“MUSULMANI OPPRESSI
E BUGIARDI
PREPARANO IL
MARTIRIO DEI CRISTIANI”
Mentre parla, il vescovo Cesare Mazzolari tiene gli occhi fissi sulla carta geografica del
Sudan, la sua amatissima e tribolatissima patria
adottiva. Una sola volta li alza, pieni di lacrime, per guardarmi. Ed è quando
mi annuncia che morirà di morte violenta:
«Si sta avvicinando il momento del martirio.
Spero che il Signore ci dia la grazia di affrontare questo spargimento di
sangue. C’è bisogno di purificazione. Molti cristiani saranno uccisi per la
loro fede. Ma dal sangue dei martiri nascerà una nuova cristianità». Gli avevo
chiesto se e quando si esaurirà il vortice infernale in cui siamo stati
risucchiati l’11 settembre 2002: «O Dio ci manderà una persona di carisma
capace di aprire una via nuova oppure permetterà un castigo, una prova misurata
che ci porterà alla saggezza. È un mondo cieco e sordo. Abbiamo bisogno di uno
scossone tremendo. Non ascoltiamo più i profeti. Quei pochi rimasti: gli altri
li abbiamo fatti fuori».
È uno
scoppio di pianto sommesso, impossibile da trattenere. Più tardi i suoi
collaboratori, turbati, mi diranno:
«Non abbiamo mai visto monsignore così».
Allora forse qualcosa di tragico si sta davvero preparando, per lui e per noi.
Solo che lui l’ha messo in conto nel suo stemma episcopale: «Per reconciliationem
et crucem ad unitatem et pacem»
Alla pace attraverso la croce. Di solito i presuli prendono questi motti dal
Vangelo. Il vescovo della diocesi di Rumbek s’è l’è scritto da solo: qualcosa vorrà pur dire.
Monsignor Mazzolari,
67 anni, missionario comboniano originario di
Brescia, vive tra i musulmani dal 1981. Li conosce bene. Ha visto quello che
hanno fatto a un anziano confratello dopo che avevano trovato una bottiglia di
whisky mezza vuota dimenticata da un trasportatore in fondo a un container:
«Cinquanta nerbate. A metà flagellazione, un
fratello più giovane li ha supplicati: “Basta, i colpi rimanenti dateli a me”.
Ma è stato inutile: hanno continuato sino alla fine».
Ha visto quello che hanno fatto a Joseph Santino Garang, un ragazzo
cristiano ridotto in schiavitù, crocifisso perché una domenica s’era fermato a
pregare e aveva perso un cammello:
«Il padrone gli ha piantato i chiodi nelle
mani, nei piedi e nelle ginocchia, versando acido sopra le ferite. Adesso è un
povero gobbetto, sembra un poliomielitico. L’ho
incontrato in un campo di ex deportati. Per farli tornare dal Nord li hanno
costretti a spingere i vagoni del treno».
Nel Sud del Sudan, dove si trova Rumbek, si combatte una guerra civile che, tra scontri e
malattie, in vent’anni ha fatto dai due ai tre
milioni di morti. Monsignor Mazzolari può ancora
predicare il Vangelo perché opera in un territorio controllato dal Spla (Sudan people’s liberation army), comandato da John Garang, un ribelle di
religione protestante che lotta contro il governo islamico di Khartoum. La sua diocesi è lunga quanto l’Italia e vasta
come Lombardia e Triveneto. I suoi 30 preti devono curare 350mila anime
ciascuno. La sua cattedrale è una capponaia del
diametro di
«Così non possono bruciarmelo».
Il vescovo dorme in capanne coperte di
frasche:
«Me ne preparano una in ogni villaggio».
È il buon pastore di un gregge nomade che
vaga in cerca di acqua e di sorgo:
«Uno sfollato su sei, nel mondo, è sudanese.
C’è una drammatica disparità tra profughi e sfollati. Lo sfollato non ha
nemmeno una pentola e deve continuamente spostarsi per sfuggire alla guerra,
alle carestie, alle epidemie»
Lui mangia due volte al giorno. I suoi fedeli
due volte la settimana.
«Con la differenza che io potrei mangiare
carne mezzogiorno e sera», si vergogna.
Invece tira avanti a fagioli, pane, tonno in
scatola, pesce secco. Agli affamati la polenta deve prepararla sua eccellenza:
«Sono talmente prostati
dalla fame che non hanno neppure la forza di cucinare».
Due volte al mese arrivano dal Kenya le
verze, ma non sopravvivono più di un giorno ai 40-50 gradi di temperatura. Da
adesso a ottobre dovrebbe essere stagione di piogge:
«Speriamo che si riesca a coltivare
qualcosa...».
Per il momento la sferza del sole promette
solo siccità. Come l’anno scorso, e l’anno prima, e l’anno prima ancora.
Un gruppo di benefattori bresciani
gli ha donato un telefono satellitare Thuraya per
chiamare lo 030-2180654, il numero dell’associazione Cesar,
che ha sede a Concesio, paese natale di Paolo VI. Si
sorprende molto quando gli spiego che la Thuraya è
una compagnia degli Emirati Arabi Uniti. Lui credeva che fosse svizzera. Temo
che da oggi lo userà malvolentieri.
Converte molti musulmani?
«Assolutamente no.
Avvicinare un islamico significherebbe condannarlo a morte. Chi si converte
spontaneamente è poi costretto a fuggire. Ma viene raggiunto e punito anche a
mille chilometri di distanza».
E cattolici che abbracciano l’Islam ce ne
sono?
«Sì, purtroppo. Almeno tre milioni si sono
trasferiti al Nord spinti dalla fame e hanno dovuto pronunciare la shahada, la professione pubblica di fede, per avere un
lavoro. I convertiti vengono marchiati a fuoco. Li timbrano su un fianco, come
le mucche, per distinguerli dagli infedeli».
Ha rapporti con le autorità islamiche di Khartoum?
«Prima avevo il visto d’ingresso. Ora, se
atterrassi nella capitale, finirei in galera. Direbbero che ho fomentato la
rivolta, nonostante gli indipendentisti armati mi abbiano preso in ostaggio e
poi espulso per sei mesi perché avevo dichiarato che rubavano il 60% degli
aiuti internazionali destinati agli affamati. Se voglio tornare in Italia devo
raggiungere via terra il Kenya e imbarcarmi da Nairobi».
Il Dio dei cristiani è l’Allah dei musulmani?
«Nooo! E il
concetto di Trinità dove lo mettiamo? Il più grande dei loro profeti non è
certo Cristo».
Un musulmano che si comporta bene finirà nello
stesso paradiso dove andrà lei?
«Sì, sono molto sicuro di questo. Dio non
giudica come noi, che siamo di manica stretta. Ci sarà una moltitudine di
creature, in paradiso, perché ciascuno vive secondo quello che il Signore mette
nel suo cuore».
Pensa che dopo gli attentati di New York e di
Madrid sia cominciata la terza guerra mondiale?
«Io penso, anzi pensavo, che dopo quelle
stragi le cose sarebbero cambiate in meglio. Invece ho visto un senso di
rivincita che diventa persino vendetta».
Bush doveva ringraziare Osama
Bin Laden per la «lezione»?
«L’insicurezza e la povertà possono arrivarti
in casa anche se sei il più ricco del mondo. Il potere non viene né dalla
vendetta né dai soldi. Il presidente degli Stati Uniti non può andare al
microfono e dire: li prenderemo tutti e li ammazzeremo fino all’ultimo.
L’ondata d’odio che ha suscitato nel mondo islamico si propagherà per anni e
anni».
Che cosa avrebbe dovuto dire?
«Oggi il Signore ha visitato anche noi».
Sì, in aereo...
«Più del 90% del pianeta vive nell’insicurezza.
Gli americani in qualche modo l’avevano capito, erano tornati nelle chiese a
pregare. Abbiamo sprecato un segno del cielo, l’abbiamo usato per dividere
ancora di più gli uomini, anziché per unirli nella compassione».
Belle parole. Ma da vescovo, più che da uomo
di Stato.
«Il mondo è povero, come è sempre stato. Non
è dovere di Bush giudicare e condannare i quattro
quinti dell’umanità. Altrimenti i più deboli ne ricavano l’impressione che il
potere più grande consista nella vendetta. Io credevo invece che la vendetta
appartenesse alla cultura dei primitivi. Il presidente della nazione più forte
ha disprezzato le autorità più costituite della Terra: l’Onu
e il Papa. Questo incrina la fiducia nell’autorità a livello planetario, lo
capisce? Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti I soldati che dovevano
compiere la vendetta hanno perduto la testa, stanno facendo pazzie».
Ma che c’entra la povertà con gli
attentatori? Bin Laden non
è certo povero.
«Bush non può
vantarsi davanti a nessuno d’essere il custode del rispetto dei diritti umani.
Io ho vissuto 26 anni negli Stati Uniti. Sono stato ordinato prete a San Diego,
in California. Ho lavorato tra i neri, ho assistito i messicani nelle miniere e
so che i diritti dei poveri e della minoranza di colore negli Usa sono
sistematicamente oltraggiati. Ai miei sudanesi che vanno a cercare la
prosperità oltre l’Atlantico dico sempre: qui sperimentate la povertà di cibo e
di cultura, in America proverete la peggiore disgrazia che possa capitarvi,
capirete che cosa significa essere schiavi».
Ma se perfino i principali collaboratori del
presidente, Colin Powell e Condoleezza Rice, sono coloured, scusi!
«Le assicuro che i neri americani, nella
stragrande maggioranza, possono aspirare al massimo a diventare pompieri o
poliziotti».
Insomma, Bush
doveva porgere l’altra guancia.
«La Spagna dopo le stragi dell’11 marzo ha
reagito in tutt’altro modo».
Bel modo.
«Che lei voglia o no, io con questa
intervista un po’ d’influenza su di lei la sto esercitando. Forse la faccio
star male, forse la faccio star bene, non so. Bush
non s’accorge che spargendo odio in tutte le direzioni sta dividendo ancora di
più il mondo».
Abbia pazienza, non l’ha dichiarata lui
questa guerra.
«Ma guardi che patisco il terrorismo islamico
anch’io, sa? Quando un aereo di Khartoum bombarda un
altro aereo che distribuisce aiuti alimentari, lei come me lo chiama? I
sudanesi vivono un 11 settembre quotidiano eppure sui vostri giornali non v’è
traccia di questo martirio. Perché? Subiscono le ingiustizie e le malattie
senza astio. Da loro c’è solo da imparare. Battono il tamburo e danzano anche
se hanno la pancia vuota. Gli occidentali sono umanamente molto più poveri, mi
creda. Le tremila vittime delle Torri gemelle le vedo ogni giorno nei volti di
chi viene a chiedermi cibo e non lo trova e mentre muore si sente dire dal suo
vescovo: il Signore ti vuole bene. Allora con l’ultimo fiato che ha in corpo mi
sussurra: “Di’ al Signore che siamo stati puniti abbastanza”».
Mi dispiace. Ma non mi pare giusto incolparne
gli Stati Uniti.
«Quando sono in gioco i loro interessi, gli
americani diventano prontissimi al dialogo. Che lavorano per Dio, In God we trust, l’hanno scritto
solo sulle loro banconote. In realtà credono più nel verde del dollaro che in
Dio. A me sono venuti a chiedere di dialogare con i musulmani. Cioè
l’impossibile. Bush s’è detto addirittura favorevole
all’introduzione della sharia, la legge coranica, purché si faccia la pace tra Nord e Sud e possano
riprendere a pieno ritmo le estrazioni dell’oceano di petrolio su cui il Sudan
galleggia».
Ci mancava solo il petrolio.
«Gli Usa non vogliono la pace del Sudan,
vogliono il petrolio del Sudan. Ci sono
Ha visto il video della decapitazione
dell’ebreo americano Nick Berg?
«No, ma l’ho sentito descrivere con una tale
ricchezza di particolari che è come se l’avessi visto. Abbiamo superato il
limite dell’umanità. Siamo tornati barbari».
Esagera chi sta parlando di scontro fra
civiltà a proposito di Occidente e Islam?
«No. Siamo solo agli inizi. La Chiesa ha
abbattuto il comunismo, ma sta appena percependo la sfida dell’islamismo, che è
ben peggiore. Il Santo Padre non poteva raccogliere questa sfida per motivi di
età. Il prossimo Papa si troverà ad affrontarla. E la via d’uscita non è che
noi abbiamo ragione e loro torto. Ci vantiamo di una tradizione cristiana che
non viviamo nei fatti. Il musulmano ha una costanza di pratica, di proselitismo
superiore alla nostra. Già quando ti insegna a dire “sukran”,
grazie, per lui è missionarietà, perché l’arabo è la
lingua del Corano».
Eppure molti suoi confratelli in Italia hanno
concesso oratori da adibire a moschee.
«Saranno i musulmani a convertire noi, non il
contrario. Ovunque s’insediano, prima o poi diventano una forza politica
egemone. Gli italiani intendono l’accoglienza da bonaccioni. Presto si
accorgeranno che i musulmani hanno abusato di questa bontà, facendo arrivare un
numero di persone dieci volte più alto di quello che gli era stato concesso.
Sono molto più furbi di noi. A me buttano giù le scuole e voi gli spalancate le
porte delle chiese. Se uno è ladro, non gli dai una stanza dentro il tuo
appartamento, perché presto o tardi non troverai più i mobili».
Da una recente statistica risulta che solo il
20% dei musulmani presenti in Italia rispetta i precetti del Corano, così come
solo il 20% dei cattolici va a messa la domenica. Insomma, sono musulmani per modo
di dire.
«Ma la cultura islamica rimane. La religione
è solo una parte della loro civiltà. L’appartenenza alla umma,
la comunità dei credenti musulmani, nessuno la cancella».
Ha senso esportare la nostra democrazia in
società agropastorali che non fanno alcuna
distinzione fra politica e religione?
«No. È da ignoranti. Gli islamici basano le
loro decisioni solo ed esclusivamente sulla umma. I
diritti dell’individuo non sanno neppure che cosa siano. È assurdo pretendere
di inculcargli il primo emendamento della Costituzione americana, nel quale è
previsto che il Congresso non potrà fare alcuna legge per proibire il libero
culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa. Non lo capiscono
proprio»
In Sudan vige la sharia
integrale?
«Il governo fondamentalista
sostiene che la applicherà solo agli islamici. Che cosa capiterà a un imputato
cristiano non si sa, visto che non esiste il diritto alla difesa legale».
Roberto Hamza
Piccardo, segretario dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, mi ha
detto che in Sudan le flagellazioni sono simboliche, perché «il fustigatore
tiene il Corano sotto il braccio, per alleggerire i colpi dello scudiscio».
«Ho conosciuto questo signore. Se lei lo sta
ad ascoltare, gliene racconta altre mille di menzogne analoghe».
Però anche San Benedetto prevedeva la
fustigazione per «i malvagi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti».
«Non è diventato santo per questo, ma
nonostante questo. Sono le piccolezze dei grandi uomini»
Mi ha detto Piccardo che alcuni pezzi di sharia applicati in Sudan, come il taglio della mano,
rappresentano «rarissime malvagità di boss locali che vessano la povera gente».
«Non è vero. È lo Stato che più applica la
legge coranica, che taglia mani e piedi pure ai non
musulmani e che arresta senza prove».
Mi ha detto anche che il leader Hassan El Turabi,
«giurista insigne», è contrario all’applicazione della pena capitale agli
apostati, cioè ai maomettani che passano con gli infedeli, come invece
prescriverebbe il Corano.
«El Turabi è la persona più scaltra di questo mondo. È
intelligentissimo, è avvocato, parla l’inglese meglio degli inglesi e il
francese meglio dei francesi. Ha una lingua biforcuta. Ci metterà sempre nel
sacco. Le faccio un esempio concreto. Nella versione in lingua inglese della
Costituzione sudanese si afferma che la religione di Stato è l’Islam e che gli
altri culti sono tollerati. Nella versione in lingua araba però non v’è traccia
di questa garanzia».
Però nel novembre scorso è andato a
complimentarsi con Gabriel Zubeir Wako,
arcivescovo di Khartoum, primo cardinale sudanese,
fresco di porpora. Lei stesso sta da 23 anni in Sudan e nessuno le ha mai torto
un capello.
«Dovrebbe osservare anche i capelli che sono
diventati bianchi. La punizione più grande che l’arabo sa infliggere è l’oppressione,
il senso di falsità. Se può ingannarti, lo fa con tutto il cuore. Si vanta
della sua capacità di imbrogliarti, dargli del bugiardo è fargli un
complimento. Uno come Bush, El
Turabi lo mena per il naso dove e quando vuole, per
non dire di peggio. Io, piuttosto che essere deriso e fatto fesso, preferisco
prendere uno schiaffo. I musulmani ti incutono paura, ti tengono in uno stato
permanente di insicurezza. È un’afflizione psichica continua, peggio di una
tortura».
Esiste lo schiavismo in Sudan?
«Loro giurano di no.
Sono andati a dirlo anche a Ginevra. Eppure le mie missioni sono piene di ex
schiavi. Nel ’90 ne ho riscattati personalmente 150, pagandoli meno di un cane
di razza: 50 dollari le femmine, 100 i maschi. Poi non l’ho più fatto, perché mi
sono accorto che poteva diventare un circolo vizioso. Li usano come pastori
oppure li mandano a servizio dalle famiglie arabe benestanti di Khartoum. Li obbligano a frequentare le scuole coraniche».
Perché è diventato missionario?
«Forse perché vedevo mio padre, un ortolano,
portare la minestra ai carcerati. Non ho mai pensato di fare altro. A 8 anni
ero chierichetto nel santuario del Sacro Cuore a Brescia, retto dai comboniani. A 9 sono andato a visitare il loro seminario di
Crema. A 10 ci sono entrato».
Ha paura?
«Non farei il mestiere che faccio se ne
avessi. Con la paura non si sopravvive. Quando mi accorgo che un mio sacerdote
ha paura, lo tolgo dalla missione. È una malattia contagiosa. Il giorno che
diventassi pauroso, prego Dio di prendermi».
Tornerà mai in Italia?
«La mia patria è il Sudan. Ho promesso ai
miei fedeli che non li abbandonerò neanche da morto. Loro sanno già dove mi
devono seppellire».
Crede che cristiani e musulmani potranno mai
vivere in pace fra loro?
«Il rispetto verrà dopo che ci saremo
conosciuti. Per il momento condividiamo solo la terra che calpestiamo».
C’è qualcosa che i miei lettori e io possiamo
fare per lei, padre?
«Pregate tanto».
Solo questo?
«Non dimenticateci».
Non la dimenticherò.
«Lo farà. I poveri si dimenticano in fretta».
Stefano Lorenzetto
(Il Giornale, 23 maggio 2004)
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