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Metafisica

 

METAFISICA

 

Questo termine che, in greco, significa “ciò che viene dopo la fisica» ( metà physìkà) ebbe un'origine accidentale, e all'i­nizio non significava affatto il contenuto di una determinata disciplina filosofica, bensì la semplice collocazione di una serie di opu­scoli, i quali, nella biblioteca di Andronico di Rodi, curatore dell'edizione completa delle opere aristoteliche, erano stati colloca­ti precisamente dopo gli otto libri della Fisi­ca: si trattava di un gruppo di opuscoli molto importanti che riguardavano quella che Ari­stotele aveva chiamato “filosofia prima”, ma a cui non aveva dato una denominazione co­mune. Senonché il nome, originato in modo così casuale, corrispondeva effettivamente alla sostanza: essi discutevano di realtà, di qualità, di proprietà, di princìpi che non si restringono al solo mondo fisico, materiale, ma vanno oltre, sono cioè «metafisici».

      Quindi, propriamente parlando, per metafisica si intende quella parte eminente della filoso­fia che si propone di rinvenire una spiegazio­ne esaustiva e conclusiva del mondo: la metafisica studia la ragione ultima dell'ente, i princìpi primi del reale; essa cerca un solido fonda­mento di tutto ciò che ne è privo, e privo di fondamento appare il mondo, appare l'uo­mo, appare la storia. Secondo la celebre definizione aristotelica la metafisica è “la scienza che studia l'ente in quanto tale e le proprietà che lo accompagnano necessariamente”.

La storia della metafisica coincide sostanzial­mente con la storia della filosofia occidenta­le, ché la preoccupazione prima e massima di tutti i filosofi antichi, medioevali e moder­ni è sempre stata quella dì fornire una spie­gazione conclusiva ed esaustiva dei fenome­ni che ci circondano, scoprendo la causa su­prema, la ragione ultima dell'essere. L'in­tento metafisico è già chiaramente presente nei filosofi ionici: è la causa ultima che essi ricercano, anche se poi in effetti la situano in uno dei quattro elementi costitutivi della materia: l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco.

Con Parmenide la metafisica non è più una sem­plice aspirazione ma diviene un'autentica realtà. Infatti, additando l'essere quale prin­cìpio unico e supremo d'ogni cosa, egli in­troduce la metafisica nell'ambito che le è proprio e che resterà tale per sempre.

Platone approfondisce la ricerca dell'es­sere, distinguendo tra ciò che veramente è e ciò che è solo in modo apparente. Ciò che veramente è lo identifica col mondo delle Idee: esso è ingenerato, eterno, incorruttibi­le; mentre ciò che semplicemente appare lo identifica col mondo materiale: esso è finito, mutevole, contingente e corruttibile. Ovvia­mente per Platone il mondo ideale è il fon­damento, la causa dì quello materiale: il se­condo è una partecipazione e imitazione del primo.

Ma qual è il rapporto effettivo che inter­corre tra il mondo materiale e il mondo ideale? Platone su questo punto non ha mai raggiunto una soluzione definitiva. Egli ha formulato due ipotesi: quella della parteci­pazione delle cose materiali nelle idee, e quella della imitazione delle idee da parte delle cose. Ma entrambe presentavano gros­se difficoltà e questo gli impedì di ascrivere certezza assoluta alle sue ipotesi metafisi­che.

Aristotele, come sappiamo, definisce la metafisica come “studio dell'ente in quanto tale e delle proprietà che l’accompagnano necessa­riamente. Essa non sì identifica con nessuna delle scienze particolari poiché nessuna di esse si occupa dell'ente in quanto tale, ma di qualche determinata parte dell'ente, di cui studia aspetti particolari, come fanno le ma­tematiche” (Metaf. I003a, 21‑26). Egli iden­tifica tale studio con quello delle quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. Male quattro cause di che cosa? Ovviamen­te, del mondo materiale che ci circonda. È scoprendo i principi fondamentali che sor­reggono questo mondo che si dischiude il mistero dell'essere. Peraltro quando si tratta di determinare la natura specifica delle cose materiali Aristotele rifiuta la teoria platoni­ca delle Idee ritenendola come puramente fantastica e del tutto superflua (un doppione inutile). L'essenza delle cose, a suo giudizio, non sta fuori delle cose bensì nelle cose stes­se. All'interno delle cose stesse Aristotele ricerca anche la ragione del loro divenire. Ed è in funzione del divenire che egli ha le sue intuizioni più geniali: le celebri distinzio­ni tra atto e potenza, tra materia e forma, tra sostanza e accidenti. Queste gli servono per fornire una spiegazione del divenire, mantenendone salva la realtà, ma senza ca­dere nella concezione eraclitea che vanifica­va l’essere. Del divenire Aristotele da la ce­lebre definizione: “E', l'atto di un ente in po­tenza in quanto tale” (Metaf. 1069b). “Il moto (divenire) ‑ spiega Aristotele ‑ si pre­senta come una specie di atto: un atto im­perfetto in quanto non è ancora stato porta­to a termine. Di qui la difficoltà di definire la natura del moto (...). Rimane dunque quel che sì è detto: atto e tuttavia non atto nel senso pieno: difficile senza dubbio a con­cepirsi, ma non per questo meno reale” (Metaf. 1066a, 17 ss.). Il divenire è passag­gio dalla potenza all'atto. Tale passaggio comporta la permanenza di un sostrato (la materia) e l'enucleazione di una nuova for­ma. Ciò vale per tutte le sostanze materiali. che sono quelle che divengono. Mentre le sostanze immateriali sono immutabili, puri atti, pure forme. Atto purissimo, immobile, perfetto, piena coscienza di se stesso e ragio­ne, traguardo ultimo (causa finale) di ogni divenire (ma non creatore del mondo), se­condo Aristotele, è Dio, motore immobile. Dio è il movente supremo, che col suo fasci­no determina l'evoluzione del mondo.

I pensatori cristiani fino a S. Tommaso, nell'ap­profondimento dei misteri della fede, si ser­virono quasi esclusivamente della metafisica plato­nica (S. Agostino ripete con insistenza di ap­partenere alla “setta dei platonici”), appor­tando qua e là significativi ritocchi, in parti­colare riassorbendo il mondo delle Idee in Dio, il quale, così, può diventare principio supremo e unico di tutte le cose.

 

1. L'OIRIGINALITA’ DI S. TOMMASO

 

È merito insigne dell'esegesi tomistica del secolo XX, grazie soprattutto agli studi di L. Gilson, C. Fabro, J. Maritain, A. Ma­snovo, J. De Finance, L. De Racymacker, l'aver messo in luce sia l'originalità sia la grandezza del pensiero metafisico di S. Tommaso. La cosa era sempre sfuggita agli storici e agli stessi commentatori dell'Aquinate, i quali avevano sempre identificato la in. di S. Tommaso con la metafisica di Aristotele. La ragione di questo grossissimo abbaglio va ricercata nel fatto che l'Angelico non ha mai composto nessun trattato di metafisica. Certamente l'opuscolo De en­te et essentia è un vigoroso saggio di metafisica, ma di fatto vi si affronta soltanto la questione dei rapporti tra essenza ed essere. La vasta tematica che fa parte della metafisica, S. Tommaso l'ha af­frontata soltanto occasionalmente, in svaria­te opere e, tra l'altro, senza nessuna pretesa di elaborare una teoria metafisica nuova. Così è sta­to molto più agevole per gli studiosi di S. Tommaso interpretare il suo pensiero metafisico alla luce di Aristotele (come hanno fatto il Gae­tano e moltissimi altri Tomisti fino al secolo XX), anziché far la fatica di raccogliere e ri­costruire in modo sistematico la visuale metafisica del Dottore Angelico. Come si è detto il me­rito di questo importantissimo e fecondo la­voro spetta soprattutto ad alcuni studiosi del nostro secolo, profondi conoscitori del pen­siero medioevale e in particolare del pensie­ro dell'Aquinate.

 

2. DEFINIZIONE DELLA METAFISICA

 

Della metafisica l'Angelico dà la stessa defini­zione dello Stagirìta: “La metafisica studia l'ente e ciò che l'accompgna necessariamente (metaphysica considerat ens et ea qaae consequuntur ipsum)” (I Met, Proem.). Questo accordo sulla definizione generale della metafisica non deve trarre in inganno: non de­ve cioè essere scambiato come un accordo sostanziale, di fondo e di contenuti, tra la metafisica aristotelica e la metafisica tomistica; si tratta in ef­fetti semplicemente di un accordo su di una definizione preliminare, che implica un ac­cordo di indirizzo e non di contenuti. Per parlare di accordo di fondo occorrerà prima esaminare attentamente come sono intesi l'oggetto, il metodo e i principi della metafisica da Aristotele da una parte e da S. Tommaso dall'altra. Ma allora si potrà costatare che le vedute su questi tre punti del massimo metafisico del­l'antichità e del massimo metafisico del medioevo non coincidono affatto.

 

3. OGGETTO DELLA METAFISICA

 

L'oggetto materiale della metafisica è lo stesso sia per Aristotele sia per S. Tommaso: è l'ente. Ap­parentemente è il medesimo anche l'oggetto formale: è l'ente in quanto ente. Ma sul mo­do di intendere l'espressione “in quanto en­te” l'Angelico si allontana decisamente da Aristotele. Per costui ciò che costituisce l'ente in quanto ente è la sostanza. perché essa sola possiede l'entità in modo autono­mo. E così tutta l'indagine metafisica di Aristotele muove verso la sostanza. Invece per S. Tommaso ciò che costituisce l'ente in quanto ente è l'essere. poiché, per definizione l'ente non è altro che ciò che possiede l'essere, e più pro­cisamente ancora “l’ente è ciò che partecipa all’essere” (De sub. sep., c. 3). Ma con que­sta precisazione non tutto è stato ancora chiarito. Perché è proprio sul concetto di es­sere che si registra la grande novità e l'asso­luta originalità di S. Tommaso, una novità che gli consente di rinnovare da capo a fondo tutto l'edificio metafisico aristotelico.

Dell'essere, come ripete spesso S. Tommaso, si possono dare due concetti: un concetto ge­nerico e un concetto intensivo: il primo lo chiama esse commune; il secondo lo chiama esse absolutum oppure esse divìnum. Il pri­mo è il più esteso di tutti i concetti e per que­sto non cade dentro i confini di nessun genere, ma è poverissimo di contenuto, in quan­to non include ma prescinde da tutte le altre perfezioni (vita, verità, bontà, bellezza, co­noscenza ecc.). Invece il secondo è ricchissi­mo di contenuto, perché abbraccia tutte le perfezioni: “Fra tutte le cose l'essere è la più perfetta” (De Pot., q. 7, a. 2, ad 9); ”L'esse­re è l'attualità d'ogni atto e quindi la perfe­zione di ogni perfezione» (ibid.) (v. ESSE­RE).

Dei due concetti, quello generico costi­tuisce il punto di partenza della metafisica, ma non può costituire il suo oggetto adeguato. Infat­ti con il concetto comune di essere non è possibile fornire nessuna spiegazione della realtà. E se un filosofo non possiede il con­cetto intensivo allora per spiegare la realtà ricorre ad altri concetti: alla sostanza (Ari­stotele), all'unità (Plotino), alla verità (Ago­stino) ecc, Invece S. Tommaso insiste sull'essere, perché fuori dell'essere non si può trovare che il nulla. E così raggiunge un nuovo con­cetto di essere, un concetto infinitamente più ricco, il concetto dell'essere assoluto, e lo assume come oggetto adeguato della sua metafisica, che diventa pertanto la metafisica dell'essere per eccellenza.

Pertanto, per S. Tommaso, la metafisica è l'indagine in­torno all'essere dell'ente o, ciò che è lo stes­so, l'indagine intorno all'ente in quanto es­sere. Ma l'essere concepito non in modo co­mune bensì in modo esclusivo, come “la più perfetta di tutte le cose” (De Pot., q.7, a. 2, ad 9); come “ciò da cui la nobiltà d'ogni cosa dipende” (C. G., I, c. 56); come la fonte da cui irradia ogni perfezione (De sub. sep., a 9, n. 97). Ovviamente la metafisica, non si accontenta di parlare dell'essere dell'ente. Deve occuparsi anche di tutto ciò che è implicato in una ri­sposta esauriente alla domanda: “Che cos'è l'essere dell'ente?”. Ma, come precisa l’A­quinate, non tutto appartiene al discorso metafisico alla stessa maniera. L'essere del­l'ente costituisce l'oggetto formale (il subiec­tum, come lo chiama S. Tommaso); il resto rientra nella metafisica come punto d'arrivo. E, quindi, se per spiegare l'essere dell'ente occorrerà par­lare anche di Dio, questi non entrerà nella metafisica come oggetto formale bensì come termine, come punto d'arrivo. “Benché l'oggetto di questa scienza sia l‘essere in generale, si dice che l'intera scienza deve occuparsi delle cose separate dalla materia secondo l'essere (cioè realmente) oppure secondo ragione (cioè concettualmente). Poiché non sono soltanto quelle cose che non possono mai esistere nella materia che sono separate dal­la materia nella loro rappresentazione con­cettuale e nel loro essere, come Dio e le so­stanze angeliche, ma anche quelle che pos­sono esistere senza la materia, come l’essere in generale. Questo tuttavia non si potrebbe affermare, se la loro esistenza richiedesse la materia” (I Met, Proem.).

Pertanto nella concezione tomistica del­la metafisica, l’oggetto proprio della regina di tutte le scienze è l'essere; ma per cogliere l'essere occorre passare attraverso l’ente perché la dimora, il ricettacolo dell'essere è l’ente; si noti bene, non l'ente preso in astratto ‑ per­ché la metafisica è scienza del concreto ‑ bensì l'en­te che fa parte della nostra esperienza: qual­siasi ente (una pianta, un animale, un uomo ecc.), ente che si presenta subito come fini­to, partecipato, contingente.

Assegnando alla metafisica quale suo oggetto proprio l’essere, S. Tommaso la riconduce, dopo se­coli di oblio, al compito che le aveva già as­segnato il suo fondatore, Parmenide.

 

4. IL METODO DELLA METAFISICA: RISOLUZIONE -  COMPOSIZIONE

 

Per lo studio del proprio oggetto ogni scienza dispone di un proprio metodo. Qual è il metodo della metafisica?

S. Tommaso si occupa espressamente del meto­do della metafisica nel commento al De Trinitate di Boezio. Là egli distingue due metodi: risolu­tivo e compositivo. Il primo pratica la via ascendente: risale dagli eventi particolari al­le cause universali, oppure dalle cause meno universali a quelle più universali; risale dalle determinazioni concrete all'essere stesso, oppure dal contenuto di una cosa ai suoi presupposti necessari; e, in tal modo, risolve gli effetti nelle cause, i partecipanti nel par­tecipato, il contingente nell'assoluto. Il se­condo, quello compositivo, procede in senso inverso e, quindi, pratica la via discendente: discende dalle cause universali agli effetti particolari, dal partecipato ai partecipanti, dall'assoluto al contingente ecc., sviluppan­do le implicazioni contenute nella causa su­prema. Di questi due metodi, il primo è quello che conviene maggiormente alla metafisica, mentre il secondo è il metodo proprio della teologia. Ma nella metafisica, stessa, dopo aver pra­ticato la risoluzione si può far uso anche del­la composizione (compositio), che si potreb­be chiamare anche ri‑composizione. Ecco come si esprime lo stesso S. Tommaso a questo ri­guardo: “Il processo raziocinativo può assu­mere due orientamenti: compositivo, quan­do procede dalle forme più universali a quel­le meno universali (o particolari); risolutivo quando procede in senso inverso. Infatti, ciò che è più universale è più semplice. Ora è universalissimo ciò che appartiene a ogni en­te. E perciò il termine ultimo del processo risolutivo in questa vita è lo studio dell'ente e dì tutto ciò che gli appartiene in quanto en­te. E queste sono le cose di cui si occupa la scienza divina (o metafisica), ossia le sostan­ze separate e tutto quanto è comune a tutti gli enti. Dal che risulta che l'indagine metafisica è massimamente speculativa” (In De Trin., lect. II, q. 2, a. 1, ad 3; cfr. V, q. 4).

Affermando che il metodo proprio della metafisica è quello risolutivo‑compositivo S. Tommaso non intende peraltro escludere che la metafisica possa servirsi anche di altri procedimenti quali la definizione, la divisione, il paragone, l'ana­logia, la metafora, l'argomento dì conve­nienza ecc.

In effetti, di tali procedimenti si serve egli stesso con grande maestria e assiduità. Questa ricchezza e complessità della meto­dologia, di cui fa uso l'Angelico nell'indagi­ne metafisica, va tenuta costantemente presente leggendo i suoi scritti, se si vuole cogliere la portata esatta delle sue argomentazioni.

 

5. I PRINCIPI DELLA METAFISICA

 

Come aveva già fatto Aristotele, anche S. Tommaso pone alla base della ricerca metafisica, i princì­pi di identità (v. IDENTITA’) e di non contrad­dizione (v. CONTRADDIZIONE). Ma questi due principi che potrebbero essere sufficien­ti per discipline astratte quali la logica e la matematica non possono certamente bastare per la metafisica che è scienza del reale e che, come sappiamo, si avvale del metodo della risolu­zione, che è essenzialmente legato al princi­pio di causalità, perché la risoluzione consi­ste esattamente nel ricondurre gli effetti alle cause.

S. Tommaso, che non ha alle spalle le critiche di Hume e di Kant al principio di causalità (v. CAUSALITA’), non si preoccupa di prenderne le difese, e qualora l'avesse fatto avrebbe se­guito lo stesso procedimento indiretto di cui si avvale, come Aristotele, nella difesa del principio di non‑contraddizione. In effetti l'Angelico tratta il principio di causalità co­me un principio primo, cioè un principio di prima evidenza, perché non ha senso parlare di effetto se non con riferimento a una cau­sa: “L'effetto dipende necessariamente dalla causa. Ciò rientra nel concetto stesso di cau­sa e di effetto. Questo nelle cause materiali e formali è quanto mai ovvio; infatti se si to­glie il principio materiale oppure il principio formale, la cosa stessa cessa di esistere, per­ché tali principi fanno parte della sua essen­za. Ma lo stesso giudizio va dato delle cause efficienti” (De Pot., q. 5, a. 1).

Strettamente collegati col principio di causalità sono altri due princìpi che svolgo­no un ruolo capitale nella metafisica di S. Tommaso: il prin­cipio di partecipazione e il principio di somi­glianza. A ben vedere questi due principi non sono che semplici estrapolazioni di due proprietà della causalità.

II principio di partecipazione dice infatti che tutto ciò che è per partecipazione è ne­cessariamente causato. Incausato è soltanto ciò che è per essenza (v. PARTECIPAZIONE). “Quando qualche cosa riceve in maniera parziale ciò che appartiene ad altri in modo totale, sì dice che ne è partecipe; (...) simil­mente si dice che l'effetto partecipa alla cau­sa, soprattutto quando non ne adegua il po­tere; un esempio di questa partecipazione si ha quando si dice che l'aria partecipa alla lu­ce del sole” (In De Hebd., lect. II, n. 24).

Il principio di somiglianza dice che la causa, comunicando qualche cosa di sé stessa all'effetto, non può non instaurare una certa somiglianza tra sé e l'effetto: “La cau­sa produce sempre qualche cosa di simile a sé” (omne agens agit simile sibi) (C. G., I, c. 29; De Pot., q.7, a. 5; III Sent., d. 33, q. 1, a. 2). S. Tommaso farà continuamente appello a questo principio quando vorrà provare che l'uomo non solo conosce l'esistenza di Dio (per questo basta il principio di causalità) ma anche qualche cosa della sua natura. Siccome ogni agente ‑ scrive l'Angelico ‑ si prefigge di portare la sua somiglianza nel­l'effetto, nella misura in cui questo può rice­verla, sarà tanto più perfetta questa sua azione, quanto più perfetto è l'agente. Infat­ti è chiaro che quanto più un oggetto è cal­do, tanto maggiormente riscalda, e quanto più uno è bravo artefice, tanto meglio ese­gue nella materia il disegno artistico. Ora Dio è un agente perfettissimo. Quindi a lui compete imprimere perfettissimamente la sua somiglianza nelle cose create, per quan­to è possibile a una natura creata” (C. G., II, c. 45).

 

6. IL MOMENTO RISOLUTIVO

 

Fissati e assicurati i princìpi della metafisica, S. Tommaso può applicare tranquillamente il metodo risolutivo per attuare il suo disegno di ricon­durre tutte le cose a un unico supremo fon­damento battendo la via dell'essere. Ora la risoluzione (resolutio) che percorre la via dell'essere ha come itinerario obbligato la ri­soluzione dell'ente nell'essere. Perciò il pun­to di partenza è necessariamente lo studio dell'ente rispetto all'essere, studio condotto incessantemente alla luce dell'essere conce­pito intensivamente, ossia come perfezione assoluta, radicale, principio d'ogni perfezio­ne, attuazione di tutte le perfezioni.

La riflessione sull'ente, condotta alla lu­ce dell'essere, consente a S. Tommao di stabilire due verità di capitale importanza: la distin­zione reale tra essenza e atto dell'essere (ac­tus essendi) nell'ente, e il ruolo potenziale, recettivo dell'essenza rispetto all'essere. Queste due penetranti osservazioni, insieme all'intuizione preliminare del concetto inten­sivo dell'essere, costituiscono praticamente tutta la grande ma semplicissima impalcatu­ra della metafisica tomistica. Quella di S. Tommaso più di qualsiasi altra metafisica va direttamente all'essen­ziale. Guardando alla realtà rispetto a ciò che ha veramente dì essenziale trova che di propriamente essenziale ha soltanto questo: a) l'ente nella sua indigenza in quanto pos­sesso limitato dell'essere, realtà composita e pertanto imperfetta; b) l'essere, oceano infi­nito d'ogni perfezione. Dentro questa sem­plice ma solida impalcatura si muove l'inda­gine risolutiva di S. Tommaso che riconduce l'ente all’essere, evidenziando allo stesso tempo la sussistenza dell'essere e la ragion d'essere dell'ente.

 

a) La distinzione reale tra essenza e atto d'essere nell'ente. ‑ Di questa distinzione si parla già diffusamente alle voci ENTE, ESSENZA e ESSERE. Qui ci preme sottolineare anzitutto l'importanza che riveste tale distin­zione nella metafisica di S. Tommaso. La distinzione reale tra essenza e atto d'essere è, in effetti, uno dei grandi capisaldi della metafisica tomistica. An­che se nel corso dei secoli c'è stata una note­vole varietà di opinioni sul modo di intende­re tale distinzione, è innegabile che tutto l'e­dificio metafisico di S. Tommaso si regge su questa distinzione (insieme al concetto intensivo dell'essere). E quei discepoli dell'Aquinate che non hanno colto il significato del concet­to intensivo dell'essere, non sono riusciti neppure a intendere il senso autentico della distinzione tra l'essenza e l’atto d'essere nel­l'ente.

La distinzione reale è, come abbiamo detto, la prima acuta osservazione che S. Tommaso fa quando esamina l'ente: tutti gli enti che cadono sotto la nostra diretta esperienza, sono enti in cui l’essere non si identifica mai con la loro essenza: una cosa è l'essenza, al­tra cosa (nell'ente stesso) è l'essere. Ecco qualche testo illuminante a questo proposi­to. “L'essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto, in altre in mo­do meno perfetto, però non è mai presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza; il che è evidentemente falso, giacché l'essenza di qualsiasi cosa è concepi­bile anche prescindendo dall'essere” (II Sent, d. 1, q. 1, a. 1). “Anche nella sostanza intellettuale creata si trovano due elementi, cioè l'essenza e l'essere (substantia ipsa et es­se eius), il quale non è l'essenza stessa: l'es­sere è il complemento dell'essenza esistente, perché ogni cose è in atto quando ha l'esse­re. Rimane dunque che in ciascuna delle suddette sostanze si ha composizione di atto e potenza” (C. G., II, c. 53).

 

b) Il ruolo recettivo, potenziale dell'essenza rispetto all'essere. ‑ L'essenza e l'atto dell'es­sere, spiega lucidamente S. Tommaso, sono tra loro realmente distinti e tuttavia formano un'uni­ca realtà; non sono due sostanze, ma sono due elementi del medesimo, unico ente. E la loro unione non è accidentale bensì sostan­ziale, perché il ruolo che l'essere svolge ri­spetto all'essenza non è quello degli acciden­ti, ma piuttosto è quello della forma rispetto alla materia, e come non si dà materia senza forma così non si dà essenza senza atto del­l'essere. S. Tommaso critica la teoria di Avicenna che considerava l'essere un accidente. “Non pare che Avicenna abbia visto giusto. Infatti pur essendo l'essere della cosa diverso dalla sua essenza, tuttavia non si deve concepire come qualche cosa dì aggiunto a mo' di acci­dente, ma come qualcosa che viene in certo qual modo costituito mediante i princìpi del­l'essenza” (IV Met., lect. 2, n. 558). “L’esse­re della sostanza, essendo atto dell'essenza, non si può chiamare propriamente acciden­te, come se facesse parte della categoria de­gli accidenti, ma solo per analogia, dato che l'essere. come l'accidente, non fa parte del­l'essenza” (De Pot., q. 5, a. 4, ad 3). Il rap­porto tra essenza ed essere nell'ente va quin­di inteso come rapporto di potenza e atto: l’essenza funge da potenza. e l'essere funge da atto. E l'essenza nel suo ruolo di potenza riceve e limita l'atto dell'essere. Le essenze, spiega S. Tommaso, sono come dei recipienti e con­tengono tanto di essere quanto ne comporta la loro capacità; viceversa l'essere si trova negli enti secondo la misura della loro capa­cità. “L’essere che in se stesso è infinito può essere partecipato da infiniti enti e in infiniti modi. Se dunque l'essere di qualche ente è finito bisogna che esso sia limitato da qual­che altra cosa, che sia in una certa guisa pre­sente nell'ente come suo principio” (C. G., I, c. 43). Tale è il ruolo dell'essenza. D'al­tronde le cose non si possono distinguere le une dalle altre in ragione dell'essere che è comune a tutte. Perciò “se differiscono real­mente tra loro, bisogna o che l'essere stesso sia specificalo da alcune differenze aggiunte, in maniera che cose diverse abbiano un esse­re specificamente diverso, oppure che le co­se differiscano, perché lo stesso essere com­pete a nature specificamente diverse. Il pri­mo modo è impossibile, perché all'essere non si può fare aggiunta in quel modo con cui si aggiunge la differenza specifica al ge­nere. Bisognerà allora ammettere che le co­se differiscano a cagione delle loro diverse nature, per le quali si acquista l’essere in modo diverso” (C. G., I, c. 26).

 

c) La dimostrazione dell'esistenza dell'esse­re stesso (esse ipsum). ‑ Dopo l'accurata esplorazione di quella che è la condizione ontologica effettiva dell'ente, che è condi­zione segnata palesemente dalla differenza ontologica, tra essenza e atto dell'essere e inoltre dalla limitazione della perfezione dell'essere da parte dell'essenza, S. Tommaso è fi­nalmente in grado di compiere il passo deci­sivo e conclusivo della resolutio dell'ente nell'essere, cioè dell'effetto della sua causa. provando l'esistenza dell'esse ipsum.

Gli argomenti principali a cui l'Angelico affida questa importantissima operazione sono tre: il primo è tratto dalla differenza ontologica, il secondo dalla partecipazione e il terzo dalla gradazione della perfezione dell'essere negli enti.

     Argomento della differenza ontologica: muovendo dalla verità che l'essere non ap­partiene all'essenza di nessun ente finito, ed è da essa realmente distinto, S. Tommaso imposta la risoluzione dell'ente nell'essere come segue: “Tutto ciò che conviene a qualche cosa o è causalo dai principi della sua natura, come la risibilità nell'uomo, o le compete in virtù dì qualche principio estrinseco, come la luce all'aria per influsso del sole. Ora, non si può dire che l'essere di una cosa sia causato dalla sua stessa forma o essenza, intendendo co­me da causa efficiente, perché così una cosa sarebbe causa di se stessa, ciò che è del tutto impossibile. È necessario quindi che ogni cosa in cui l'essere è diverso dalla sua natu­ra, abbia l'essere da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù di un altro esige come cau­sa prima ciò che e' per sé, vi deve essere qualche cosa che sia causa dell'essere in tut­te le altre, appunto perché essa è soltanto essere (ipsa est esse tantum); diversamente si andrebbe all'infinito nelle cause, avendo ogni cosa, che non è solo essere, una causa, come s'è visto” (De Ent. et Ess., c. 4, n. 27).

Argomento della partecipazione: assu­mendo come punto di partenza il fenomeno della partecipazione S. Tommaso opera la risoluzio­ne dell'ente nell'essere così: “Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo. Per es., tutte le co­se calde per partecipazione si riducono al fuoco il quale è caldo per essenza. Ora, dato che tutte le cose che sono partecipano all'es­sere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa essenza (necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum, quod sit ipsum esse per essentiam), ossia che la sua essenza sia l'essere stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa sufficien­tissima, degnissima e perfettissima di tutte le cose: da Lui tutte le cose che esistono parte­cipano all'essere” (In Ioan., Prol. n. 5).

Argomento della gradazione della perfe­zione dell'essere negli enti: questo argomen­to assume come dato di partenza la graduali­tà della perfezione dell'essere negli enti. Muovendo da tale fenomeno S. Tommaso opera la risoluzione nel modo seguente: “L'essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto e in altre in modo meno perfet­to; però non è mai presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza, altrimenti l'essere farebbe parte della defini­zione dell'essenza di ogni cosa, il che è evi­dentemente falso, giacché l'essenza di qual­siasi cosa è concepibile anche prescindendo dall'essere. Pertanto occorre concludere che le cose ricevono l'essere da altri (e retroce­dendo nella serie delle cause) necessita che si arrivi a qualche cosa la cui essenza sia co­stituita dall'essere stesso (oportet devenire ad aliquid cuius natura sit ipsum suun esse), altrimenti si dovrebbe regredire all'infinito» (II Sent., d. 1, q. 1, a. 1).

 

7. IL MOMENTO COMPOSITIVO

 

Il metodo risolutivo ha consentito a S. Tommaso di dare la scalata all'essere e di raggiungere la vetta (il cacumen, come lo chiama S. Tommaso) di ogni cosa che è l'essere per essenza (esse per essentiam), cioè l'essere stesso sussisten­te (esse ipsum subsistens).

Dopo la faticosa ascesa e il raggiungi­mento della vetta, l'ansia della ricerca non è ancora appagata; anzi è giunto il momento più interessante e affascinante: quello dello studio dei misteri che si celano dentro l'o­ceano dell'essere. È il momento della com­posizione, che è lo studio dell'essere in se stesso e come causa di tutti gli enti.

Il momento compositivo può battere due vie differenti: la via teologica e la via ontolo­gica. Nel primo caso ciò che si trova sono le proprietà dell'esse ipsum inteso come Dio. Se si percorre questa via si cerca di capire la natura di Dio, i suoi attributi e le sue opera­zioni. Allora la metafisica assume il volto e i compiti della teologia naturale. Nel secondo caso ciò che si incontra sono le proprietà fondamen­tali e trascendentali dell'essere. Allora la metafisica diviene più che mai ontologia.

S. Tommaso normalmente, nel momento com­positivo, percorre la via teologica e, così, sviluppa una ricchissima dottrina su Dio (v. DIO), studiando la sua natura, i suoi attributi (semplicità, perfezione, infinità, immutabili­tà, eternità, bontà, verità, giustizia ecc.) e operazioni (creazione, provvidenza, concor­so, predestinazione). Ma l'Aquinate non ignora la via ontologica, e quando la percor­re, approfondisce, in linea rigorosamente ontologica, la dottrina dei trascendentali (v. TRASCENDENTALE), in particolare dell'unità, della verità, della bontà e della bellezza (v. UNITA’, VERITA’, BONTA’, BELLEZZA),

 

8. CONCLUSIONE

 

     Tale è in rapida sintesi la metafisica dell'essere di S. Tommaso: una metafisica, sostanzialmente nuova, per­ché nuovo è il concetto di essere che la anima e illumina dall'inizio alla fine. Nell'edifi­cio metafisico di S. Tommaso c'è molto materiale che proviene per due terzi da Aristotele (a partire dalla definizione della metafisica, dell'og­getto, dei principi e del metodo, alla teoria dell'atto e potenza, delle quattro cause, delle categorie ecc.) e per un terzo da Pla­tone (con i due grandi principi di partecipa­zione e di somiglianza). Ma S. Tommaso dell'antico materiale aristotelico e platonico ha fatto un uso del tutto nuovo, adattandolo al suo pro­getto originalissimo di una metafisica dell'essere (che è nettamente diversa dalla metafisica delle Idee di Platone e dalla metafisica delle sostanze di Aristotele).

La teoria di S. Tommaso è una metafisica, non una gnosi e tanto meno un'ideologia. Non è una ideologia perché l'unico obiettivo dell'An­gelico è la scoperta della verità: la verità del­l'ente (cioè di tutti gli innumerevoli enti che ci circondano) e la verità dell'essere. Ma non è neppure una gnosi, una rivelazione esoterica di qualche recondito mistero riser­vata a pochi privilegiati: è una ricerca specu­lativa aperta a tutti, che muove dall'esame dì fenomeni obbiettivi accessibili a tutti, e che segue come ogni autentica ricerca scien­tifica, anzitutto il procedimento induttivo. È una ricerca che realizza una profonda erme­neutica del reale, considerato come ente, che deve tutta la sua realtà all'essere. Ed è, infine, una ricerca squisitamente ontologica perché, dall'inizio alla fine. si muove esclusi­vamente all'interno dell'orizzonte dell'es­sere.

 

(Vedi:  ESSERE, ENTE, ESSENZA, TRASCENDEN­TALI, PRINCIPI, METODO, CAUSA. DIO, ATTO, POTENZA, MATERIA, FORMA, SOSTANZA, AC­CIDENTE)

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         Battista Mondin.

         Dizionario enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D'Aquino,

         Edizioni Studio Domenicano, Bologna.

 

 

 

 

 

 

 

 

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