Questo termine che, in greco, significa “ciò che viene dopo la fisica» (tà metà tà physìkà) ebbe un'origine
accidentale, e all'inizio non significava affatto il contenuto di una
determinata disciplina filosofica, bensì la semplice collocazione di una serie
di opuscoli, i quali, nella biblioteca di Andronico di Rodi, curatore
dell'edizione completa delle opere aristoteliche, erano stati collocati
precisamente dopo gli otto libri della Fisica: si trattava di un gruppo di
opuscoli molto importanti che riguardavano quella che Aristotele
aveva chiamato “filosofia prima”, ma a cui non aveva dato una denominazione comune.
Senonché il nome, originato in modo così casuale,
corrispondeva effettivamente alla sostanza: essi discutevano di realtà, di
qualità, di proprietà, di princìpi che non si
restringono al solo mondo fisico, materiale, ma vanno oltre, sono cioè
«metafisici».
Quindi, propriamente parlando,
per metafisica si intende quella parte eminente della filosofia che si propone
di rinvenire una spiegazione esaustiva e conclusiva del mondo: la metafisica
studia la ragione ultima dell'ente, i princìpi primi
del reale; essa cerca un solido fondamento di tutto ciò che ne è privo, e
privo di fondamento appare il mondo, appare l'uomo, appare la storia. Secondo
la celebre definizione aristotelica la metafisica è “la scienza che studia
l'ente in quanto tale e le proprietà che lo accompagnano necessariamente”.
La storia della metafisica coincide sostanzialmente con la storia della
filosofia occidentale, ché la preoccupazione prima e massima di tutti i
filosofi antichi, medioevali e moderni è sempre stata quella dì fornire una
spiegazione conclusiva ed esaustiva dei fenomeni che ci circondano, scoprendo
la causa suprema, la ragione ultima dell'essere. L'intento metafisico è già
chiaramente presente nei filosofi ionici: è la causa ultima che essi ricercano,
anche se poi in effetti la situano in uno dei quattro elementi costitutivi
della materia: l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco.
Con Parmenide la metafisica non è più una semplice
aspirazione ma diviene un'autentica realtà. Infatti, additando l'essere quale princìpio unico e supremo d'ogni cosa, egli introduce la
metafisica nell'ambito che le è proprio e che resterà tale per sempre.
Platone approfondisce la ricerca dell'essere, distinguendo tra ciò che
veramente è e ciò che è solo in modo apparente. Ciò che veramente è lo identifica
col mondo delle Idee: esso è ingenerato, eterno, incorruttibile; mentre ciò
che semplicemente appare lo identifica col mondo materiale: esso è finito,
mutevole, contingente e corruttibile. Ovviamente per Platone il mondo ideale è
il fondamento, la causa dì quello materiale: il secondo è una partecipazione
e imitazione del primo.
Ma qual è il rapporto effettivo che intercorre tra il mondo materiale e il
mondo ideale? Platone su questo punto non ha mai raggiunto una soluzione
definitiva. Egli ha formulato due ipotesi: quella della partecipazione delle
cose materiali nelle idee, e quella della imitazione delle idee da parte delle
cose. Ma entrambe presentavano grosse difficoltà e questo gli impedì di
ascrivere certezza assoluta alle sue ipotesi metafisiche.
Aristotele, come sappiamo, definisce la metafisica come “studio dell'ente
in quanto tale e delle proprietà che l’accompagnano necessariamente. Essa non
sì identifica con nessuna delle scienze particolari poiché nessuna di esse si
occupa dell'ente in quanto tale, ma di qualche determinata parte dell'ente, di
cui studia aspetti particolari, come fanno le matematiche” (Metaf. I003a, 21‑26). Egli identifica tale studio
con quello delle quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. Male quattro
cause di che cosa? Ovviamente, del mondo materiale che ci circonda. È
scoprendo i principi fondamentali che sorreggono questo mondo che si dischiude
il mistero dell'essere. Peraltro quando si tratta di determinare la natura
specifica delle cose materiali Aristotele rifiuta la teoria platonica delle
Idee ritenendola come puramente fantastica e del tutto superflua (un doppione
inutile). L'essenza delle cose, a suo giudizio, non sta fuori delle cose bensì
nelle cose stesse. All'interno delle cose stesse Aristotele ricerca anche la
ragione del loro divenire. Ed è in funzione del divenire che egli ha le sue
intuizioni più geniali: le celebri distinzioni tra atto e potenza, tra materia
e forma, tra sostanza e accidenti. Queste gli servono per fornire una
spiegazione del divenire, mantenendone salva la realtà, ma senza cadere nella
concezione eraclitea che vanificava l’essere. Del
divenire Aristotele da la celebre definizione: “E', l'atto di un ente in potenza
in quanto tale” (Metaf. 1069b). “Il moto (divenire) ‑
spiega Aristotele ‑ si presenta come una specie di atto: un atto imperfetto
in quanto non è ancora stato portato a termine. Di qui la difficoltà di
definire la natura del moto (...). Rimane dunque quel che sì è detto: atto e
tuttavia non atto nel senso pieno: difficile senza dubbio a concepirsi, ma non
per questo meno reale” (Metaf. 1066a, 17 ss.). Il
divenire è passaggio dalla potenza all'atto. Tale passaggio comporta la
permanenza di un sostrato (la materia) e l'enucleazione di una nuova forma. Ciò vale per tutte le sostanze materiali. che sono
quelle che divengono. Mentre le sostanze immateriali sono immutabili, puri
atti, pure forme. Atto purissimo, immobile, perfetto, piena coscienza di se
stesso e ragione, traguardo ultimo (causa finale) di ogni divenire (ma non
creatore del mondo), secondo Aristotele, è Dio, motore immobile. Dio è il
movente supremo, che col suo fascino determina l'evoluzione del mondo.
I pensatori cristiani fino a S. Tommaso, nell'approfondimento dei misteri
della fede, si servirono quasi esclusivamente della metafisica platonica (S.
Agostino ripete con insistenza di appartenere alla “setta dei platonici”),
apportando qua e là significativi ritocchi, in particolare riassorbendo il
mondo delle Idee in Dio, il quale, così, può diventare principio supremo e
unico di tutte le cose.
È merito insigne dell'esegesi tomistica del secolo XX, grazie soprattutto
agli studi di L. Gilson, C.
Fabro, J. Maritain, A. Masnovo, J. De Finance, L. De Racymacker, l'aver messo in
luce sia l'originalità sia la grandezza del pensiero metafisico di S. Tommaso.
La cosa era sempre sfuggita agli storici e agli stessi commentatori dell'Aquinate, i quali avevano sempre identificato la in. di S.
Tommaso con la metafisica di Aristotele. La ragione di questo grossissimo
abbaglio va ricercata nel fatto che l'Angelico non ha mai composto nessun
trattato di metafisica. Certamente l'opuscolo De ente et
essentia è un vigoroso saggio di metafisica, ma
di fatto vi si affronta soltanto la questione dei rapporti tra essenza ed
essere. La vasta tematica che fa parte della metafisica, S. Tommaso l'ha affrontata
soltanto occasionalmente, in svariate opere e, tra l'altro, senza nessuna
pretesa di elaborare una teoria metafisica nuova. Così è stato molto più agevole per gli
studiosi di S. Tommaso interpretare il suo pensiero metafisico alla luce di
Aristotele (come hanno fatto il Gaetano e moltissimi
altri Tomisti fino al secolo XX), anziché far la fatica di raccogliere e ricostruire
in modo sistematico la visuale metafisica del Dottore Angelico. Come si è detto
il merito di questo importantissimo e fecondo lavoro spetta soprattutto ad
alcuni studiosi del nostro secolo, profondi conoscitori del pensiero
medioevale e in particolare del pensiero dell'Aquinate.
2. DEFINIZIONE DELLA METAFISICA
Della metafisica l'Angelico dà la stessa definizione dello Stagirìta: “La metafisica studia l'ente e ciò che l'accompgna necessariamente (metaphysica
considerat ens et ea qaae
consequuntur ipsum)” (I Met, Proem.). Questo accordo
sulla definizione generale della metafisica non deve trarre in inganno: non deve
cioè essere scambiato come un accordo sostanziale, di fondo e di contenuti, tra
la metafisica aristotelica e la metafisica tomistica; si tratta in effetti
semplicemente di un accordo su di una definizione preliminare, che implica un
accordo di indirizzo e non di contenuti. Per parlare di accordo di fondo
occorrerà prima esaminare attentamente come sono intesi l'oggetto, il metodo e
i principi della metafisica da Aristotele da una parte e da S. Tommaso
dall'altra. Ma allora si potrà costatare che le vedute su questi tre punti del
massimo metafisico dell'antichità e del massimo
metafisico del medioevo non coincidono affatto.
3. OGGETTO DELLA METAFISICA
L'oggetto materiale della metafisica è lo stesso sia per Aristotele sia per
S. Tommaso: è l'ente. Apparentemente è il medesimo anche l'oggetto formale: è
l'ente in quanto ente. Ma
sul modo di intendere l'espressione “in quanto ente” l'Angelico si
allontana decisamente da Aristotele. Per costui ciò che costituisce l'ente in
quanto ente è la sostanza. perché essa sola possiede l'entità in modo autonomo. E così tutta l'indagine metafisica di Aristotele
muove verso la sostanza. Invece per S. Tommaso ciò che costituisce l'ente in
quanto ente è l'essere. poiché, per definizione l'ente non è altro che ciò che
possiede l'essere, e più procisamente ancora “l’ente
è ciò che partecipa all’essere” (De sub. sep.,
c. 3). Ma con questa precisazione non tutto è stato ancora chiarito. Perché è
proprio sul concetto di essere che si registra la grande novità e l'assoluta
originalità di S. Tommaso, una novità che gli consente di rinnovare da capo a
fondo tutto l'edificio metafisico aristotelico.
Dell'essere, come ripete spesso S. Tommaso, si possono dare due concetti:
un concetto generico e un concetto intensivo: il primo lo chiama esse commune; il secondo lo chiama esse absolutum oppure esse divìnum. Il primo è il più esteso di tutti i concetti
e per questo non cade dentro i confini di nessun genere, ma è poverissimo di
contenuto, in quanto non include ma prescinde da tutte le altre perfezioni
(vita, verità, bontà, bellezza, conoscenza ecc.). Invece il secondo è
ricchissimo di contenuto, perché abbraccia tutte le perfezioni: “Fra tutte le
cose l'essere è la più perfetta” (De Pot., q.
Dei due concetti, quello generico costituisce il punto di partenza della
metafisica, ma non può costituire il suo oggetto adeguato. Infatti con il
concetto comune di essere non è possibile fornire nessuna spiegazione della
realtà. E se un filosofo non possiede il concetto intensivo allora per
spiegare la realtà ricorre ad altri concetti: alla sostanza (Aristotele), all'unità (Plotino),
alla verità (Agostino) ecc, Invece S. Tommaso
insiste sull'essere, perché fuori dell'essere non si può trovare che il nulla.
E così raggiunge un nuovo concetto di essere, un concetto infinitamente più
ricco, il concetto dell'essere assoluto, e lo assume come oggetto adeguato
della sua metafisica, che diventa pertanto la metafisica dell'essere per
eccellenza.
Pertanto, per S. Tommaso, la metafisica è l'indagine intorno all'essere
dell'ente o, ciò che è lo stesso, l'indagine intorno all'ente in quanto essere.
Ma l'essere concepito non in modo comune bensì in modo esclusivo, come “la più
perfetta di tutte le cose” (De Pot., q.7, a. 2, ad 9); come “ciò da cui la nobiltà d'ogni cosa
dipende” (C. G., I, c. 56); come la fonte da cui irradia ogni perfezione
(De sub. sep., a 9, n. 97). Ovviamente la
metafisica, non si accontenta di parlare dell'essere dell'ente. Deve occuparsi
anche di tutto ciò che è implicato in una risposta esauriente alla domanda:
“Che cos'è l'essere dell'ente?”. Ma, come precisa l’Aquinate,
non tutto appartiene al discorso metafisico alla stessa maniera. L'essere dell'ente costituisce l'oggetto formale (il subiectum, come lo chiama S. Tommaso); il resto
rientra nella metafisica come punto d'arrivo. E, quindi, se per spiegare
l'essere dell'ente occorrerà parlare anche di Dio, questi non entrerà nella
metafisica come oggetto formale bensì come termine, come punto d'arrivo.
“Benché l'oggetto di questa scienza sia l‘essere in generale, si dice che
l'intera scienza deve occuparsi delle cose separate dalla materia secondo
l'essere (cioè realmente) oppure secondo ragione (cioè concettualmente). Poiché
non sono soltanto quelle cose che non possono mai esistere nella materia che
sono separate dalla materia nella loro rappresentazione concettuale e nel
loro essere, come Dio e le sostanze angeliche, ma anche quelle che possono
esistere senza la materia, come l’essere in generale. Questo tuttavia non si
potrebbe affermare, se la loro esistenza richiedesse la materia” (I Met, Proem.).
Pertanto nella concezione tomistica della metafisica, l’oggetto proprio
della regina di tutte le scienze è l'essere; ma per cogliere l'essere occorre
passare attraverso l’ente perché la dimora, il ricettacolo dell'essere è
l’ente; si noti bene, non l'ente preso in astratto ‑ perché la
metafisica è scienza del concreto ‑ bensì l'ente che fa parte della
nostra esperienza: qualsiasi ente (una pianta, un animale, un uomo ecc.), ente
che si presenta subito come finito, partecipato, contingente.
Assegnando alla metafisica quale suo oggetto proprio l’essere, S. Tommaso
la riconduce, dopo secoli di oblio, al compito che le aveva già assegnato il
suo fondatore, Parmenide.
4. IL METODO DELLA
METAFISICA: RISOLUZIONE - COMPOSIZIONE
Per lo studio del proprio
oggetto ogni scienza dispone di un proprio metodo. Qual è il metodo della
metafisica?
S. Tommaso si occupa
espressamente del metodo della metafisica nel commento al De Trinitate di Boezio. Là egli
distingue due metodi: risolutivo e compositivo.
Il primo pratica la via ascendente: risale dagli eventi particolari alle cause
universali, oppure dalle cause meno universali a quelle più universali; risale
dalle determinazioni concrete all'essere stesso, oppure dal contenuto di una
cosa ai suoi presupposti necessari; e, in tal modo, risolve gli effetti nelle
cause, i partecipanti nel partecipato, il contingente nell'assoluto. Il secondo,
quello compositivo, procede in senso inverso e,
quindi, pratica la via discendente: discende dalle cause universali agli
effetti particolari, dal partecipato ai partecipanti, dall'assoluto al
contingente ecc., sviluppando le implicazioni contenute nella causa suprema.
Di questi due metodi, il primo è quello che conviene maggiormente alla
metafisica, mentre il secondo è il metodo proprio della teologia. Ma nella
metafisica, stessa, dopo aver praticato la risoluzione si può far uso
anche della composizione (compositio), che si
potrebbe chiamare anche ri‑composizione. Ecco come si esprime lo
stesso S. Tommaso a questo riguardo: “Il processo raziocinativo
può assumere due orientamenti: compositivo,
quando procede dalle forme più universali a quelle meno universali (o
particolari); risolutivo quando procede in senso inverso. Infatti, ciò
che è più universale è più semplice. Ora è universalissimo
ciò che appartiene a ogni ente. E perciò il termine ultimo del processo
risolutivo in questa vita è lo studio dell'ente e dì tutto ciò che gli
appartiene in quanto ente. E queste sono le cose di cui si occupa la scienza
divina (o metafisica), ossia le sostanze separate e tutto quanto è comune a
tutti gli enti. Dal che risulta che l'indagine metafisica è massimamente
speculativa” (In De Trin., lect.
II, q.
Affermando che il metodo proprio della metafisica è quello risolutivo‑compositivo S. Tommaso non intende
peraltro escludere che la metafisica possa servirsi anche di altri procedimenti
quali la definizione, la divisione, il paragone, l'analogia, la metafora,
l'argomento dì convenienza ecc.
In effetti, di tali procedimenti si serve egli stesso con grande maestria e
assiduità. Questa ricchezza e complessità della metodologia, di cui fa uso
l'Angelico nell'indagine metafisica, va tenuta costantemente presente leggendo
i suoi scritti, se si vuole cogliere la portata esatta delle sue
argomentazioni.
5. I PRINCIPI DELLA METAFISICA
Come aveva già fatto Aristotele, anche S. Tommaso pone alla base della
ricerca metafisica, i princìpi di identità (v.
IDENTITA’) e di non contraddizione (v. CONTRADDIZIONE). Ma questi due principi
che potrebbero essere sufficienti per discipline astratte quali la logica e la
matematica non possono certamente bastare per la metafisica che è scienza del
reale e che, come sappiamo, si avvale del metodo della risoluzione, che è
essenzialmente legato al principio di causalità, perché la risoluzione consiste
esattamente nel ricondurre gli effetti alle cause.
S. Tommaso, che non ha alle spalle le critiche di Hume
e di Kant al principio di causalità (v. CAUSALITA’),
non si preoccupa di prenderne le difese, e qualora l'avesse fatto avrebbe seguito
lo stesso procedimento indiretto di cui si avvale, come Aristotele, nella
difesa del principio di non‑contraddizione. In effetti l'Angelico tratta
il principio di causalità come un principio primo, cioè un principio di prima
evidenza, perché non ha senso parlare di effetto se non con riferimento a una causa:
“L'effetto dipende necessariamente dalla causa. Ciò rientra nel concetto stesso
di causa e di effetto. Questo nelle cause materiali e formali è quanto mai
ovvio; infatti se si toglie il principio materiale oppure il principio
formale, la cosa stessa cessa di esistere, perché tali principi fanno parte
della sua essenza. Ma lo stesso giudizio va dato delle cause efficienti” (De Pot., q.
Strettamente collegati col principio di causalità sono altri due princìpi che svolgono un ruolo capitale nella metafisica
di S. Tommaso: il principio di partecipazione e il principio di somiglianza.
A ben vedere questi due principi non sono che semplici estrapolazioni di due
proprietà della causalità.
II principio di partecipazione dice infatti che tutto ciò che è per
partecipazione è necessariamente causato. Incausato
è soltanto ciò che è per essenza (v. PARTECIPAZIONE). “Quando qualche cosa
riceve in maniera parziale ciò che appartiene ad altri in modo totale, sì dice
che ne è partecipe; (...) similmente si dice che l'effetto partecipa alla causa,
soprattutto quando non ne adegua il potere; un esempio di questa
partecipazione si ha quando si dice che l'aria partecipa alla luce del sole” (In
De Hebd., lect. II, n. 24).
Il principio di somiglianza dice che la causa, comunicando qualche cosa di
sé stessa all'effetto, non può non instaurare una certa somiglianza tra sé e
l'effetto: “La causa produce sempre qualche cosa di simile a sé” (omne agens agit simile sibi) (C. G.,
I, c. 29; De Pot., q.7, a.
5; III Sent., d. 33, q.
6. IL MOMENTO RISOLUTIVO
Fissati e assicurati i princìpi della metafisica,
S. Tommaso può applicare tranquillamente il metodo risolutivo per attuare il
suo disegno di ricondurre tutte le cose a un unico supremo fondamento
battendo la via dell'essere. Ora la risoluzione (resolutio)
che percorre la via dell'essere ha come itinerario obbligato la risoluzione
dell'ente nell'essere. Perciò il punto di partenza è necessariamente lo
studio dell'ente rispetto all'essere, studio condotto incessantemente alla luce
dell'essere concepito intensivamente, ossia come perfezione assoluta,
radicale, principio d'ogni perfezione, attuazione di tutte le perfezioni.
La riflessione sull'ente, condotta alla luce dell'essere, consente a S. Tommao di stabilire due verità di capitale importanza: la
distinzione reale tra essenza e atto dell'essere (actus
essendi) nell'ente, e il ruolo potenziale,
recettivo dell'essenza rispetto all'essere. Queste due penetranti osservazioni,
insieme all'intuizione preliminare del concetto intensivo dell'essere,
costituiscono praticamente tutta la grande ma semplicissima impalcatura della
metafisica tomistica. Quella di S. Tommaso più di qualsiasi altra metafisica va
direttamente all'essenziale. Guardando alla realtà rispetto a ciò che ha
veramente dì essenziale trova che di propriamente essenziale ha soltanto
questo: a) l'ente nella sua indigenza in quanto possesso limitato dell'essere,
realtà composita e pertanto imperfetta; b) l'essere, oceano infinito d'ogni
perfezione. Dentro questa semplice ma solida impalcatura si muove l'indagine
risolutiva di S. Tommaso che riconduce l'ente all’essere, evidenziando allo
stesso tempo la sussistenza dell'essere e la ragion d'essere dell'ente.
a) La distinzione reale tra essenza e atto d'essere nell'ente. ‑
Di questa distinzione si parla già diffusamente alle voci ENTE, ESSENZA e
ESSERE. Qui ci preme sottolineare anzitutto l'importanza che riveste tale
distinzione nella metafisica di S. Tommaso. La distinzione reale tra essenza e
atto d'essere è, in effetti, uno dei grandi capisaldi della metafisica
tomistica. Anche se nel corso dei secoli c'è stata una notevole varietà di
opinioni sul modo di intendere tale distinzione, è innegabile che tutto l'edificio
metafisico di S. Tommaso si regge su questa distinzione (insieme al concetto
intensivo dell'essere). E quei discepoli dell'Aquinate
che non hanno colto il significato del concetto intensivo dell'essere, non
sono riusciti neppure a intendere il senso autentico della distinzione tra
l'essenza e l’atto d'essere nell'ente.
La distinzione reale è, come abbiamo detto, la prima acuta osservazione che
S. Tommaso fa quando esamina l'ente: tutti gli enti che cadono sotto la nostra
diretta esperienza, sono enti in cui l’essere non si identifica mai con la loro
essenza: una cosa è l'essenza, altra cosa (nell'ente stesso) è l'essere. Ecco
qualche testo illuminante a questo proposito. “L'essere è presente in tutte le
cose, in alcune in modo più perfetto, in altre in modo meno perfetto, però non
è mai presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza; il
che è evidentemente falso, giacché l'essenza di qualsiasi cosa è concepibile
anche prescindendo dall'essere” (II Sent, d.
1, q.
b) Il ruolo recettivo, potenziale dell'essenza rispetto all'essere. ‑
L'essenza e l'atto dell'essere, spiega lucidamente S. Tommaso, sono tra loro
realmente distinti e tuttavia formano un'unica realtà; non sono due sostanze,
ma sono due elementi del medesimo, unico ente. E la loro unione non è
accidentale bensì sostanziale, perché il ruolo che l'essere svolge rispetto
all'essenza non è quello degli accidenti, ma piuttosto è quello della forma
rispetto alla materia, e come non si dà materia senza forma così non si dà
essenza senza atto dell'essere. S. Tommaso critica
la teoria di Avicenna che considerava l'essere un
accidente. “Non pare che Avicenna abbia visto giusto.
Infatti pur essendo l'essere della cosa diverso dalla sua essenza, tuttavia non
si deve concepire come qualche cosa dì aggiunto a mo' di accidente, ma come
qualcosa che viene in certo qual modo costituito mediante i princìpi
dell'essenza” (IV Met., lect.
2, n. 558). “L’essere della sostanza, essendo atto dell'essenza, non si può
chiamare propriamente accidente, come se facesse parte della categoria degli
accidenti, ma solo per analogia, dato che l'essere. come l'accidente, non fa
parte dell'essenza” (De Pot., q.
c) La dimostrazione dell'esistenza dell'essere stesso (esse ipsum). ‑
Dopo l'accurata esplorazione di quella che è la condizione ontologica effettiva
dell'ente, che è condizione segnata palesemente dalla differenza ontologica,
tra essenza e atto dell'essere e inoltre dalla limitazione della perfezione
dell'essere da parte dell'essenza, S. Tommaso è finalmente in grado di
compiere il passo decisivo e conclusivo della resolutio
dell'ente nell'essere, cioè dell'effetto della sua causa. provando l'esistenza dell'esse ipsum.
Gli argomenti principali a cui l'Angelico affida questa importantissima
operazione sono tre: il primo è tratto dalla differenza ontologica, il secondo
dalla partecipazione e il terzo dalla gradazione della perfezione dell'essere
negli enti.
Argomento della differenza ontologica: muovendo dalla verità che l'essere non appartiene all'essenza di nessun
ente finito, ed è da essa realmente distinto, S. Tommaso imposta la risoluzione
dell'ente nell'essere come segue: “Tutto ciò che conviene a qualche cosa o è
causalo dai principi della sua natura, come la risibilità nell'uomo, o le
compete in virtù dì qualche principio estrinseco, come la luce all'aria per
influsso del sole. Ora, non si può dire che l'essere di una cosa sia causato
dalla sua stessa forma o essenza, intendendo come da causa efficiente, perché
così una cosa sarebbe causa di se stessa, ciò che è del tutto impossibile. È
necessario quindi che ogni cosa in cui l'essere è diverso dalla sua natura,
abbia l'essere da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù di un altro esige
come causa prima ciò che e' per sé, vi deve essere qualche cosa che sia causa
dell'essere in tutte le altre, appunto perché essa è soltanto essere (ipsa est esse tantum); diversamente si
andrebbe all'infinito nelle cause, avendo ogni cosa, che non è solo essere, una
causa, come s'è visto” (De Ent. et Ess., c. 4, n. 27).
Argomento della partecipazione: assumendo come punto di partenza il
fenomeno della partecipazione S. Tommaso opera la risoluzione dell'ente nell'essere
così: “Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia
la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo. Per es., tutte le cose calde per partecipazione si riducono al
fuoco il quale è caldo per essenza. Ora, dato che tutte le cose che sono
partecipano all'essere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima a
tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa essenza
(necesse est esse aliquid
in cacumine omnium rerum, quod
sit ipsum esse per essentiam), ossia che la sua essenza sia l'essere
stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa sufficientissima,
degnissima e perfettissima di tutte le cose: da Lui
tutte le cose che esistono partecipano all'essere” (In Ioan.,
Prol. n. 5).
Argomento della gradazione della perfezione dell'essere negli enti: questo argomento assume come dato di partenza la gradualità della
perfezione dell'essere negli enti. Muovendo da tale fenomeno S. Tommaso opera
la risoluzione nel modo seguente: “L'essere è presente in tutte le cose, in
alcune in modo più perfetto e in altre in modo meno perfetto; però non è mai
presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza, altrimenti
l'essere farebbe parte della definizione dell'essenza di ogni cosa, il che è
evidentemente falso, giacché l'essenza di qualsiasi cosa è concepibile anche
prescindendo dall'essere. Pertanto occorre concludere che le cose ricevono
l'essere da altri (e retrocedendo nella serie delle cause) necessita che si
arrivi a qualche cosa la cui essenza sia costituita dall'essere stesso (oportet devenire ad aliquid cuius natura sit ipsum suun
esse), altrimenti si dovrebbe
regredire all'infinito» (II Sent., d. 1, q.
7. IL MOMENTO COMPOSITIVO
Il metodo risolutivo ha consentito a S. Tommaso di dare la scalata
all'essere e di raggiungere la vetta (il cacumen,
come lo chiama S. Tommaso) di ogni cosa che è l'essere per essenza (esse
per essentiam), cioè l'essere
stesso sussistente (esse ipsum subsistens).
Dopo la faticosa ascesa e il raggiungimento della vetta, l'ansia della
ricerca non è ancora appagata; anzi è giunto il momento più interessante e
affascinante: quello dello studio dei misteri che si celano dentro l'oceano
dell'essere. È il momento della composizione, che è lo studio
dell'essere in se stesso e come causa di tutti gli enti.
Il momento compositivo può battere due vie
differenti: la via teologica e la via ontologica. Nel primo caso
ciò che si trova sono le proprietà dell'esse ipsum inteso
come Dio. Se si percorre questa via si cerca di capire la natura di Dio, i suoi
attributi e le sue operazioni. Allora la metafisica assume il volto e i
compiti della teologia naturale. Nel secondo caso ciò che si incontra
sono le proprietà fondamentali e trascendentali dell'essere. Allora la
metafisica diviene più che mai ontologia.
S. Tommaso normalmente, nel momento compositivo,
percorre la via teologica e, così, sviluppa una ricchissima dottrina su Dio (v.
DIO), studiando la sua natura, i suoi attributi (semplicità, perfezione,
infinità, immutabilità, eternità, bontà, verità, giustizia ecc.) e operazioni
(creazione, provvidenza, concorso, predestinazione). Ma l'Aquinate
non ignora la via ontologica, e quando la percorre, approfondisce, in linea
rigorosamente ontologica, la dottrina dei trascendentali (v. TRASCENDENTALE),
in particolare dell'unità, della verità, della bontà e della bellezza (v.
UNITA’, VERITA’, BONTA’, BELLEZZA),
8. CONCLUSIONE
Tale è in rapida sintesi la
metafisica dell'essere di S. Tommaso: una metafisica, sostanzialmente nuova,
perché nuovo è il concetto di essere che la anima e illumina dall'inizio alla
fine. Nell'edificio metafisico di S. Tommaso c'è molto materiale che proviene
per due terzi da Aristotele (a partire dalla definizione della metafisica,
dell'oggetto, dei principi e del metodo, alla teoria dell'atto e potenza,
delle quattro cause, delle categorie ecc.) e per un terzo da Platone (con i due grandi principi di partecipazione e di
somiglianza). Ma S. Tommaso dell'antico materiale aristotelico e platonico ha
fatto un uso del tutto nuovo, adattandolo al suo progetto originalissimo di
una metafisica dell'essere (che è nettamente diversa dalla metafisica delle
Idee di Platone e dalla metafisica delle sostanze di Aristotele).
La teoria di S. Tommaso è una metafisica, non una gnosi e tanto meno
un'ideologia. Non è una ideologia perché l'unico obiettivo dell'Angelico è la
scoperta della verità: la verità dell'ente (cioè di
tutti gli innumerevoli enti che ci circondano) e la verità dell'essere. Ma non
è neppure una gnosi, una rivelazione esoterica di qualche recondito mistero
riservata a pochi privilegiati: è una ricerca speculativa aperta a tutti, che
muove dall'esame dì fenomeni obbiettivi accessibili a tutti, e che segue come
ogni autentica ricerca scientifica, anzitutto il procedimento induttivo. È una
ricerca che realizza una profonda ermeneutica del reale, considerato come
ente, che deve tutta la sua realtà all'essere. Ed è, infine, una ricerca
squisitamente ontologica perché, dall'inizio alla fine. si muove esclusivamente
all'interno dell'orizzonte dell'essere.
(Vedi: ESSERE,
ENTE, ESSENZA, TRASCENDENTALI, PRINCIPI, METODO, CAUSA. DIO, ATTO, POTENZA,
MATERIA, FORMA, SOSTANZA, ACCIDENTE)
__________________________________________________________
Battista Mondin.
Dizionario
enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D'Aquino,
Edizioni
Studio Domenicano, Bologna.