Bibbia a fumetti - Castigat ridendo mores - da Astrologia a Vita Sociale il dizionario dei problemi dell'uomo moderno

 

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A Giuseppe Gioacchino Beffi *

 

A Giuseppe Gioacchino Belli *

 

PAROLE, PAROLE, PAROLE...

 

               Caro poeta,

 

           avete trattato piuttosto male nei vostri versi il mio concittadino papa Gregorio XVI, bellunese. Questo non m’impedisce di riconoscere che negli oltre duemila sonetti in romanesco, che ci avete lasciato, avete talvolta ritratto con vivacissima verità il popolo romano, la sua lingua, l’indole, il costume, gli usi, le credenze, i pregiudizi, le virtù ed anche i difetti.

Qualche volta, a dire il vero, siete scivolato nello scrivere; la vostra vita è stata quella di un galantuomo e ci teneste a dirlo: "Scatagnàmo ar parlà, ma aràmo dritto" (pecchiamo nel parlare, ma righiamo diritto).

Quante battute felici, però! Questa per esem­pio: "Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bel­lissima giornata". Alcuni dei vostri sonetti sono poi dei veri quadretti di genere, da cui balzano fuori vivi e parlanti artigiani, donne del popolo, cospiratori, commercianti, prelati e semplici preti.

Fra questi ultimi, l’abate Francesco Cancel­lieri. Lo descriveste in versi famosi, che poi voi stesso commentaste in prosa cosi: Cancellieri "co­minciava a parlare di ravanelli, e poi, di ravanelli in carota e di carota in melanzana, finiva con l’in­cendio di Troia"!

***

Dispiace che, con la sua logorrea sconclusio­nata ed affliggente, il buon abate abbia fatto cat­tiva propaganda alla conversazione, la quale, se si svolge nei modi dovuti, è invece una gran bella cosa per la nostra vita di poveri uomini.

La conversazione, infatti, ci mette vicino agli altri e ci dà un profondo senso di noi stessi; ci riposa dalle nostre fatiche, ci distrae dalle preoccu­pazioni, sviluppa la nostra personalità, rinfresca i nostri pensieri.

Sono triste? La simpatia di chi conversa con me mi conforta. Mi sento solo? La conversazione fa cessare la solitudine: se si tratta di conversazione familiare, sono felice di essere ammesso nella inti­mità altrui; se si tratta di conversazione impor­tante, mi sento onorato di venire trattato come una "intelligenza".

         E’ la prima volta che converso con la tal per­sona? Mi pare di viaggiare piacevolmente attraverso un paese sconosciuto. E’ la seconda, la terza, la quarta volta? Mi pare di tornare a vedere luoghi già visti, di cui, però, non avevo ancora approfon­dito tutte le bellezze paesaggistiche. Trovo anche che, conversando, mi arricchisco. Possedere infatt­i salde convinzioni, è bello; possederle in modo tale da poterle comunicare e vederle condivise e apprezzate, è più bello ancora.

La chiarezza della cosa da me detta aumenta la chiarezza della cosa pensata. Se percepisco che il mio sentimento fa vibrare l’animo altrui, me lo sento ritornare ripercosso e accresciuto in me.

Nella conversazione ha trovato sollievo anche Gesù; per toccarlo con mano, basta leggere in san Giovanni le confidenze fatte ai suoi apostoli du­rante l’ultima Cena. Della conversazione Gesù ha fatto spessissimo il veicolo del suo apostolato: par­lava, camminando lungo le strade, passeggiando sotto i portici di Salomone; parlava nelle case, con le persone attorno come Maria seduta ai suoi piedi, come Giovanni che reclinava la testa sul suo petto.

Più volte mi sono chiesto: perché il Signore ha esposto spesso a tavola le più alte verità? Forse perché nel tempo del pasto la gente depone ogni sussiego e assume un atteggiamento calmo, mode­sto, disteso. A tavola sono minori o nulle le solle­citudini e le irrequietezze; le persone vi si siedono senza animo polemico, disposte all’accoglienza ed alla simpatia.

***

E fu appunto conversando a tavola che l’altrieri mi venne quasi fatto di persuadere un ospite. Que­sti si dichiarava - tra un boccone e l’altro, tra un sorriso e l’altro - gran fautore del pluralismo nella fede. "Per me è chiaro, - diceva - nessuno ha in tasca tutta la verità cristiana. Ognuno di noi ne ha solo un pezzetto e bisogna lasciarglielo godere in pace. L’unità la fa solo Dio dall’alto, mettendo insieme i vari pezzetti e facendone la sintesi". "Ohi­mé! - risposi - scusa, ma la tua idea di Dio e di verità sembra a me quella degli orbi dell’India". "Quali orbi?", dice lui. "Aspetta!".

Mi alzo, esco e torno con in mano "I quattro libri di lettura" di Lev Tolstoi. "Lascia che te ne legga una sola pagina". E leggo. Gli elefanti del re (favola).

Un re indiano ordinò di radunare tutti i cie­chi e, quando ciò fu fatto, disse di mostrar loro i suoi elefanti. Uno tastò la gamba, un altro la co­da; un terzo la radice della coda, un quarto il ven­tre, un quinto il dorso, un sesto le orecchie, un settimo i denti e un ottavo la proboscide.

Poi il re fece venire i ciechi al suo cospetto e domandò: "A che somigliano i miei elefanti?".

Il primo cieco rispose: "I tuoi elefanti somi­gliano alle colonne". Era quello che aveva tastato le gambe. Il secondo disse: "Somigliano ad una scopa". Era quello che aveva tastato la coda. Il terzo disse: "Somigliano ad un ramo". Era quello che aveva tastato la radice della coda. Quello che aveva tastato il ventre, disse: "I tuoi elefanti somi­gliano ad un mucchio di terra". Quello che aveva tastato i fianchi, disse: "Somigliano ad un muro". Quello che aveva tastato il dorso, disse: "Somi­gliano ad una montagna". Quello che aveva tastato le orecchie, disse: "Somigliano ad un ariete". Quel­lo che aveva tastato i denti, disse: "Somigliano alle corna". Quello che aveva tastato la proboscide, dis­se: "Somigliano ad una grossa corda". E tutti i cie­chi cominciarono a disputare tra loro e a litigare.

Deponendo il libro, dico: "Senti, a me ripugna pensare che Dio abbia mandato suo Figlio a dirci 'Io sono la via, la verità e la vita' con il bel risultato di farci poi trovare tutti nella situazione di quei ciechi, con in mano ciascuno una misera particella di vera, diversa dalla particella degli altri. Che noi si conosca le verità della fede solo per analogia, sì; ma orbi fino a questo punto, no; mi pare inde­gno sia di Dio sia della nostra ragione!".

L’inaspettata teologia fatta a base di code e schiere di elefante, non convinse del tutto l’ospite, ma lo scosse, facendogli dire: "Toh! questo nes­suno me lo aveva detto! ". "Non lo sai? - rispo­si - a volte sono i paperi, che menano le oche a bere. Dove Rahner non riesce coi suoi volumoni di teologia, può sottentrare Tolstoi colla favoletta! ".

***

Da Rahner e da Tolstoi, illustre Belli, torno a Voi, riconoscendo che - nella conversazione - c’è anche il rovescio della medaglia: lo sproloquia­re del vostro abate Cancellieri è appena uno dei tanti difetti.

Ce n’è altri, e lo sappiamo noi a Venezia, do­ve il Goldoni ha descritto i guai combinati dal con­versare ne "I pettegolezzi delle donne"; ne "La bottega da caffè" con quel don Marzio così maldi­cente e piantagrane; ne "Il bugiardo" con quel Lelio, che aggiunge bugie a bugie, spacciandole co­me "spiritose invenzioni"; ne "Le baruffe chioz­zotte" e ne "Il campiello" con quelle donne, che sembrano chiedere all’amica di custodire un segreto solo per diffondere una notizia.

Ma anche Voi ne sapete qualcosa: lo dimostra il delizioso quadretto, che trascrivo con qualche modifica nella grafia.

 

               Eccote qua sì ccome l’ho saputa.

               Nanna s’è con fidata con Vincenza;

               questa l’ha detto a Nina, a la Sapienza;

               Nina l’ha detto in confidenza a Tuta.

               Cussì è andato a l’orecchia de Clemenza,

               ch’è corsa a racontallo a la baffuta:

               e lei, ch’è amica mia, oggi è venuta

               a dimmelo a quattr’occhi in confidenza.

               E s’io l’ho detto a te, so de raggione

               che tu sei donna ch’el segreto mio


               l’hai sentito in sigill de confessione.

               Comare, abbada per l’amor de Dio,

               se te pijasse mai la tentazione

               de dillo, non lo dì che l’ho detto io!

 

Conversare, dunque, si, ma non a scapito della carità, della verità, del lavoro, dello studio: della misura, insomma. Che non ci capiti di avere anche noi sulla nostra tomba scolpita la seguente epigrafe:

 

               E’ qui sepolto il gran ciarlon Soemo:

               Ora un poco anche noi parlar potremo!

***

Altro è conversare, altro è chiacchierare in­consideratamente infilzando una dopo l’altra noti­zie inutili, nascondendo la propria anima invece di rivelarla, tagliando la strada ad altri interlocutori, stordendo la gente e lasciandola prostrata di forze!

Ho letto che a Tommaso Moro, in un suo viag­gio in Olanda, capitò di far strada con un uomo dal parlare molto piacevole per lo spazio che lascia­va all’interlocutore, per le cose che diceva e per il brio con cui le diceva. Ad un certo punto, ammi­rato per una nuova risposta quanto mai spiritosa ed azzeccata del compagno, Tommaso esclamò: "Ma voi, o siete il diavolo o siete Erasmo di Rot­terdam! ". "Diavolo non sono - rispose l’altro - ma Erasmo sì".

L’episodio dice che la conversazione ci rivela tali quali siamo e che in essa dobbiamo cercare di dire qualcosa di utile, di interessante e di piacevole, senza predicozzi, senza pose, senza parole scelte o altisonanti. Queste ultime, caro Belli, non piace­vano neanche a Voi e lo diceste chiaro, prendendo di mira una innocente congiunzione, che usata oggi, farebbe ridere, ma che ai vostri tempi, era di gran moda.

 

        Conciossiacosaché l’è una parola,

        che i nostri padri udivano la prima,

        al primo ingresso nella prima scuola.

        E tale e tanta ne facevan stima

        che sempre ne tenean piena la gola

        da sputarla dovunque e in prosa e in rima.

 

Se veniste oggi, il conciossiacosaché non l’udi­reste più. Dovreste, invece, far l’orecchio ad altre frasi: "confrontarsi con la parola di Dio", "discorsi e gesti profetici", "istanze sociali", "mediazione fra fede e storia", "strutturalismo", "comunione", "li­aerazione", "inchiestare", "verificare", "leggere in chiave di questo, essere a livello di quest’altro". Sono tutte parole che esprimono concetti elevati, intendiamoci, ma è un po’ buffo vedere persone dichiaratamente anticonformiste "conformarsi" alle­gramente a queste parole solo perché sono quelle usate da alcuni alti papaveri.

Io me ne meraviglio pressappoco come vi me­ravigliaste Voi di fronte ad altre frasi:


 


               Io non posso capi da che ne naschi

               che sentendo la gente gli starnuti

               abbiano da infilzà tanti saluti

               e gnente per la tosse e pe’ li raschi.

               "Prosit, buon pro, evviva, Iddio v’aiuti,

               bezzi, felicità, pieni gli fiaschi

               et iterum salute, e figli maschi"...

 

Voi non potevate capire allora il perché. Io non son capace di capire adesso. Che la colpa sia della moda? Essa è stata definita "orrore del Passato Prossimo", "non madre, ma suocera e ti­ranna del buon senso".

Quanto meglio se, almeno in conversazione, al posto delle difficili parole di moda, usassimo parole semplici e facili, magari prese a prestito dalle favole di Tolstoi o dai vostri sonetti, ovvia­mente selezionati e purgati!

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* GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI, poeta dialettale ro­mano (1791-1863). Impiegato dello Stato pontificio, eb­be un’infanzia tragica e una vita difficile. Nei momenti migliori (1830-36) compose quasi di getto duemila so­netti nei quali ha ritratto con vivacissima verità l’in­dole, gli usi, le virtù e i difetti dei romani.

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Albino Luciani

Illustrissimi

Edizioni Messaggero - Padova

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