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Creazione

 

Creazione

 

 

E' l’azione con cui Dio ha dato origine al­l’universo traendolo dal nulla. Insegnata dalla S. Scrittura (Gen 1, 1 ss.), questa verità è stata ripresa sul piano razionale dalla fi­losofia cristiana, della quale e divenuta una delle dottrine emblematiche.

 

     Il migliore approfondimento della dot­trina della creazione nell’epoca patristica fu realiz­zato da S. Agostino. IL suo merito maggiore in questa materia è di avere consolidato le posizioni tradizionali difendendole dagli at­tacchi del manichei i quali, professando un dualismo ontologico, erano ostili alla creazione del­la materia, e dagli errori neoplatonici che in­tendevano t’origine del mondo come un pro­cesso di emanazione dall’Uno. Secondo S. Agostino non può esserci dubbio che il titolo di creatore compete soltanto a Dio: Lui so­lo, che è la bontà, la sapienza e la potenza infinita, è il principio supremo e unico di qualsiasi realtà. Quindi S. Agostino fa vede­re, contro i manichei, che at di fuori di Dio non esiste nessun altro principio primo, e contro i neoplatonici, che non vi può essere nessun’altra fonte intermedia dell’essere. Per provare il suo assunto egli distingue tra generare, fabbricare, creare: solo chi crea produce una cosa dal nulla (ex nihilo); inve­ce chi genera o chi fabbrica sfrutta un mate-nate precedente. "Creatore è solo colui che produce le cose come causa prima. E nessu­no lo può all’infuori di colui presso il quale sono originariamente te misure, i numeri, i pesi di tutte le cose che esistono: e questi e solamente Dio creatore, dalla cui ineffabile sovranità dipende che quanto gli angeli cat­tivi potrebbero fare, se fosse loro permesso, non lo possono invece fare perché egli non lo permette loro" (De Trinitate, 1. 3, creazione 9, n. 18). Fedele at testo genesiaco Sant'Agostino afferma che Ia creazione ha avuto origine nel tempo, essendo il tempo stesso una conseguenza della creazione.

 

S. Tommaso riprende tutti i temi della specula­zione agostiniana, e il approfondisce alla lu­ce di due importanti eventi culturali: la sco­perta di Aristotele, delle sue categorie meta­fisiche di atto e potenza, materia e forma, sostanza e accidenti, e delta sua dottrina re­lativa all’eternità del mondo; è la scoperta della filosofia dell’essere, concepito come actualitas omnium actuum e come perfectio omnium perfectionum, scoperta effettuata dallo stesso S. Tommaso.

 

1. LA NOZIONE DI CREAZIONE

 

      Anzitutto S. Tommaso chiarisce il concetto di creazione, facendo vedere che si tratta di un’attività del tutto singolare e incomparabile, in quan­to produce qualche cosa che prima non esi­steva in nessun modo, né in sé né nella po­tenza della materia. La creazione si distingue da ogni altra attività produttiva proprio in que­sto, che essa conferisce realtà non soltanto alla forma o alla struttura ma alla materia stessa. Il termine "creazione" vuole quindi evidenziare la totale inesistenza dell’ente (e quindi del mondo) prima della sua produzio­ne da pane di Dio, 1’Essere sussistente; la nozione di creazione pone l’accento sul nulla del punto di partenza (ex nihilo) di ciò che è og­getto dell’azione creatrice. S. Tommaso mette bene in luce quest’aspetto di origine assoluta, di salto ontologico radicale, dalla condizione del nulla alla condizione dell’essere. che ha luogo nella creazione, nella seguente definizione: "La creazione è la produzione di qualche co­sa in tutta la sua sostanza senza che di questa ci sia presupposto alcunché sia creato sia in­creato" (I, q. 63, a. 3).

 

     A proposito del nulla che costituisce, Secondo il nostro modo di dire, il punto di par­tenza dell’azione creatrice, va precisato (e S. Tommaso non manca di farlo) che si tratta davvero del nulla e non di un orizzonte tenebroso o di un oceano caotico. Noi siamo tentati di entificare il nulla (come hanno fatto Heideg­ger e Sartre) facendo di esso il polo contra-rio all’essere. Ma ciò che ha realtà è soltanto l’essere; mentre il nulla non è alcuna cosa bensì l’emissione di una voce o un insieme di lettere scritte. Il nulla, se facciamo bene at­tenzione, è assolutamente ineffabile e inco­gitabile e non semplicemente in conoscibile. Diventa così evidente che il modo di espri­mersi e di intendere al quale siamo ancorati quando diciamo che "il punto di partenza dell’universo è il nulla", resta antropomorfi­co. Noi significhiamo in quei termini l’ema­nazione prima degli esseri alla maniera di un fieri (un divenire), d’un cangiamento so­pravvenuto, di una specie di successione o movimento che partisse dal nulla per sfocia­re nell’essere. Ma in nessun modo la creazione, pro­priamente parlando, può essere un cambia­mento, un fieri, per la semplice ragione che un cambiamento esige due termini e ogni fieri è in un soggetto. Ora qui non c’è un soggetto, poiché il fieri in questione implica tutto l’essere e nulla al di fuori dell’essere. E nemmeno, correttamente parlando, c’è punto di partenza, poiché la sola immaginazio­ne, entificando surrettiziamente il nulla, può imporgli quella parte. Tutto quello che si può dire di una tale azione è che si tratta di una relazione pura, e poiché non si dà creazione pri­ma del creato, si capisce che la relazione in questione non è una relazione bilaterale ma unilaterale: è una relazione che va dal creato a Dio e non viceversa. La creazione, dalla nostra ra­gione concepita come una relazione intermedia tra il Creatore e la creatura, è in effet­ti posteriore alla creatura, come ogni rela­zione è posteriore al soggetto che la pone. Solo in quanto indica Dio come principio, la creazione può essere riguardata come anteriore, lo­gicamente, all’essere del mondo; ma sotto questo aspetto, per cosi dire, non è più la stessa cosa. Nella sua realtà propria la creazione è una relazione del creato ed è dunque poste­riore al creato; così la proposizione, "il mon­do è stato creato" significa per noi due cose e cioè: primieramente, il mondo è; seconda­riamente, il mondo dipende dalla sua fonte.

 

Per quanto sconcertante, questa conce­zione si impone manifestamente a chi si ren­de conto di quel che può essere un comincia­mento assoluto. Un tale cominciamento non può propriamente chiamarsi un cambiamen­to sopravvenuto. una successione di stati, un passaggio dal nulla all’essere. Solo la nostra mente opera un tale passaggio, se tenta di rappresentarsi l’irrappresentabile. Non potendo considerare il non-essere assoluto se non sotto la specie dell’essere, immagina an­che il nulla e a questo fa succedere il mondo. Oppure dice: primieramente il mondo non è, secondariamente il mondo e, senza avvedersi che il primieramente non ha consistenza al­cuna; che ne potrebbe avere solo se si trat­tasse di un non essere relativo, sostenuto da una potenzialità reale. Quello che non è nul­la assolutamente non può assolutamente precedere nulla, e non c’è dunque alcun pas­saggio, nessuna preesistenza, nemmeno per quel nulla illusorio di cui si parla come di una realtà (I, q. 45, aa. 2-3).

 

L’effetto proprio della creazione è l’essere e questo non può avere altra causa che colui che già lo possiede in maniera eminente, perfetta, cioè l’Essere sussistente stesso, che è Dio. Infatti, "quanto più universale è un effetto, tanto più elevata è la sua causa pro­pria; perché quanto più alta è la causa, tanto maggiori sono gli effetti a cui Si estende la sua virtù. Ora l’essere è più universale del divenire, essendovi degli enti che sono im­mobili, a detta anche dei filosofi, come le pietre e simili. Occorre dunque che sopra la causa che solamente opera movendo e tra­smutando, esista quella causa che è principio primo dell’essere e questa non può esse­re che l’Essere sussistente stesso" (C. G.. II, c.16). Così risulta parimenti dimostrato che il primo effetto prodotto da Dio è l’essere stesso, perché tutti gli altri effetti lo presup­pongono e su di esso si fondano. perciò è ne­cessario che tutto ciò che in qualche modo esiste, riceva l'essere da Dio.

 

L’azione creatrice è pertanto un’azione singolarissima, non soltanto grazie al suo ar­tefice che è Dio e grazie al suo effetto che è l’essere, ma anche grazie alla sua immedia­tezza, pervasività, incisività, intimità, innar­restabilità. Essa investe non soltanto il cuore oppure la superficie degli esseri, ma li attra­versa e li pervade totalmente da capo a fon­do. Nulla di quanto un ente possiede si sot­trae all’efficacia dell’azione creativa: materia e forma, sostanza e accidenti, qualità e azioni, strutture e relazioni, sotto il profilo ontologico tutto si regge incessantemente sull’azione creatrice di Dio.

 

S. Tommaso concepisce la creazione sia come comuni­cazione sia come partecipazione di essere da parte di Dio. Col termine "comunicazione" egli vuole indicare quel darsi spontaneo e generoso dell’Essere sussistente, Dio, agli enti, un darsi assolutamente straordinario perché dal darsi del donatore dipende l’esi­stenza stessa e tutta la realtà di colui cui vie­ne fatto il dono: col darsi dell’Essere sussi­stente fiorisce l’ente nel deserto del nulla. L’appartenenza all’Essere, Dio, della virtù della comunicazione S. Tommaso la stabilisce così: "Le cose esistenti in natura non solo hanno verso il loro bene l’inclinazione generale a cercarlo quando non lo hanno, e a riposarvi­si quando lo possiedono; ma anche a effon­derlo sulle altre per quanto è loro possibile. Per questo vediamo che ogni agente, nella misura in cui ha attualità e perfezione, tende a produrre cose a sé somiglianti. E quindi rientra nella natura della volontà il comuni­care agli altri, nella misura del possibile, il bene posseduto" (I, q. 19, a. 2). Quindi, se le cose in quanto sono perfette comunicano ad altre la propria bontà, a maggior ragione conviene all’Essere sussistente, che è il ricet­tacolo di ogni perfezione e di ogni bontà, co­municare agli enti analogicamente, nella mi­sura del possibile, il proprio bene. All’Essere sussistente, Dio, compete la virtù della comunicazione proprio perché racchiude in se stesso qualsiasi perfezione, inclusa quella della bontà, e questa è in forza della sua stessa natura diffusiva, benefica: "Bonum est diffusivum sui". Come si vede, il termine "comunicazione" illumina il punto di par­tenza delle creature, e fa vedere che esso ri­siede tutto nell’Essere, nella sua generosa dedizione, una dedizione che non ha. nulla da vedere né con l’emanazione necessaria dei platonici, né con l’alienazione dell’Asso­luto degli idealisti.

 

   2. LA CREAZIONE COME PARTECIPAZIONE E ASSIMILAZIONE

 

"Partecipazione", come suggerisce l’eti­mologia stessa della parola, esprime un prendere parte (partem capere) a qualche cosa. Quindi, "quando qualche cosa riceve in maniera parziale ciò che appartiene ad al­tri in modo totale, si dice che ne è partecipe. Per es., si dice che l’uomo partecipa all’ani­malità, perché non esaurisce il concetto del­l’animale in tutta la sua estensione; per la stessa ragione si dice che Socrate partecipa all’umanità; parimenti si dice che la sostanza partecipa all’accidente, e la materia alla for­ma, perché la forma sostanziale o accidenta­le che, considerata in se stessa è comune a molti, viene determinata a questo o a quel­l’oggetto particolare; similmente si dice che l’effetto partecipa alla causa, soprattutto quando non ne adegua il potere. Un esem­pio di questa partecipazione si ha quando si dice che l’aria partecipa alla luce del sole" (In De Hebd., lect. 2, n. 24).

 

Applicando all’origine degli enti il termi­ne "partecipazione" si vuol indicare quel "prendere parte", quel partecipare degli en­ti alla perfezione dell’essere che principia con la comunicazione di se stesso agli enti da parte dell’Essere sussistente, Dio. Pertanto, come la comunicazione non comporta nes­suna alienazione, nessun calo di perfezione nell’Essere sussistente, così la partecipazio­ne, contrariamente a quanto potrebbe sug­gerire l’etimologia, non implica nessun fra­zionamento, nessuna spartizione della per­fezione dell’essere tra i singoli enti. Infatti l’Essere sussistente (Dio), come s’è visto, è assolutamente semplice e non è suscettibile di nessuna scomposizione, scissione, divisio­ne. Quindi, se parlando dell’origine degli enti dall’Essere sussistente si ricorre al termine partecipazione, questo non può signifi­care "avere una parte dell’essere", poiché nell’Essere non vi sono parti, ma possedere in modo "particolare", "limitato", "imper­fetto" quella perfezione che nell’Essere sus­sistente si trova in modo totale, illimitato, perfetto: "infatti quando qualcosa riceve in parte ciò che a un altro appartiene universal­mente si dice che vi partecipa" (ibid.).

 

Pertanto la creazione opera una partecipazione dell’essere divino nelle creature. Ma Dio do­ve trova le ragioni,  criteri, le misure (i numeri come dice Agostino) per conferire a un ente una maggiore "parte" di essere che a un altro? Da dove ricava le strutture partecipa­tive (quelle che distinguono una pianta da un animale, una pietra da un uomo, un codi­ce genetico da un altro codice genetico ecc.)? Ovviamente egli non può ricavarle da qualche realtà esterna, come fa il demiurgo di Platone che deriva le strutture partecipa­tive dalle Idee, perché, prima della creazione, non si dà altra realtà che Dio stesso. Pertanto Dio non può trarre le strutture partecipative che da stesso, dalla sua essenza, dal suo esse­re. L’essenza, l’essere di Dio, che è infinito ed eterno può essere rispecchiato e imitato in moltissimi, innumerevoli modi. Pertanto la definizione delle strutture partecipative è opera della mente divina, in quanto coglie i vari gradi di imitabilità della realtà, della es­senza, dell’essere di Dio. I vari gradi di imi­tabilità costituiscono le essenze delle creatu­re: delle piante, degli animali, dell’uomo, della terra, degli astri ecc. La creazione è quell’atto onnipotente e meraviglioso con cui Dio con­ferisce l’atto di essere loro conveniente e proporzionato a quelle essenze che egli in­tende realizzare. E' quel possente atto di vo­lontà con cui Dio pone nell’ordine degli esi­stenti quelle strutture di partecipazione che prima erano soltanto delle essenze ideali e dei puri possibili.

 

       Nella azione creatrice Dio segue un ordi­ne logico che ha qualche somiglianza con l’ordine che si registra nelle produzioni uma­ne: Dio contempla Ia sua infinita essenza e scorge in essa le innumerevoli, infinite possi­bilità di imitazione e di riproduzione; quindi programma una scelta tra le vane possibilità e, infine, ne decreta liberamente l’attuazio­ne. Solo che mentre nelle opere umane l’or­dine comporta una successione temporale, in Dio, che è al di fuori e al di sopra del tem­po, non esiste nessuna successione: Dio ope­ra nell’eternità e nella assoluta istantaneità.

 

S. Tommaso dice che la creazione, oltre che donazione e partecipazione, è anche assimilazione: è un rendere le creature simili a! creatore, gli enti simili all’Essere sussistente. La somiglianza (o analogia) tra l’effetto e la sua causa è la conseguenza necessaria della causalità con­cepita come comunicazione e come parteci­pazione della perfezione della causa all’ef­fetto. Questo principio applicato all’origine delle cose esprime una certa tensione nel­l’Essere sussistente (Dio) alla riproduzione di se stesso nella figura di qualche cosa che gli rassomigli e non nella figura dell’identi­co, perché "l’Essere sussistente è solamente uno. E' quindi impossibile che ci sia qualche altro sussistente che sia soltanto essere" (De sub. Sep., creazione 8, n. 87). Il principio di analogia (somiglianza) chiarisce quindi a un tempo la necessità che gli enti rassomiglino all’Essere sussistente e la impossibilità che gli enti si identifichino con esso: il rapporto tra gli enti e l’Essere sussistente, tra le creature e Dio, è esattamente un rapporto di analogia cioè di somiglianza. S. Tommaso lo spiega magistral­mente in un capitolo della Summa contra Gentiles: "Siccome ogni agente si prefigge di portare la sua somiglianza nell’effetto nella misura in cui questo può riceverla, sarà tanto più perfetta questa sua azione, quanto più perfetto è l’agente. Infatti è chiaro che quanto più un oggetto è caldo, tanto mag­giormente riscalda, e quanto più uno è un bravo artefice, tanto meglio esegue nella materia il disegno artistico. Ora Dio è un agente perfettissimo. Quindi a lui compete imprimere perfettamente la sua somiglianza nelle cose create, per quanto è possibile a una natura creata. Ma nelle cose create non si può conseguire una perfetta somiglianza con Dio mediante una sola specie di creatu­re, perché essendo l’effetto oltrepassato dal­Ia causa. ciò che nella causa si trova in modo semplice e unito, si trova nell’effetto in mo­do composto e molteplice; a meno che l’ef­fetto non raggiunga la perfezione specifica della causa. Questo non può dirsi nel nostro caso, perché la creatura non può essere eguale a Dio. Bisogno dunque che nelle cose create vi fosse molteplicità e varietà affinché vi si incontrasse una perfetta somiglianza con Dio. secondo il loro modo (I. II, creazione 45)".

 

Il principio dell’assimilazione vale in as­soluto e non soltanto per l’uomo e per le creature spirituali, di cui la Bibbia dice espli­citamente che sono immagini di Dio; quindi si estende a tutte le creature. Quando Dio chiama all’essere qualche cosa, fa sempre dono di se stesso, del suo essere, anche se ri­mane necessariamente un dono modesto, data l’inevitabile finitezza delle creature. La creazione realizza sempre delle riproduzioni, delle copie, delle immagini di Dio anche se si trat­ta inevitabilmente di riproduzioni, copie, immagini estremamente imperfette, parziali, frammentarie. Per questo motivo, come dice S. Tommaso, Dio ha voluto sopperire ai limiti e alle carenze delle singole immagini, molti­plicando e variando con smisurata dovizia il loro numero e qualità; e il loro insieme ci conSente certamente di farci un’idea meno inadeguata e lacunosa di Dio.

 

       Creando l'universo Dio, in quanto intel­ligente e libero, si propone certamente degli obiettivi, i quali non possono essere diversi da Lui stesso, per il semplice motivo che pri­ma della creazione non esiste altro essere dal quale e per il quale Dio possa essere indotto ad agi­re. Ma finalizzare la creazione a se stesso, alla pro­pria gloria, non ha carattere egoistico come si potrebbe credere a prima vista, perché proporre Dio come ultimo traguardo è esal­tare al massimo le recondite aspirazioni che ogni creatura tiene iscritte nel profondo del proprio essere. A questo riguardo vale la pe­na leggere quanto scrive S. Tommaso nel De Verita­te: "Dio è principio e fine d’ogni cosa e, di conseguenza, ha con le creature un duplice rapporto: quello secondo cui tutte le cose ar­rivano all’essere per causa sua, e quello Secondo cui tutte le cose si dirigono a lui come a loro ultimo fine. Questo secondo rapporto si realizza nelle creature irrazionali diversa­mente che in quelle razionali: nelle prime si attua mediante l’assimilazione (per viam as­similationis), nelle seconde mediante la Co­noscenza della divina essenza oltre che me­diante l’assimilazione. Infatti in tutte le cose che procedono da Dio è insita l’inclinazione verso il bene da conseguirsi mediante l’agi­re. Ora nel conseguimento di qualsiasi bene la creatura si rassomiglia a Dio. Ma le crea­ture razionali possono raggiungere Dio oltre che mediante l’assimilazione anche con l’u­nione mediante le operazioni del conoscere e dell’amare, e quindi sono più in grado del­le altre creature di essere beate (De Ver., q. 20, a. 4).

 

Quando si parla della creazione c’è ancora un punto da chiarire: quello che riguarda la continuità dell’azione creatrice di Dio.

 

Il problema era già stato affrontato da S. Agostino, il quale l’aveva risolto mediante la celebre dottrina delle ragioni seminali". Agostino prende alla lettera il testo biblico il quale dice che "Dio creò tutto simultanea­mente" (omnia simul creavit). Ciò significa che Dio ha creato tutto insieme un mondo destinato a svolgersi nel tempo, ossia ha da­to inizialmente al mondo tutte le virtualità che nella storia dell’universo si sarebbero andate sviluppando e attuando. Queste vir­tualità impresse da Dio nelle cose al mo­mento della creazione sono chiamate da Agostino ragioni seminali. Al momento della creazione, oltre ai corpi completi, Dio ha creato I germi di tutte le cose future: dl mondo, scrive l’Ip­ponate, è come una donna incinta: porta in sé la causa delle cose che verranno alla luce nel futuro. Così tutte le cose (di tutti i tem­pi) sono state create da Dio" (De Trinitate II, 1. 9, creazione 16). Come nel seme di un albero sono presenti invisibilmente tutte le parti che si svilupperanno successivamente dall’albero stesso, così fin dall’inizio furono presenti germinalmente nel mondo tutti i di­versi corpi.

 

S. Tommaso, collocando l’azione creatrice di Dio assolutamente fuori (e non soltanto pri­ma) dello spazio e del tempo, non ha biso­gno di ricorrere alle ragioni seminali e con­cepisce la creazione come un evento istantaneo e co­stante: è l’azione fulgidissima di un sole eternamente immobile e perennemente rag­giante, attorno al quale si muove, si distende e prende forma tutto l’universo. L’influsso ontologico di Dio sulle sue creature è inces­sante. Essere creatura è essere totalmente. radicalmente dipendente, e dipendente pro­prio in ciò che è più fondamentale e prima­rio, l’essere; cosicché questo non può mai diventare sua proprietà. In quanto Esse ipsum "Deus est universale et fontale princi­pium omnis esse" (De sub. sep.. creazione 14). "La stessa divina sapienza è causa efficiente (effettiva) di tutte le cose, e non soltanto dà al­le cose l’essere, ma anche, nelle cose, l’esse­re con ordine, in quanto le cose si concate­nano l’una all’altra, in ordine al fine ultimo. E ancora è causa della indefettibilità di que­sta armonia e di questo ordine, che sempre rimangono, in qualsiasi modo mutino le co­se" (In Div. Norn., creazione 7, lect. 4, n. 733).

 

      Oltre che dell’apporto delle rationes se­minales, ai tempi di S. Tommaso si discuteva della possibilità della collaborazione degli angeli nella creazione. L’ipotesi era stata fatta da Platone, il quale nel Timeo parla di Potenze che col­laborano con il Demiurgo nella produzione del mondo materiale; nel medioevo essa aveva incontrato il favore di alcuni filosofi mussulmani ed ebrei. S. Tommaso trova questa ipo­tesi del tutto inammissibile, perché Dio nella creazione non ha bisogno ne di aiutanti né di in­termediari. Ecco l’acuto ragionamento del­l’Angelico: "La causa seconda strumentale non prende parte all’azione della causa su­periore se non in quanto coopera, mediante una sua peculiarità, a disporre un soggetto all’azione dell’agente principale. Ma se non causasse nulla di ciò che forma la sua pecu­liarità, il suo impiego nell’azione sarebbe inutile, e non ci sarebbe affatto bisogno di determinati strumenti per determinate fun­zioni. Vediamo invece che la scure tagliando il legno, funzione che deriva dalla sua forma caratteristica, coopera a produrre Ia figura della seggiola, che è effetto proprio dell’a­gente principale (cioè dell’artigiano). Ora l’essere, che ê l’effetto proprio di Dio nel creare, è il presupposto d’ogni altra cosa. Perciò non si può dare alcun apporto a mo’ di disposizione a di strumento per ottenere questo effetto, non dipendendo la creazione da un prerequisito qualsiasi, il quale possa riceve­re da una causa strumentale Ia disposizione a quell’atto. Quindi non e possibile che una creatura abbia la facoltà di creare, né per virtù propria né come strumento né per de­legazione" (I, q. 45, a. 5).

 

    3. LIBERTA' DELLA CREAZIONE

 

La creazione è frutto esclusivo delta bontà. delta sapienza e delta volontà di Dio, non essen­doci nulla nella creatura (dato che ancora non esiste) che lo possa indurre alla creazione. Per­tanto Ia creazione è un’azione assolutamente libera. Il creatore di S. Tommaso è il Dio cristiano, non è l’Uno inscrutabile di Plotino, il quale subi­sce per necessità naturale l’emanazione. Il Dio di S. Tommaso è l’Esse ipsum subsistens dotato di infinita intelligenza e di assoluta libertà. S. Tommaso argomenta la libertà della creazione partendo sia dalla natura della causa sia dalla qualità dell’effetto. Da parte della causa nota che agire necessariamente è proprio delle cause naturali; ma Dio non è una causa naturale; quindi "non agisce per necessità di natura; ma dall’infinita sua perfezione procedono effetti determinati in conformità della deter­minazione del suo volere e del suo intellet­to" (I, q. 19, a. 4). Analoga la conclusione che egli ottiene guardando all’effetto: "La stessa verità si dimostra dal rapporto degli effetti con la causa. Gli effetti derivano dalla causa agente in quanta preesistono in essa; perché ogni agente produce qualcosa che gli somiglia. Ma gli effetti preesistono nella causa secondo il modo di essere della mede­sima. perciò, siccome l’essere di Dio si iden­tifica con La sua intelligenza, gli effetti pree­sistono in lui come intelligibili. Quindi deri­veranno pure da lui alla stessa maniera. Per conseguenza deriveranno come oggetto del­la volontà: perché appartiene alla volontà l’impulso a compiere quello che è stato con­cepito dall’intelligenza. Quindi la volontà di Dio è causa delle cose" (I, q. 19, a. 4).

  

    4. LA POSSIBILITA' DI UNA CREAZIONE ETERNA

 

     Una delle dispute più accese a Parigi ai tempi di S. Tommaso riguardava l’eternità del mondo e quindi la possibilità di una creazione ab aeter­no. Aristotele aveva insegnato l’eternità del mondo: Averroè e i suoi discepoli sostene­vano la tesi dell’eternità della creazione. Uno dei critici più tenaci della tesi della creazione ab aeterno era S. Bonaventura, il quale non la giudica­va soltanto contraria alla fede, ma anche as­surda in stessa, e così pretendeva di dimo­strare la verità della creazione nel tempo. Secondo Bonaventura la creazione ab aeterno è un concetto contraddittorio: perché postula una serie in­finita di cause e una serie infinita di giorni. Su questo punto, come su tanti altri. S. Tommaso dissente nettamente dal suo amico Bonaven­tura. Egli non mette in dubbio l’insegna­mento della Scrittura circa la temporalità del mondo ma nega che la temporalità del mon­do sia razionalmente dimostrabile: si tratta semplicemente di una verità di fede, che va accettata per fede come i misteri della Trini­tà e dell’Incarnazione. La sua indimostrabi­lità risulta dall’esame sia dell’effetto (il mon­do), sia della causa (Dio). Dio, essendo eterno, ha certamente potuto causare da sempre. Quanto al mondo, perché sia crea­to, si esige soltanto che sia tratto dal nulla (ex nihilo) e non che sia prodotto nel tempo. "Che il mondo non sia sempre esistito si tie­ne soltanto per fede, e non si può provare con argomenti convincenti (demonstrative probari non potest): come sopra abbiamo af­fermato a proposito del mistero della Trini­tà. E la ragione è che il cominciamento del mondo non può essere dimostrato partendo dal mondo medesimo. Infatti principio della dimostrazione (deduttiva e apodittica) è l’essenza stessa d’una cosa. Ora, quanto all’essenza sua specifica ogni cosa astrae dalle circostanze di luogo e di tempo; e per questo si dice che “gli universali sono dovunque e sempre”. Quindi non si può dimostrare che l’uomo, il cielo o le pietre non siano sempre esistiti.  Parimenti non si può dimostrare la cosa neppure partendo dalla causa efficien­te, se questa opera per libero arbitrio. Infat­ti non si può investigare razionalmente quale sia la volontà di Dio, se non a proposito di quelle cose che è assolutamente necessario che lui voglia: ma non appartiene a questo genere quanto egli vuole riguardo alle crea­ture, come si è spiegato. La volontà divina può essere invece manifestata all’uomo per rivelazione, sulla quale appunto si fonda la fede. Quindi che il mondo ha avuto inizio è cosa da credersi, ma non oggetto di dimo­strazione o di scienza. E questa è una cosa che bisogna tener presente, perché qualcu­no, presumendo di dimostrare ciò che è sol­tanto di fede, non abbia da portare argo­menti che non provano, e offrire così materia di derisione a coloro che non credono, facendo loro supporre che noi si credano le cose di fede per argomenti di questo genere" (I, q. 46, a. 2). Stupenda è la replica di S. Tommaso all’obiezione secondo cui l’eternità del mon­do sarebbe impossibile perché essa suppone un’infinità di cause e di giorni. Essa merita d’essere riportata integralmente. "Nella concatenazione essenziale (per se) non si può retrocedere all’infinito (impossibile est procedere in infinitum); come sarebbe nel caso che si moltiplicassero le cause che sono essenzialmente richieste per un dato effetto; se, p. es., la pietra fosse mossa dal bastone, e il bastone dalla mano e cosi via all’infinito. Ma non è assurdo che si possa retrocedere all’infinito nella concatenazione non essen­ziale (per accidens) delle cause efficienti; nel caso cioè che tutte quelle cause moltiplicate all’infinito non abbiano che un solo rapporto causale (appartengano cioè allo stesso ordi­ne causale), e che la loro molteplicità sia sol­tanto qualche cosa di meramente accessorio e occasionale; come per es. che un artigiano compia la sua opera con molti martelli, per la sola combinazione che se ne rompe uno dopo l’altro. Nel caso indicato capita a que­sto martello di agire per combinazione dopo un altro martello. E così a questo uomo ca­pita pure di essere generato da un altro: in­fatti egli genera perché uomo, e non perché figlio di un altro uomo; perché tutti gli uomi­ni sono sullo stesso piano nella scala delle cause efficienti, che è il grado particolare di coloro che hanno la virtù di generare. Perciò non è assurdo che un uomo sia generato dal­l’altro all’indefinito. Sarebbe invece assurdo se la generazione di quest’uomo dipendesse da quest’altro uomo, quindi dalla materia elementare, poi dal sole e così di seguito al­l’infinito" (I, q. 46, a. 2, ad 7).

 

Con la tesi della non dimostrabilità della temporalità del mondo, S. Tommaso si è preoccupa­to di non confondere ciò che si deve ritenere per fede con ciò che si può provare con la ra­gione, salvaguardando così quella distinzio­ne formale dei due campi, che costituisce uno del capisaldi del suo pensiero.

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         Battista Mondin.

         Dizionario enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D'Aquino,

         Edizioni Studio Domenicano, Bologna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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