possiedono in conto proprio e, se ci è consentito usare questo linguaggio, ne sublima ed esaspera la drammaticità.

La parabola è poi un correttivo mirabile a quella deformazione teologica che è l'"escatologismo ", cioè la facilità con cui ci si perde nella contemplazione della fine del mondo e ci si dispensa - in vista dell'immancabile venuta del Regno di Dio - dalla ricerca del successo immediato.

Se questo stato d'animo prevalesse, allora necessariamente l'angoscia - questa fondamentale virtù cristiana, questo regalo del cielo a una terra troppo tranquilla - non riuscirebbe a sostenersi e si piomberebbe in una placidità indegna di un discepolo di colui che ha detto: "Io sono venuto a portare non la pace ma la spada". Per fortuna questa malattia non è ora troppo diffusa: sono, grazie al cielo, molto numerosi gli apostoli che non concedendo tregua né a sé né agli altri, né di giorno né di notte, si costituiscono candidati per l'esaurimento e per l'infarto, autentiche e meritorie forme di martirio della vita moderna.

 FRAMMENTO 15

Ogni scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli è simile a un padrone che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie (Mt 13, 52)

Colui che è esperto nella dottrina dei Regno di Dio è simile ad un padrone di casa che non può soffrire le cose vecchie, e getta via prima di sera ciò che ha comperato alla mattina (Quinto Evangelo)

Come capita spesso ai personaggi delle parabole, anche questo padre di famiglia ha un comportamento stravagante. Si potrebbe addirittura parlare di una vera e propria mania, con diritto a un posto nell'elenco delle aberrazioni mentali.

Ma al di sotto di questo rivestimento letterario c'è uno dei più decisivi insegnamenti evangelici. il cristianesimo è la religione del "nuovo".

In esso ciò che è vecchio è irrimediabilmente condannato.

C'è però una misteriosa legge dell'esistenza per cui il "vecchio" e il "nuovo" non sono due categorie della realtà avulse tra loro e perfettamente incomunicabili: anzi il vecchio di oggi è il nuovo di ieri, e il nuovo di oggi sarà il vecchio di domani. Sicché il culto della novità comporta necessariamente lo spasimo del cambiamento.

A ben guardare è questa la prerogativa della giovinezza spirituale. Chi non muta è decrepito, chi è ancora capace di mutate è giovane di spirito, chi poi è incapace di non mutare è arrivato a mentalità di fanciullo che assegna i posti più alti nel Regno dei cieli.

E non è a credere che tutto questo valga solo nel campo della moda, del linguaggio, delle mogli, dei gusti musicali, delle consuetudini di vita, dove le variazioni esprimono senza dubbio la floridezza di una personalità. Anche nel campo delle convinzioni vige la stessa legge.

Alle antiche filosofie che rozzamente classificavano i concetti in veri e falsi, giusti ed errati, è subentrata una concezione più sottile, più sfumata, soprattutto più aderente alla vita - la quale è un perpetuo fluire e ha in orrore ogni fossilizzazione - per cui il giudizio di merito per le idee, come per le uova, è stabilito dal loro grado di freschezza.

Si determina così nel cristiano "giovane" la corsa all'ultimo ritrovato, che è caratteristica della civiltà dei consumi; corsa affannosa all'ultimo ritrovato del mattino è il penultimo della sera.

Non sappiamo nascondere una certa pena nei confronti del padrone che ci ha offerto lo spunto per queste note: è così occupato a cambiare l'arredamento che non ha mai il tempo di prendere stabilmente dimora. Sempre intento a preparare una vita che non vive mai.

 FRAMMENTO 16

Capita dei Regno dei cieli come di un ladro che, entrato di notte in casa di un uomo ricco, non vede il cofanetto pieno di gioielli preziosi e s'affanna a forzare la cassaforte, dove sul far dell'alba, impaziente ed esausto, trova solo il testamento del padrone e le sue lettere d'amore. (Quinto Evangelo)

Questa parabola che - tranne per la figura del ladro - è del tutto originale, non ci riesce di facile penetrazione. Rinunciamo perciò al solito commento, pregando al tempo stesso gli eventuali lettori di inviarci al più presto la loro esegesi.

L'analisi che sarà giudicata migliore dalla commissione dei nostri esperti verrà pubblicata nella seconda edizione di questo evangelo.

FRAMMENTO 17

Il Regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio, ma tutti gli invitati rifiutarono di venire. Allora fu radunato il consiglio della corona e si ricercarono le cause dell'insuccesso.
E uno disse: I servi hanno sbagliato l'ora, dovevano studiare il momento opportuno.
E un altro disse: Non dovevano presentarsi con la loro livrea, ma vestiti come tutti gli altri.
E un terzo: Non hanno saputo capire la mentalità dei destinatari e adattarsi al loro linguaggio.
Uno osservò: Forse non sono venuti perché non avevano voglia di venire.
Ma tutti gli diedero contro
(Quinto Evangelo)

Rinunciamo anche qui al solito commento per l'opposta ragione. Il senso di questa parabola ci sembra ovvio. Ci limitiamo soltanto a una nota di biasimo all'indirizzo dell'ultimo consigliere che con spirito superficiale e qualunquista ha potuto pensare a una soluzione tanto semplice dell'enigma.

 FRAMMENTO 18

Il Regno di Dio è simile a un suonatore di flauto chiamato a una danza di gente svogliata. Suona un motivo allegro e nessuno balla, suona una nenia funebre e nessuno piange. E più cambia e più la gente si disinteressa di lui. (Quinto Evangelo)

Se non vediamo male, l'insegnamento di questa parabola è in netto contrasto con quanto è detto nel quindicesimo frammento.

Il nostro parere è che queste righe siano frutto di interpolazione e pertanto non possano essere accolte come parte di questo quinto evangelo.

Per questa ragione rinunciamo a qualunque tentativo di illustrazione.

 FRAMMENTO 19

Il Regno dei cieli è simile a un mercante in cerca di perle preziose. Avendone trovata una di gran pregio, va, vende tutto ciò che possiede e compera quella perla (Mt 13, 45-46)

Il Regno dei cieli è simile a un saggio mercante di perle, che avendone trovata una preziosa cerca di tirare di prezzo perché non vuol rinunciare né alla perla né al suo denaro (Quinto Evangelo).

E' una condanna inequivocabile dell'integralismo e insieme una più umana presentazione del messaggio di Cristo.

L'uomo aborre da ogni posizione esclusiva. Raramente vuole una cosa sola. Ogni piccola scelta comporta una grande rinuncia, perciò dalle scelte si cerca di rifuggire. Spesso non ce se ne avvede neppure: ogni atto di volontà che si porti su un oggetto, include altri atti, altri oggetti, diversi o addirittura in contrasto. Sotto questo profilo la poligamia è molto più radicata nel mistero del cuore umano di quanto comunemente si creda.

Non sempre le iniziative di Dio tengono conto di questa caratteristica della nostra natura. Tutti i guai dell'umanità sono derivati dalla prodigalità divina. Dio chiama l'uomo ad altezze incredibili, lo vuole partecipe della conoscenza, dell'amore, della vita che anima e fa ricca dall'interno la natura stessa del Creatore. Noi siamo invece gente modesta. A noi basterebbe una piccola felicità terrestre da sbocconcellare tranquilli in qualche oscuro angolo dell'universo. La nostra superiore vocazione mal si sposa con la nostra mediocrità: tra le pretese dei Signore e le limitate aspirazioni del servo il matrimonio è mal combinato.

Il peccato di Adamo forse sta proprio in questo: il desiderio - più che del male, che sarebbe inspiegabile in un essere equilibrato e innocente - di una

"pura natura" rassicurante di fronte alle ebbrezze vertiginose del "soprannaturale".

Con un Dio dalle idee tanto grandi, noi siamo costretti a difendere piuttosto energicamente la nostra banalità. E' un Dio focoso e imprudente: a noi tocca perciò custodire un po' di saggezza.

Poiché il nostro sogno è l'appartamento di tre locali più i servizi, non ci sentiamo attirati dalle praterie sconfinate del Regno.

O meglio, potremmo anche rassegnarci alla Gerusalemme celeste, purché i tre locali più i servizi ci vengano intanto lasciati.

Ci piace la perla, ma ci piace anche il nostro poco denaro, caldo, palpitante, palpabile, sicuro. E ci conforta il sapere che anche Gesù a un certo momento si è deciso a moderare l'esuberanza integralista del Padre e a convenire sulla bontà della strada di mezzo e delle piccole aspirazioni comuni.

FRAMMENTO 20

Secondo voi, se un uomo possiede cento pecore e ne perde una, non lascia le altre novantanove il sicuro sui monti per andare alla ricerca della smarrita, E se riesce a ritrovarla, in verità vi dico, ha più gioia per questa che non per le novantanove che non si sono perdute. (Mt 18, 12-13)

Il Regno dei cieli è simile a un pastore che avendo cento pecore e avendone perdute novantanove, rimprovera l'ultima pecora per la sua scarsità di iniziativa, la caccia via e, chiuso l'ovile, se ne va all'osteria a discutere di pastorizia (Quinto evangelo).

Cominciamo ad applaudire alle novantanove pecore perdute: non è un comune smarrimento il loro, piuttosto è una forma di protesta contro l'idea stessa di ovile.

L'immagine dell'ovile evoca la recinzione, la chiusura, la segregazione dagli altri. Come possono gli "altri" unirsi al gregge, se a un certo momento nel loro cammino si imbattono in una barriera?

Senza dire che la vita di ghetto - al riparo dal pericoli, ma anche dalle emozioni dell'avventura - finisce per deformare la personalità e ingenerare dei complessi, di inferiorità o di superiorità a seconda dei temperamenti, da cui difficilmente si guarisce. Meglio per una pecora il rischio del lupo che la certezza dell'avvilimento nell'ovile.

Può capitare che il pastore non sia sufficientemente perspicace per rendersene conto: in tal caso bisogna avere il coraggio di forzare la mano. L'esodo di massa, registrato nella parabola, è il mezzo più efficace per fare intendere la ragione a chi si ostina a chiudere gli occhi. Una volta smantellato l'ovile, allora si potrà tornare tutti insieme: pecore, lupi e altri animali, e ci sarà un solo branco senza un solo pastore.

Nella parabola però il pastore capisce la ragione, tanto che si secca per l'unica pecora rimasta.

Quest'animale - cui va riconosciuto obbiettivamente un certo non conformismo - basta da solo a rovinare l'avvento di un'epoca nuova: finché c'è lui c'è l'ovile, e finché c'è l'ovile, le pecore in libertà avranno qualche inquietudine sulla saggezza della loro evasione. E non è bene: anche ad essere ben divorate giova una certa interiore tranquillità.

Fuori dunque, o pecora renitente! Ti si deve necessariamente costringere ad essere libera. Anche perché tu, da sola, fai perdere al tuo custode tempo e fatica, e impedisci così il progresso della cultura. Solo quando anche tu avrai preso coraggiosamente il sentiero del bosco, il pastore potrà discutere coi suoi colleghi i mezzi più adatti per far prosperare un allevamento. Solo quando non ci sarà più l'ovile (e neppure le pecore) si potrà elaborare in tutto il suo rigore scientifico - senza compromessi con le condizioni concrete e con la sopravvivenza delle concezioni superate - una vera e compiuta teologia pastorale.

 FRAMMENTO 21

Che giova all'uomo conquistare il mondo intero, se poi perde la propria anima? (Mt 16, 26)

Che giova all'uomo salvare la propria anima, se poi non riesce a conquistare il mondo? (Quinto Evangelo)

 Si noterà come il testo di Matteo sia perfettamente antitetico al nostro. E' probabile che un copista distratto abbia scambiato tra loro i termini "anima" e "mondo", dandoci così nel primo evangelo un insegnamento addirittura opposto a quello veramente inteso dal Signore.

Si noterà anche come questo frammento riesca finalmente a concordare l'idea della "alienazione" (di origine marxista ma oggi assioma fondamentale di tutto il pensiero cristiano contemporaneo) con la predicazione di Cristo.

Veramente il concetto era implicito anche negli evangeli canonici. Per essi "alienato" è l'uomo che, creato per conoscere, amare e servire Dio, si perde nella conquista della terra; destinato a una vita eterna, si lascia prendere dall'affanno del giorno; in grado di conoscere dalla meditazione della Parola le ultime notizie sul mondo e sul Regno, è avido di ascoltare

il telegiornale e di leggere le riviste di attualità cattolica.

Analogamente "alienato" è il cristiano che essendo incapace di adempiere al suo compito di testimoniare le cose dell'alto, "dove Cristo è assiso alla destra del Padre ", cerca di farsi perdonare la propria fede rivestendola di un umanitarismo inconcludente o identificandola con la rivoluzione e la violenza.

Sulla stessa linea "alienato" è il prete che non riuscendo a interessare al Regno i suoi parrocchiani o anche solo a organizzare i suoi chierichetti, evade dalla sua missione specifica nelle "questioni di fondo" e nei "problemi generali".

Questo concetto di "alienazione" però ha il demerito di essere scandalosamente originale. Per esso la causa prima dell'infelicità umana non starebbe tanto nelle strutture opprimenti quanto nello smarrimento dell'ultimo fine: un uomo che non conosce più la ragione essenziale del suo stesso esistere non può non essere un candidato alla disperazione, dalla quale si difende come può.

Ma tutti vedono come questa idea sia inaccettabile. farebbe del cristianesimo una concezione non solo estranea, ma addirittura ribelle alle filosofie oggi più accreditate. Uno che a tutti costi la sostenesse, si porrebbe per ciò stesso al di fuori della storia e riuscirebbe incomprensibile ai suoi contemporanei.

Il quinto evangelo ci inette provvidenzialmente in guardia: non lasciamoci distrarre dalle solite banalità sulla salvezza dell'anima e sul Paradiso. Il vero cristiano sa che la sua unica legittima preoccupazione è la conquista del mondo; non per volontà di dominio, si capisce, ma per assicurare a tutti giustizia, felicita, benessere e, se è possibile, una perfetta riposante oscurità circa il significato della vita.

 FRAMMENTO 22

Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato prima me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe la sua proprietà: ma poiché non siete dal mondo e io vi ho presi dal mondo, per questo il mondo vi odia. (Gv 15, 18-19)

Se il mondo vi odia, è segno che non lo capite. Conformatevi al mondo e il mondo vi salverà. (Quinto evangelo)

L'attitudine da prendersi nei confronti del mondo ha subito ai nostri giorni nell'insegnamento dei migliori teologi e nella convinzione dei cristiani più illuminati un'accelerata evoluzione.

"Fuggiamo il mondo!", dicevano gli antichi asceti. "Salviamo il mondo!", ribattevano gli apostoli di tutti i tempi. E per secoli la disputa si sostanziò della contrapposizione di questi due enunciati, senza che fosse possibile risolverla con la soppressione di uno dei termini. Se pur disputa c'era: in realtà il mistico anche nella sua solitudine si sentiva al servizio della salvezza dei fratelli e l'apostolo nel suo lavoro per gli altri cercava di non soggiacere ai dettami della società mondana.

Ma in questi ultimi tempi abbiamo compreso che il torto era di entrambi. Il mondo non deve essere né fuggito né salvato: è già salvo da sé, Perché tutto quello che c'è in esso, tutte le sue idee, le sue aspirazioni, le sue abitudini, hanno una loro Positiva bontà, che attende solo di essere capita e apprezzata.

Anzi, e qui la nuova luce raggiunge il pieno meriggio, occorre lasciarsi salvare dal mondo: chi se ne distacca o, peggio, chi tenta di opporre resistenza, è irrimediabilmente perduto.

Così noi oggi ammiriamo l'umiltà e la larghezza di spirito dei nuovi cristiani che invocano ogni giorno più intensamente per sé e per la Chiesa quella redenzione che solo il mondo può apportare: chi altri ci può liberare dalla nostra angusta visione della realtà, dalle inibizioni e dalle remore di natura morale, dalla mania aberrante del sacrificio, della rinuncia, del senso del dovere?

C'è chi mutua dal mondo (ma forse qui si esagera un po') perfino il riscatto dalla concezione di un Dio trascendente, e in fin dei conti oppressivo, che antecedentemente al parere della nostra coscienza decida del bene e del male.

"Conformatevi al mondo e il mondo vi salverà!". Nonostante l'apparente contraddizione, abbiamo qui espressa con forza la legge suprema dell'anticonformismo, l'unica ad essere cordialmente e universalmente accettata. Tutti siamo anticonformisti e spesso in un modo veramente inaspettato.

Anticonformista è colui che coraggiosamente decide di non andare più a messa in un'epoca in cui il novanta per cento non ci va.

Anticonformista è colui che sa oltrepassare tutti i tabù sessuali, dal momento che "fanno tutti così". Anticonformista è quell'uomo che sa perfino vestirsi come la sua bisnonna, purché lo facciano al tempo stesso tutti quelli della sua tribù.

Anticonformista è chi accetta questa concezione dell'anticonformismo, poiché non è contestata da nessuno.

"Per il mondo non prego", avrebbe detto Gesù secondo l'evangelo di Giovanni. Ci ha sempre lasciati perplessi questa frase senza misericordia. Ma forse adesso ne cogliamo il significato: non dobbiamo pregare per il mondo, che non ha nessun bisogno della nostra preghiera. Noi piuttosto abbiamo bisogno del mondo, se non vogliamo essere relegati in un angolo coi nostri inutili rimpianti, solitari conformisti che fanno vergognosamente spicco nell'anticonformismo universale.

 FRAMMENTO 23

Se vuoi entrate nella vita, osserva i comandamenti (Mt 19, 17)

Se vuoi entrate nella vita eterna, osserva i dettami della tua coscienza. (Quinto evangelo)

Questo frammento formerà senza dubbio la gioia dei moralisti contemporanei, i quali tendono ogni giorno di più a semplificare il loro compito con l'appello alla coscienza del singolo.

Soprattutto darà una chiara giustificazione biblica all'idea, sempre più diffusa tra i cristiani, che non va ricercata nessun altra regola di moralità al di fuori del sentimento interiore del bene e del male.

Per la verità non si tratta di una nuova dottrina: da sempre la morale cristiana ha insegnato che la norma propria dell'agire per l'uomo concreto è la sua coscienza personale, che egli deve sempre seguire, qualunque cosa comandi o proibisca.

La novità consiste piuttosto in una rinnovata concezione, della coscienza e delle sue funzioni. La mentalità antica riteneva che la coscienza fosse soltanto l'altoparlante interiore in grado di trasmettere la legge di Dio: era perciò essenziale ad essa la capacità di restare in sintonia con la voce divina; senza di che, diventava inservibile come una radio ricevente che non riuscisse più a mantenere il collegamento con l'emittente voluta. In questa visione, il primo compito imposto dalla coscienza non era di rinvenire dentro di sé i suoi contenuti, ma di ricercarli nei comandi del Signore. Il primo imperativo della coscienza era di scrutare la legge.

Secondo l'opinione che oggi si generalizza invece, la coscienza non pare debba uscire da se stessa: stia attenta ai propri desideri, alle proprie ritrosie, ai propri entusiasmi, ai propri languori, e non avrà bisogno d'altro. La conoscenza delle norme oggettive le è estranea e quindi indifferente.

E così si è finalmente venuti a capo di un equivoco: si era fino a questo momento pensato che la coscienza fosse un mezzo dato da Dio per far conoscere la sua volontà: si è adesso capito che essa è in realtà un regalo molto più prezioso; è un mezzo per dispensare l'uomo dall'incomodo di conoscere la volontà di Dio. Tutto è così reso più facile: la coscienza è l'abolizione della legge. E' la liberazione dalla schiavitù dei precetti e della casistica. L'imperativo morale è perfettamente semplificato:

- sono leciti i rapporti prematrimoniali? segui la tua coscienza;

- come devo compilare denuncia dei redditi? segui la tua coscienza;

- mi è lecito compiere un aborto, se ho già tre figli da mantenere? segui la tua coscienza. La quale non va affatto informata, ma solo seguita.

E non è appena il mestiere di moralista a venire in tal modo agevolato, è anche quello più impegnativo di uomo.

Tanto più che, nonostante le apparenze, non c'è nulla di più arrendevole della coscienza che non si raffronti continuamente con la legge divina. All'uomo che obbedisce alla coscienza senza preoccuparsi affatto di conoscere il parere di Dio, la ricompensa è immanente: la coscienza finisce sempre per obbedire all'uomo senza recargli più nessun disturbo.

Anche colui che ha preso l'abitudine di avvelenare di tanto in tanto le proprie zie per ottenerne in anticipo l'eredità. al funerale della quarta troverà che la sua coscienza (come la zia) non ha nessuna protesta da fare.

 FRAMMENTO 24

Disse a uno: Seguimi! Ma quello disse: Signore, consentimi prima di andare da mio padre. Gli disse: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti: tu va e annunzia il Regno di Dio. Gli disse un altro: Ti seguirò, Signore, ma lascia che mi accomiati da quelli di casa mia.

Gli disse Gesù: Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volta indietro è adatto al Regno di Dio (Lc 9, 59-62).

E Gesù disse a uno: Seguimi per cinque anni, poi potrai tornare ad attendere ai tuoi affari. E a chi gli diceva: Cinque anni sono troppi! - rispose: Vieni per sei mesi e così farai una bella esperienza (Quinto Evangelo)

Negli evangeli canonici Cristo lancia i suoi appelli coll'aria di chi ignora l'esistenza dei contratti a termine.

Hapax, "una volta per sempre", è in tutto il Nuovo Testamento un concetto di base: e non solo nei confronti dell'azione salvifica del Signore, ma anche dell'adesione degli uomini a lui. All'hapax di Gesù, che si è sacrificato tutto in una donazione unica e pienamente sufficiente, corrisponde l'hapax dell'uomo, che si deve consacrare senza riserve e senza pentimenti.

Tuttavia, secondo i principi dei migliori teologi contemporanei, anche questa dottrina, come tutte le altre, va capita storicamente: è sorta condizionata da circostanze che oggi non esistono più e perciò deve essere tutta ripensata secondo le categorie della cultura odierna.

E' ad esempio innegabile che lo stile evangelico nasce in una società che non conosce le vendite rateali, le quali sono al contrario uno dei pilastri dell'attuale economia. Il "tutto subito", anche per la vocazione apostolica, suppone un mondo che ancora non è arrivato all'invenzione delle cambiali. Sarà necessario dunque procedere a una "traduzione" in termini più accessibili a noi.

In questo il frammento ci aiuta.

Ci aiuta con il suo senso di umanità: di fronte alla durezza del testo di Luca che abbiamo citato, risalta la discrezione, la dolcezza, si direbbe, di questo invito. Ci sentiamo capiti: qui c'è uno che ci legge dentro e sa che niente ci raggela più delle parole "sempre" e "mai". Incidentalmente rileviamo che trova qui il suo fondamento l'uso secolare nella Chiesa dei voti temporanei, che fino adesso mancava di un supporto biblico persuasivo.

E il frammento ci aiuta con la sua "modernità". Gesù sa con occhio profetico penetrare con venti secoli di anticipo l'indole degli uomini del nostro tempo.

Essi sono generosi, avidi di donarsi, di spendere la loro esistenza per uno scopo; ma non vogliono legami irresolubili. Sono disposti anche a dare la vita per il Regno di Dio, purché non sia per un periodo di tempo troppo esteso.

Soprattutto sono ansiosi di sperimentare: il fine supremo è arricchirsi di sensazioni inconsuete. Oggi l'uomo vuol essere e restare aperto, o, come preferisce dire, disponibile.

Per qualche mese è capace anche di fare il missionario in situazioni di estrema difficoltà. C'è gente che, se la cosa non va per le lunghe, sa anche affrontare l'emozione di vivere in povertà, castità e obbedienza.

Così, hanno qualcosa di originale da raccontare raduni del clan, quando le disparate esperienze di tutti sono messe a confronto.

FRAMMENTO 25

Vi sono degli eunuchi che si sono resi tali da se stessi per il Regno dei cieli. Capisca chi può... (Mt 19, 12)

Ci sono di quelli che per Regno dei cieli, laddove lo esiga il bene della comunità, si astengono dal generare per qualche tempo. E non dovrebbe essere una cosa difficile da capire. (Quinto Evangelo)

La questione dei celibato di consacrazione è ricca di sfumature che non hanno nessuna eco nel testo di Matteo, dove tanto crudamente si parla di "eunuchi", di gente posta in una condizione senza ritorno. Nel confronto, si impone alla nostra attenzione la finezza di questo frammento.

Qui non pare si tratti del celibato dei preti: Gesù si riferisce infatti a coloro che si preoccupano del Regno dei cieli, al punto di farne il senso e il fine

della propria esistenza.

Tanto più che al presbitero non è dato di estraniarsi dalla comunità, vivendo una vita diversa da quella dei suoi fratelli: egli deve in tutto assimilarsi a loro per essere compiutamente uno di loro, sia pure al loro servizio. Ora nessuno è più straniero di chi è programmaticamente celibe in un popolo di coniugati. Sicché se il dilemma sta nel conformarsi o a Cristo, che è vergine, o agli altri cristiani che di regola vivono nel matrimonio, il sacerdote illuminato non ha esitazioni: sceglierà di essere come tutti.

Se qualcuno vuol rinunciare provvisoriamente al matrimonio, lo farà soltanto in ordine al bene della sua comunità. Non dunque per imitare il Signore; né perché sente che "il tempo è breve" e decide di anticipare le condizioni proprie del Regno, dove non ci saranno né mogli né mariti; e neppure per essere partecipi dell'amore sponsale con cui Cristo si dona alla Chiesa. Ma solo per il temporaneo vantaggio della comunità.

In ogni caso, non si può diventare degli "eunuchi" spirituali: non è ammissibile una decisione irrevocabile.

Il celibato ha valore se è frutto di una libera determinazione. Chi ha preso, sia pure spontaneamente, un impegno che lo vincola per tutta la vita, diventa prigioniero di una norma; l'obbligo si fa per lui una catena giuridica che lo astringe dall'esterno e ne impaccia la crescita spirituale.

La scelta celibataria più valida dovrebbe essere presa quotidianamente: ogni sera si ricupera quella libertà che al mattino può ridare - se lo si ritiene opportuno - vigore e ricchezza a un'altra decisione giornaliera.

Come si vede, non si tratta di consacrare una vita, ma di programmare il proprio, servizio per un breve spazio di tempo.

Del resto c'è qualche immoralità in un impegno perpetuo: chi può dirsi psicologicamente padrone di tutto il suo avvenire?

Sarà forse concepibile la rinuncia alle donne che si sono conosciute nel passato: ma se la donna destinata a noi è ancora nel grembo del futuro? Non è mostruoso il sacrificio dì ciò che ancora non si conosce?

A simili abnegazioni ci si può in coscienza obbligare soltanto a breve scadenza.

Al limite, possiamo anche concludere che il più libero e consapevole voto di castità, e quindi il più prezioso, sia quello che vincola lo spazio di tempo - lungo o breve che sia - che va da un rapporto coniugale, all'altro.

 FRAMMENTO 26

Giuda l'Iscariota, uno dei discepoli che stava per tradirlo, disse: Perché questo profumo non è stato venduto per trecento denari, per darli ai poveri... Ma Gesù disse: Lasciala stare: doveva conservarlo per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avrete sempre con voi; me invece, non mi avrete sempre. (Gv 12, 4-8)

E Gesù disse a Maria, sorella di Lazzaro: Un profumo di trecento denari noti poteva essere venduto per aiutare i poveri? Giuda mormorò: Guarda! proprio quello che volevo dire io. (Quinto Evangelo)

Si va per grazia di Dio diffondendo nella cristianità la convinzione che bisogna economizzare al massimo sulle spese di culto, perché appaia più luminoso il primato della povertà e della carità tra i discepoli di Cristo.

Qualcuno però educato in clima di trionfalismo potrebbe a questo proposito sollevare diverse obiezioni. Ci si potrebbe ad esempio meravigliare che un giovane esiga a gran voce dai vescovi di manifestare la loro consacrazione a Cristo con una croce di legno, e poi non ritenga il legno materia adatta per esprimere il suo amore sponsale. Ma è una meraviglia fuori luogo: l'affetto che lega i fidanzati e i coniugi tra loro è una cosa veramente seria, ed è giusto sia rappresentato dalle gemme e dall'oro.

Oppure si potrebbe trovare a ridire sull'abitudine invalsa ormai tra i sacerdoti più aperti e sensibili di risparmiare - in nome dell'austerità evangelica - sui fiori, sulle luci, sui paramenti degli altari, e invece di non lesinare affatto sulle sigarette, il whisky, la birra e, ahimè!, la coca-cola per il sostentamento e il ristoro delle interminabili discussioni sulle malefatte della Chiesa dei ricchi. Ma sarebbe un non capire l'esatta gerarchia dei valori.

C'è chi arriverebbe perfino a difendere le immense, ornatissime chiese del passato col pretesto che in fin dei conti sono state volute ricche, grandi, stupende da tutto un popolo che magari viveva in catapecchie ma si sentiva felice di avere una casa di Dio - e dunque una casa dei figli di Dio - che con la sua magnificenza gli richiamasse la gioia del suo destino e il significato della sua dolorosa esistenza. I sassi contro le cattedrali non sono mai stati scagliati da coloro che vivevano in tuguri di legno su pavimenti di terra battuta, ma a quelli che - non avendole costruite e camminando ogni giorno nelle proprie case sul marmo e la ceramica - sanno vittoriosamente resistere al loro fascino e superare la loro insidia sottile.

Gli antichi ritenevano che fosse preferibile vivere il distacco dai beni nelle abitazioni e trovare nel duomo cittadino l'appagamento al desiderio di bellezza e di grandezza. Più saggiamente nella civiltà moderna si pensa che ad ogni ambiente debba essere riservato il suo compito proprio: la casa di Dio richiami la povertà evangelica, e la nostalgia dell'uomo per un ideale di vita luminosa trovi la sua più alta forma espressiva nei servizi igienici , con le loro maioliche e le loro cromature.

Tuttavia l'argomento principe dei trionfalisti era di carattere biblico: il rimprovero rivolto a Maria, la sciupona, per i trecento denari effusi nel culto affettuoso di Cristo appariva nei vangeli tradizionali un sentimento meschino del cuore senza amore di Giuda, l'unico della compagnia capace di fare dei calcoli.

Ed ecco risultare evidente da questo frammento che le antiche narrazioni sono tendenziose: in realtà il Maestro era dello stesso avviso del più prudente, assennato e caritatevole dei suoi discepoli. E' vero che poi lo ha tradito; ma non ci sentiremmo, in questo clima di apertura ecumenica, di condannare per un solo errore tutti i pensieri e i fatti della vita di un uomo.

 FRAMMENTO 27

Ed entrato nel tempio cacciò tutti i venditori e i compratori che vi si trovavano. Rovesciò i tavoli dei cambiavalute e i banchi dei mercanti di colombe. E disse loro: Sta scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri. (Mt 21, 12-13)

Ed entrato nel tempio vide la folla dei venditori e dei compratori e disse: Questo luogo è diventato una spelonca di ladri, ma la cosa non mi preoccupa, tutto il mondo è infatti un tempio in cui si adora Dio in spirito e Verità. (Quinto evangelo)

Non c'è in tutto il Nuovo Testamento - che però ha diversi accenni in proposito - un passo che in modo più esplicito di questo permetta di superare il concetto di "sacro" per arrivare all'idea dei "religioso" sostanziale, che non ha necessità di una verniciatura rituale per essere teatro dell'incontro tra l'uomo e Dio.

Per ciò stesso che un luogo viene sacralizzato, tutti gli altri sono definiti profani e quindi sottratti alla destinazione originale di "creature" che col loro stesso essere rivelano e richiamano il Creatore. Se dedichiamo un giorno alla divinità, la derubiamo di tutti gli altri. Se un gesto viene separato e diventa rituale, si sconsacrano con questo tutti i gesti comuni.

Come si vede, il "sacro" insidia e soffoca il "religioso"; e mentre il "culto" si dissecca sconnettendosi dall'autenticità dell'esistenza, la vita viene privata di ogni spontaneo riferimento a Dio e diventa atea.

Si può facilmente comprendere allora l'entusiasmo che coglie molti teologi cattolici di fronte all'"eclissi del sacro", innegabile nel mondo moderno. E' una delle conquiste più alte della civiltà contemporanea: una vera liberazione spirituale che prelude al rinascimento del genuino senso di Dio.

Lasciamo dunque che i compratori e i venditori profanino i templi: ne affretteranno la fine. Quando finalmente non ci saranno Più chiese e tutte le nostre case saranno luoghi di culto; quando non distingueremo più domeniche perché tutti i giorni della settimana sono di Dio; quando non avremo più riti e preghiere, perché tutto nella nostra esistenza, il cibo. l'amore, il sonno, il lavoro, il gioco, la lotta sono una vera orazione e una sostanziale liturgia, allora tutti gli uomini vivranno in perfetta e continua adesione al Signore e lo ricorderanno senza soste e senza stanchezze.

Tuttavia c'è invincibile in noi qualcosa dell'antica mentalità "sacrale" che non ci lascia quieti.

E se l'analisi storica fosse errata? Se lo smarrimento del senso di Dio non dipendesse dall'affermazione del "sacro" e fosse piuttosto l'eclissi del sacro una semplice conseguenza dello smarrimento del senso di Dio? La situazione sarebbe molto più grave di quella che viene prospettata dall'ottimismo teologico contemporaneo, e forse non basterebbe la desacralizzazione a rinvigorire la fede.

O se - a tal punto ci tiranneggiano interiormente i residui ancestrali e l'assuefazione dello spirito - il "sacro" fosse una necessità psicologica per la sopravvivenza del "religioso"?

O se fosse addirittura una necessità teologica, proveniente dalla convinzione che il mondo così com'è non è nello stato originario voluto da Dio e neppure nello stato definitivo di gloria e perciò si imponesse la lotta contro il Maligno anche a colpi di battesimi e di benedizioni, e fosse necessario anticipare ritualmente il Regno con i templi, le domeniche, le celebrazioni?

Nelle piazze della Gerusalemme celeste non ci saranno più chiese: una "desacralizzazione" perfetta. Ci viene il dubbio che la teologia della secolarizzazione sia tutta giusta, solo per eccessiva preveggenza arrivi con qualche anno di anticipo.

Ma forse queste nostre incertezze non sono che rimasugli inconsci di due vecchie concezioni che nel nostro animo non sono ancora state perfettamente smitizzate: quella del peccato originale e quella dell'attesa del Regno di Dio alla fine del mondo. Dove si vede che, se non ci si difende con continuità, anche le più importanti conquiste della teologia contemporanea possono essere minate dal dubbio.

 FRAMMENTO 28

Simone... io ho pregato per te perché la tua fede non venga meno e tu, una volta ritornato, conferma i tuoi fratelli. (Lc 22, 32)

Io ho pregato per te, Simone, perché la tua fede, confermata dall'opinione della moltitudine, non venga mai meno, e tu sia sorretto dalle mormorazioni affettuose dei tuoi fratelli. (Quinto evangelo)

Da chi è sostenuta la fede incrollabile di Pietro? Dalla preghiera di Cristo, sembra insegnarci il terzo evangelo. Dal parere della maggioranza dei fedeli, insinua invece questo nostro testo.

Quando nella Chiesa c'è qualche incertezza sulla strada da prendere, che deve fare Pietro?

Deve affidarsi al suo interiore carisma, alla cui sorgente sta la preghiera del Signore, "vescovo e pastore delle nostre anime", sembra suggerire San Luca. Deve fondarsi sui risultati dì un referendum tra i battezzati o quanto meno di un sondaggio di opinione, direbbe il quinto evangelo.

Se il gregge non sa più dove andare, cosa succede?

Guardi Pietro, il pastore delegato, pare ammonire il vangelo secondo Giovanni. Niente affatto: si radunino le pecore e decidano a maggioranza la strada che il pastore dovrà poi seguire, insegna l'evangelo secondo il Migliavacca.

Siamo come si vede in presenza di due ben diverse concezioni della Chiesa e del suo capo visibile. Tra esse l'accordo è difficile: è necessario che una scelta si compia.

Per parte nostra non ci sono dubbi: la teologia del primato che soggiace a questo esiguo frammento, anche se in contrasto con gli evangeli canonici, è più democratica, più conforme alla mentalità dei tempi che corrono, più accettabile.

Vorremmo che si notasse l'equilibrio garbato che caratterizza le ultime parole del brano.

I cattolici di questo secolo nei confronti del Papa sembrano incapaci di percorrere qualunque strada di mezzo tra l'adulazione e l'insulto, tra il culto della personalità e il disprezzo, tra l'osanna e il crucifige. Quanta misura, invece, quanto buon senso in quelle "mormorazioni affettuose" che, secondo la parola di Gesù qui riferita, sarebbero il vero segreto della saldezza di Pietro e la fonte nascosta delle sue consolazioni!

 FRAMMENTO 29

Questo è il mio corpo, che è dato per voi: fate questo per ricordarvi di me. (Lc 22, 19)

Questo è il corpo che è dato per voi: fate questo per ricordarvi della vostra comunione tra voi (Quinto evangelo).

Se si dovesse stare alla teologia che pare soggiacere ai testi dei sinottici e di S. Giovanni, sembrerebbe che l'aspetto fondamentale dell'eucaristia sia quello di essere un rito che avvera nei discepoli una "memoria oggettiva" di Cristo e di ciò che ha fatto per noi, istituendo una reale partecipazione al suo corpo e al suo sangue. Sicché il sacrificio del Figlio di Dio, liturgicamente ripresentato e reso spiritualmente assimilabile, unirebbe gli uomini più diversi e più lontani tra loro, alla persona dei Salvatore veramente presente tra i suoi.

E' ovvio, che in questo caso la celebrazione eucaristica darebbe origine anche a una effettiva comunione dei partecipanti tra loro, ma solo in quanto essi si fondono nel comune ricordo di Cristo: "fate questo per ricordarvi di me", e nella comune manducazione della sua carne e del suo sangue.

E' la dottrina tradizionale e ha un suo incontestabile fascino. Ma a una migliore considerazione, per gli spiriti più avveduti, si rivela lacunosa e scialba.

Il nostro frammento colloca invece al primo posto la prerogativa della " autenticità " di comunione, il gesto deve avvenire non fra estranei, che non si conoscono neppure di nome, ma, come tutti i banchetti, fra persone legate da schietta amicizia. Anzi il suo senso profondo è di esprimere questa solidarietà, che pertanto più che costruita dall'azione comune le è prerequisita.

Non ci può essere dunque eucaristia se non tra persone che già formano tra loro una comunità di spiriti, di ideali, di gusti, di abitudini di vita. E siccome tutto ciò non si ha di solito né in una massa troppo numerosa né fra uomini troppo diversi per cultura, condizioni sociali età o razza, un'eucaristia autentica può nascere solo da un gruppetto omogeneo, che si raduni attorno a un piccolo tavolo. La " ekklesìa" di Cristo, espressa dal sacramento, sarà dunque composta o da soli greci o da soli ebrei, o da soli poveri o da soli ricchi, o da soli semplici o da soli intellettuali. O anche

e meglio da intellettuali che i semplici; purché siano tutti di loro.

Del resto la legge della "autenticità" ha una validità generale e costringe felicemente a conclusione che neppure avremmo osato prevedere, prima della sua scoperta. Autenticità nella lingua, senza inflessioni sacrali o vocaboli ecclesiastici; autenticità nelle vesti, che devono essere quelle comuni; autenticità dell'ambiente in cui il pasto si consuma, che sarà - è

intuitivo - la sala da pranzo o anche la raccolta intimità di una trattoria; autenticità delle vivande: e chi banchetta solo col pane e col vino?; autenticità dei discorsi e degli argomenti trattati, che di necessità saranno quelli che normalmente nascono in una conversazione tra amici. Tutto all'insegna della spontaneità , della semplicità, senza formalismi, senza ritualismi, senza sovrapposizioni.

Come siamo lontani dalla freddezza, dalla impersonalità, dalla convenzionalità delle solite messe domenicali!

A questo punto ci avvediamo di avere talvolta celebrate delle magnifiche eucaristie "anonime" e inconsapevoli, in certi piccoli ristoranti sul Ticino, a spese di trote succulente, in una ristretta cerchia di amici. Cene indimenticabili, che davvero ci ricordavano la nostra comunione tra noi, e insieme l'alimentavano e la crescevano; momenti magici, che ci davano la forza di continuare nel duro cammino dell'esistenza e ci lasciano più uniti, più buoni e comprensivi verso tutto il genere umano (come di solito capita all'Italiano dopo il quarto bicchiere), più tranquilli di coscienza e più felici!

Momenti meravigliosi e, ahimè! troppo rari! Il cielo ci conceda che siano più numerosi per l'avvenire; ce lo auguriamo di cuore, soprattutto adesso che abbiamo scoperto la loro natura eucaristica.

 FRAMMENTO 30

Andate e fatevi discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e dei Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a osservare tutto ciò che io vi ho prescritto. (Mt 28, 19)

Andate nel mondo impuro e discutete: dal libero confronto dei pareri germoglierà la verità. (Quinto Evangelo)

L'idea dell'"annuncio" è negli evangeli tradizionali espressa con una durezza che riesce poco sopportabile alle nostre orecchie.

Gesù stesso parla per affermazioni recise: non associa nessuno a una ricerca, che del resto non sembra compiuta neppure da lui. Egli semplicemente "dice", non indaga, non ipotizza, non dialoga. Si presenta come colui che non solo ha la verità, ma addirittura è la verità.

Lo stesso stile viene raccomandato agli apostoli: essi devono esporre un fatto, non provocare dei dibattiti. Sono i portatori di una perla preziosa che non deve essere gettata ai porci, ma custodita come un bene inestimabile. Se qualcuno accoglie l'evangelo, è beato; chi lo rifiuta, stia nelle sue tenebre: neppure la polvere bisogna avere più in comune con lui. Ci si affretti a proporlo ad altri.

Il proselitismo affannoso - che egli rimprovera ai farisei - è un atteggiamento ignoto a Cristo e non raccomandato ai suoi inviati.

Ma se sulla condanna del proselitismo possiamo essere d'accordo tutti, sul metodo dell'annuncio abbiamo qualche riserva.

Esso infatti, come il proselitismo, condiziona la libertà altrui e impedisce di pensare con la propria testa. E non è una ragione il fatto che quello cristiano sia un annuncio di verità. Al contrario è un impegno maggiore a tacere: la verità, avendo una sua forza immanente ignota all'errore, determina in misura più grande il comportamento di chi arriva a conoscerla. Perciò se può essere consentito ai seminatori di falsità di proclamare e propagandare le loro dottrine, a noi no: la nostra testimonianza deve essere il più possibile silenziosa.

Soprattutto - e qui sta l'insidia più grande - l'idea dell'annuncio sembrerebbe quasi supporre che la verità discenda dall'alto già pronta e cucinata, e non sia piuttosto frutto della ricerca, della libera discussione, del nostro spirito insonne. Se si comincia ad ammettere l'annuncio, si finisce o presto o tardi per accettare il concetto di una Rivelazione oggettiva ed esterna.

Allora, se non ad "annunciare", a che cosa sono stati mandati gli apostoli?

Il testo ci dà un chiarimento definitivo: compito degli apostoli è di stimolare il dibattito, di dirigerlo con imparzialità, sicché tutte le opinioni possano liberamente commisurarsi.

La verità, che sta nel cuore e nella mente dell'uomo o più propriamente nel cuore e nella mente dell'" umanità " - troverà la strada per emergere e per affermarsi e potrà venire accolta da tutti non come una tiranna dispotica che ha sempre ragione, ma come una figlia che noi stessi con travaglio abbiamo generato.

Ci avvediamo che questo quinto evangelo assimila il metodo di Gesù a quello di Socrate. Il che ci meraviglia un po', non foss'altro perché i due tipi umani ci sembrano molto diversi. Basti pensare all'entusiasmo con cui il filosofo ateniese - senza timore, senza disgusto, senza tristezza - ha bevuto la sua cicuta.

 

 

Giacomo Biffi

 

 

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