Matrimonio e laicità dello Stato
Relazione alla Sessione Inaugurale del Congresso Telogico-Pastorale
Internazionale
Valencia (Spagna), 4 luglio 2006
Dividerò la mia
riflessione in due parti. Nella prima cercherò di mostrare la bontà, la preziosità
etica dell’istituto matrimoniale. Non del sacramento, ma dell’istituto
matrimoniale in quanto tale. Il mio quindi è un discorso che si rivolge a
tutti, credenti e non credenti.
Nella seconda parte
cercherò di mostrarvi quale è oggi in Occidente la vera "materia del contendere" quando la contesa civile ha per oggetto il
matrimonio.
Terminerò con alcune
riflessioni generali per accennare ai fondamentali orientamenti che dovranno
ispirare la nostra promozione e difesa della dignità del matrimonio.
1.
IL BENE DEL MATRIMONIO
Questa prima parte
della mia riflessione si fonda su una lettura – interpretazione di una
fondamentale, originaria esperienza umana. Essa (esperienza) può essere
semplicemente denotata nel modo seguente: la persona umana è uomo e donna.
La bontà propria del matrimonio, la sua intima preziosità è racchiusa
interamente in questo semplice fatto: l’humanum
si realizza in due modalità diverse, mascolinità – femminilità.
Questo fatto chiede di
essere letto ed interpretato al fine di scoprirne la verità [il lògos, direbbero
i greci] e quindi il significato.
È un’interpretazione
che può essere fatta "partendo dal basso", per così dire: il
di-morfismo sessuale è un caso particolare di una legge biologica generale, la
modalità propria con cui salendo nella scala dei viventi le specie si
perpetuano. È così negli animali; è così nell’uomo.
Ho parlato
d’interpretazione "dal basso" nel senso che questo modo
d’interpretare la sessualità umana ne rifiuta l’irriducibilità alla natura, al bios. Nega una sua significatività propriamente
umana. Sul piano pratico la conseguenza è che non si può escludere in linea di
principio la sostituibilità dei processi procreativi naturali con procedimenti
procreativi artificiali. E gli uni e gli altri sono infatti
eticamente neutri, indifferenti.
Esiste anche
un’interpretazione che è opposta alla precedente, e che potremmo chiamare
"culturale": il [significato del] dimorfismo sessuale è un prodotto
puramente culturale; è l’opera della cultura senza alcun fondamento nella
[natura della] persona. Ne deriva che ogni cultura sessuale è ingiudicabile dal punto di vista etico; è inconfrontabile
con ogni altra cultura sessuale; non esiste una istituzionalizzazione
dell’esercizio della sessualità da ritenersi migliore di un’altra:
l’istituzionalizzazione matrimoniale [etero-sessuale] ha lo stesso valore etico
dell’istituzionalizzazione omosessuale.
A guardare le cose più
in profondità, noi vediamo che sia l’interpretazione biologista
sia l’interpretazione culturale hanno un presupposto fondamentale in comune: la
persona umana nella sua concretezza non ha in sé e per sé una sua propria bontà, così che non esiste in linea di principio
la possibilità di scriminare una realizzazione vera
della soggettività umana da una realizzazione falsa. Insomma, non esiste
una verità circa il bene della persona, che non sia meramente prodotto del
consenso sociale: consensus facit verum.
Tutto questo non va mai
dimenticato nel discorso che stiamo facendo e meriterebbe ben più ampio
sviluppo, ma devo ritornare al nostro tema.
Ambedue queste
interpretazioni devono essere giudicate alla luce dell’esperienza che
ciascuno fa di se stesso; ciascuno è testimone di se stesso a se stesso, ed
alla fine ogni interpretazione dell’uomo deve essere confrontata con questa
testimonianza. Vorrei ora semplicemente aiutarvi ad ascoltare questa
testimonianza: per non dilungarmi troppo lo faccio solo per accenni. È quindi
l’invito seguente: ascolta che cosa dici a te stesso di te stesso!
L’uomo posto di fronte
alla donna e la donna di fronte all’uomo vede in essa/in
esso un "altro se stesso/a": alterità [è un
altro/a] ed identità [se stesso/a]. È questa un’esperienza che l’uomo non vive
né quando è di fronte alle cose o agli animali: sono un "altro", ma non sono "se stesso". Ed ancor
meno quando il credente è di fronte a Dio: è il totalmente Altro.
L’alterità
nell’identità è la ragione ultima della inclinazione sociale della persona
umana; è come la sorgente da cui sgorga la vita umana associata. L’esperienza
della propria umanità limitata dalla e nella propria "forma"
[maschile/femminile] spinge il soggetto ad una "comunione" con
l’altro/a, nella quale [comunione] solamente l’humanum
è pienamente realizzato e manifestato. È questo il punto centrale di tutta la
nostra riflessione.
Esiste un legame fra uomo e donna costituito dalla partecipazione alla stessa
natura umana; esiste una reale – naturale – differenziazione nella
realizzazione della stessa natura umana: l’humanum
nella sua intera verità e bontà è l’unità nella salvaguardia della diversità di
uomo e donna.
Voglio sottolineare che
si tratta di una comunione nella natura; che si tratta del riconoscimento
dell’altro/a nella sua naturalità. Se infatti la comunione fosse solo a livello spirituale, a
causa della sola partecipazione alla stessa razionalità, il sociale umano
sarebbe sempre insidiato dal pericolo di costruirlo solo fra persone che
posseggono quelli che si è deciso siano i caratteri della razionalità. E
sappiamo che lungo la storia sono state soprattutto le donne e i bambini ad
essere esclusi da una piena ospitalità nel sociale umano, precisamente a causa
di quella falsa dialettica sociale.
Il "diverso"
originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della
donna. E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo
riconoscimento della diversità della sessualità umana il
sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni
ingiuste. Proprio perché il tutto dell’humanum
è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la
pienezza della persona si realizza nella loro unità.
L’uomo è per la donna e
la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la verità intera
della persona umana.
L’intrinseca bontà o
valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza. Bontà e preziosità che
non si trova in nessun altra relazione sociale.
Tocchiamo un punto
fondamentale della vicenda umana e della sua comprensione. Provo a dirlo in
modo breve e per quanto riesco semplice.
All’origine, al
"principio" della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se
stesse. Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna. Il dato umano
originario non è l’identità, ma la relazione; la "figura"
dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è
l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna. Questa lettura
profonda della realtà umana ultimamente ci è stata insegnata dalla Lett. Enc. Deus caritas est.
Ma questo non è ancora
tutto. Se riflettiamo con maggior attenzione, vediamo che nel matrimonio ha
origine e si rispecchia l’intera dialettica sociale. Essa
infatti è costituita dalla realizzazione di comunità nelle quali la
diversità è affermata senza divisione e l’unità è costruita senza
discriminazione. Il sociale umano non è un "universale astratto", ma
un "universale concreto". Originariamente ciò si dà nella relazione
coniugale. Essa è l’archetipo di ogni relazione sociale: prima societas in coniugio, dicevano già i latini.
2.
Non c’è dubbio che la
percezione chiara del valore, della preziosità propria del matrimonio si va
oggi gradualmente oscurando. Il fatto a mio giudizio più emblematico di questo oscuramento è stato che il 18 gennaio 2006 con 468
voti a favore, 149 contrari e 41 astenuti il Parlamento Europeo ha approvato
una risoluzione che invita ad equiparare le coppie omosessuali a quelle fra
uomo e donna e condanna come omofobici gli Stati e le
Nazioni che si oppongono al riconoscimento delle coppie gay.
Questo fatto non era
mai accaduto nella storia della umanità. Il rapporto omosessuale è sempre stato
ed è anche oggi diversamente giudicato dal punto di vista del comportamento
personale. Ma il problema di cui stiamo parlando non è per niente questo. È il
seguente, anzi, i seguenti: perché si è giunti a questa richiesta? che cosa stiamo rischiando in essa?
Alla prima domanda
rispondo: la richiesta di equiparare negli ordinamenti giuridici matrimonio, unioni
di fatto e convivenze omosessuali è il punto di arrivo coerente con una falsa
concezione di laicità dello Stato. Cercherò ora di mostrarvi brevemente questo
cammino.
Ogni concezione
della propria sessualità ha uguale diritto di essere praticata. Questa affermazione è l’applicazione di un principio
basilare delle nostre società liberali: il principio di autonomia. Unico
limite che si deve porre è quando la realizzazione della propria concezione
della sessualità viola diritti soggettivi di terzi: pedofilia e stupro.
Nessuna pratica
della sessualità deve essere trattata dalle leggi meglio di un’altra, poiché se
così fosse, la parzialità di trattamento sarebbe ingiusta comportando una
scelta ideologica. Questa seconda
affermazione è l’applicazione dell’altro principio basilare delle nostre
società liberali: il principio di uguaglianza.
Se vogliamo custodire
quindi i due pilastri della nostra società occidentale, autonomia ed
uguaglianza, il matrimonio ed altre forma di
realizzazione della propria sessualità devono essere trattate dalla legge con
uguale trattamento.
In teoria, la legge
civile nei confronti di comportamenti socialmente rilevanti ha a disposizione
cinque possibilità: punizione, tolleranza, ignoranza, rispetto, condivisione.
Lasciamo subito fuori della nostra considerazione la prima e la seconda, che
non hanno nulla a che far col tema che stiamo trattando. Poiché la società non
può costituirsi senza rispettare e condividere l’istituto matrimoniale, si
propone che uguale rispetto e condivisione la legge civile deve avere
nei confronti degli altri modi di realizzare la propria sessualità in concreto.
Cioè: matrimonio, convivenze di fatto, convivenze omosessuali esigono da parte
della legge uguale rispetto e condivisione. È importante notare che l’uguaglianza
nel rispetto e nella condivisione esige anche uguaglianza nell’attribuzione
delle risorse pubbliche.
Ma al di sotto di
questo modo di ragionare c’è una visione sulla quale purtroppo il tempo non mi
permette di soffermarmi a lungo. Mi limito a dire: in fondo la radicalizzazione del concetto di laicità, di cui stiamo
parlando, nasce da due presupposti.
Il primo presupposto è che nessuna concezione di vita buona è vera in
alternativa alla sua contraria. È impossibile qualificare come vera qualsiasi concezione
di vita buona e quindi falsa la sua contraria, dal momento che esse esprimono
sempre e semplicemente fini e preferenze soggettivamente motivate, e sempre
quindi rivedibili. È per questa ragione che nel contesto di questa teoria non
si parla di "bene/vita buona", ma di "concezioni di vita
buona"; di "concezioni della sessualità", volendo così
connotare una necessaria pluralità fino al limite [anche se non sempre né
necessariamente] della mera soggettività. Insomma: una verità circa il bene
della persona e della società o non esiste [relativismo etico] o non può essere
razionalmente affermata e dimostrata [agnosticismo etico].
Corollario di questo
primo presupposto: qualunque scelta [legislativa, amministrativa…] a favore
dell’una concezione piuttosto che dell’altra diventa inevitabilmente parzialità
ingiusta e violazione dell’autonomia del soggetto. Dunque: completa
equiparazione fra matrimonio, coppie gay, unioni di fatto.
Il secondo
presupposto è che deve essere possibile
organizzare la vita associata prescindendo imparzialmente dalle varie
concezioni di vita buona, attraverso proposte universalmente condivisibili
perché giustificabili senza riferimento a nessuna delle varie concezioni di
vita buona, ma anche attraverso proposte che non sono meramente formali o
procedurali. Il concetto di "giustizia" denota precisamente questa
modalità di organizzare la vita associata: la vita [associata] giusta è la vita
progettata secondo questa modalità. Dunque: ogni "pezzo" con cui è
stato costruito l’edificio matrimoniale – coniugalità,
genitorialità … – deve essere sostituito da
"pezzi" non derivabili da nessuna concezione della sessualità. Non
più "coniugi", ma "partners"; non
più "padri-madri", ma "genitore A – genitore B". Alla
qualità propria della relazione deve subentrare la neutralità della medesima.
Vorrei ora rispondere
brevemente alla seconda domanda: che cosa stiamo rischiando? Una messa
in crisi senza precedenti dell’istituto matrimoniale, che accompagnerà la
costruzione di una società di estranei gli uni agli altri. La torre di Babele
diventerà ogni giorno più la "cifra" dei nostri edifici sociali.
Assisteremo, in primo
luogo, ad una messa in crisi senza precedenti dell’istituto matrimoniale.
Anche se non raramente
negata nella teoria giuridica, la rilevanza educativa della legge civile è un
fatto. Essa contribuisce non raramente e non superficialmente a formare l’ethos
pubblico e i convincimenti della ragione pubblica. Ciò è particolarmente vero
per l’istituzione matrimoniale (desumo la riflessione seguente dal sito
www.zenit.org).
La legge può
configurare la comunità coniugale come una forma di comunione
sessuale-affettiva cui i singoli sono liberi
di accedere, ma la cui definizione non è a disposizione di chi si sposa: non
può essere formulata e riformulata a piacimento. Oppure la legge può decidere,
attraverso l’equiparazione di cui parlavo, che il matrimonio ricevuto dalla
tradizione è frutto di mera convenzione sociale e che pertanto il matrimonio
può essere pensato e realizzato nei modi corrispondenti ai desideri, interessi
e scopi propri di ogni individuo.
Il risultato della
seconda scelta giuridica non sarà a lungo termine che nell’ethos e nella
ragione pubblica matrimonio ed altre forme di convivenze avranno la stessa
stima e riconoscimento? Il risultato sarà che l’equiparazione di fatto sosterrà
quelle visioni dell’uomo che non sono ospitali vero la monogamia, e che alla
fine potrebbe minare l’istituzione matrimoniale alla
base.
Il prof. Joseph Raz ha scritto: "la monogamia, ammesso che rappresenti l’unica valida forma
di matrimonio, non è alla portata dell’individuo. Per poterla vivere, essa
richiede una cultura che la riconosce e che la sostenga attraverso
l’atteggiamento del settore pubblico e delle istituzioni".
Ovviamente Raz non intendeva dire che la persona in qualsiasi
ordinamento giuridico non possa essere capace di
comprendere e di scegliere il matrimonio. Egli pensa - e consento con lui - che
il matrimonio è un istituto "fragile" se non è sostenuto dalle leggi
e dalle istituzioni. L’orientamento della ragione pubblica è decisivo per
difendere il matrimonio. La mia tesi è che l’equiparazione matrimonio – unioni
di fatto – coppie gay costituisce una rinuncia a questa difesa, e quindi una abdicazione alla promozione del bene umano comune.
Ma c’è qualcosa di
molto più grave in questa vicenda. Lo esprimerei nel modo seguente. Negando
l’esistenza di relazioni sociali qualitativamente diverse, e misurando
la qualità della relazione solo col metro dell’autonomia con cui si pongono, il
sociale umano, non solo quello coniugale, è destinato a configurarsi
semplicemente come contrattazione di egoismi opposti, coesistenza negoziata di
estranei. Non mi è più concesso tempo per fermarmi su questo punto.
3.
CONCLUSIONE: l’emergenza educativa
Voglio concludere con
due ordini di riflessione. Il primo. L’uomo resta affascinato e come rapito,
anche se nel suo cuore dimorassero pregiudizi insuperabili sul piano razionale,
dalla bellezza e dalla santità. La santità infatti che
altro è se non lo splendore della verità e della bontà propria della persona
umana? È lo splendore dell’amore coniugale che rifulge oggi ancora in tante
coppie, che disperderà la nebbia di ideologie devastanti: e lo faranno
semplicemente vivendo.
L’altra riflessione, ed
ultima. Mentre costruivo questi pensieri avevo costantemente presente
i giovani. E mi chiedevo continuamente: che ne è di loro?
Non esito a dire che
oggi nella nostra società occidentale la principale emergenza è l’emergenza
educativa: un’intera generazione di adulti non sa più educare un’intera
generazione di giovani. E la ragione è semplice e grave. Educare significa
introdurre alla realtà e la chiave che apre la porta è la ragione, una ragione
che non rinunci a se stessa, a prendersi carico di tutte – nessuna esclusa – le
domande che la realtà pone. Forse ciò che i giovani chiedono
quando invocano di essere educati, è semplicemente di essere ancora
ricondotti a quell’esperienza originaria che Tommaso
chiamava: apprehensio entis. Cioè: accogliere
la realtà che ci è data in un atto che è sinteticamente di intelligenza, di
libertà, di amore.
Abbiamo un grande
compito: ricostruire un forte legame educativo dentro e fuori le famiglie.
Perché la devastazione dell’umano cui assistiamo non è fermata da inutili
lamenti ed inefficaci parole, ma dalla ri-generazione educativa di persone
umane veramente libere e liberamente vere. Ancora una volta alla Chiesa è
chiesto di generare l’uomo in Cristo.
Card. Carlo
Caffarra