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Nel 1992 il cardinale Giacomo Biffi introdusse un convegno organizzato a Bologna per il centenario della nascita di Tolkien da

Nel 1992 il cardinale Giacomo Biffi introdusse un convegno organizzato a Bologna per il centenario della nascita di Tolkien dal Centro culturale Manfredini su «Realtà e mistero nell'opera di J.R.R.». Pubblichiamo una parte di quella relazione.

Credo fossero gli ultimi giorni del 1971.
Una febbre fastidiosa e irriducibile mi aveva costretto a letto per qualche tempo.
Uno dei miei giovani venne a darmi da leggere un grosso volume: una sua recente scoperta, mi disse. Era «Il Signore degli anelli».
Cominciai la lettura senza entusiasmo e la proseguii, vincendo una certa istintiva repulsione, più che altro perché non avevo sottomano niente di alternativo.
Devo confessare che tutta quella folla di orchi, di nani, di stregoni, di elfi, me la sentivo estranea e lontana, e francamente mi infastidiva.

Il nostro popolo ignora le saghe: i racconti della nostra tradizione sono le "novelle", dove compaiono mercantesse e studenti, ingordi signori e furbi popolani, ingenue devote e pittori scanzonati: uomini e donne, tutti, quotidianamente verificabili.
La mia anima italiana dunque mal sopportava sulle prime quel mondo di creature fantastiche e senza alcuna plausibilità.
Ma, con mia meraviglia, a mano a mano che mi addentravo nella vicenda, ne ero sempre più conquistato, fino ad arrivare all'ultima pagina con la persuasione che mi era stata offerta un'esperienza culturale tra le più gratificanti, e anche con un certo rammarico che quella straordinaria avventura dello spirito fosse ormai alla conclusione. (...)

Se adesso voglio arrischiarmi a riconoscere e a manifestare le ragioni del fascino che Tolkien esercita tuttora su di me, credo di poter dire che all'origine c'è la mia propensione per quelli che cantano fuori dal coro e la mia connaturale affinità con coloro che non si adeguano ai gusti prevalenti e alle mode. (...)

Dove il non conformismo di Tolkien mi pareva addirittura deliziosamente provocatorio era nella sua evidente risoluzione di infischiarsene completamente di quell'ossessivo pansessualismo che negli autori contemporanei sembrava essere diventato una specie di professione di fede.
Non che mancassero nella sua narrazione i temi dell'amore e della donna; mancavano però le prevaricazioni minuziosamente descritte, le morbosità, le fissazioni libidinose, senza delle quali pare che oggi non sia più possibile farsi accogliere dagli editori e dalle programmazioni televisive.

Più profondamente Tolkien si imponeva alla mia attenzione per la sua robusta certezza che il bene e il male sono tra loro incompatibili; che nella storia umana è in atto un assalto tremendo da parte delle forze della perversione; che l'esistenza è drammatica e non ci si può cullare in un irenismo zuccheroso.
In una cultura dove tutto è mescolato e grigiastro, dove pare che la vita sia un gioco insulso senza scopo e senza regole, dove c'è molta comprensione per tutto tranne che per le ragioni della verità, l'universo presentatomi da Tolkien mi appariva come un forte e provvidenziale richiamo all'autenticità degli esseri, dei principi, delle intrinseche finalità».
 
+ Card. Giacomo Biffi
(C) Avvenire

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