INTELLETTO (umano)
Dal latino intus-legere, leggere
dentro. Nella filosofia aristotelica, scolastica e anche in gran parte di
quella moderna, fino a Kant, questo termine designa
la facoltà di ogni conoscenza universale (mentre la fantasia e i sensi sono le
facoltà delle conoscenze particolari). Alla sua attività appartengono
l’astrazione delle idee, i giudizi, i ragionamenti. E funzione dell’intelletto
anche la cognizione dei principi primi. Per spiegare l’astrazione delle idee
Aristotele e i suoi seguaci distinguono due intelletti: agente e paziente (o
passivo e anche possibile). Il primo illumina i fantasmi (cioè le immagini
della fantasia) e coglie in tal modo il nucleo essenziale, cioè l’idea; il
secondo raccoglie e conserva l’idea elaborata dall’intelletto agente. Nella
filosofia kantiana e post-kantiana la parola intelletto è riservata alla
facoltà del giudizio; mentre il compito di formulare i ragionamenti è affidato
alla ragione. La distinzione kantiana ha dato origine a un uso differente,
che consiste nell’attribuire alla ragione la conoscenza dell’eterno e
dell’assoluto, mentre l’intelletto si esercita su ciò che è empiricamente
dato.
Aristotele aveva scritto: "Mentre
l’intelletto passivo diventa tutte le cose, l’intelletto agente tutte le cose
produce (...). E questo intelletto è separato, impassibile e senza mescolanza,
perché la sua sostanza è l’atto stesso" (L’anima III, 5, 430a 10). Questa
distinzione aristotelica ha dato luogo a una notevole discrepanza di
interpretazioni e a vivaci discussioni tra i suoi commentatori. D’altronde non
si trattava di contesa di poco conto, in quanto la questione dell’intelletto
agente era strettamente legata al problema dell’immortalità dell’anima.
Infatti, se l’intelletto agente è impersonale (come sembra suggerire il testo
aristotelico) pare si debba negare la dottrina dell’immortalità personale. Le
soluzioni più note avanzate dai commentatori di Aristotele sono quelle di Alessandro di Afrodisia, Temistio, Averroè e Tommaso d’Aquino. Alessandro d’Afrodisia
identifica l’intelletto agente con Dio e nega l’immortalità personale; Temistio afferma che l’intelletto agente è parte dell’anima
umana, ma è un intelletto materiale come è materiale la stessa anima. Averroè riprende l’interpretazione di Alessandro di Afrodisia e fa dell’intelletto agente una sostanza
separata, mentre alle singole anime riconosce un intelletto acquisito
generabile e quindi anche corruttibile, le cui funzioni sono quelle di esibire
all’intelletto agente i fantasmi ricevuti dalla fantasia, che l’intelletto
agente stesso tramuta da intelligibili in potenza in intelligibili in atto.
La questione dell’intelletto, della sua natura,
delle sue funzioni e del suo oggetto proprio è una di quelle che hanno appassionato
maggiormente S. Tommaso, che ne ha fatto il suo campo di battaglia preferito
dall’inizio alla fine della sua carriera accademica. A tale questione egli
dedica ampie trattazioni in molte opere, in particolare: nel Commento alle
Sentenze (II, q.
1. L’INDIVIDUALITA'
DELL’INTELLETTO
Della questione del carattere personale o
impersonate dell’intelletto si occupa già nel Commento alle Sentenze. In un
articolo intitolato "se l’intelletto sia uno in tutti gli uomini"
confuta la tesi di Averroè e fa vedere che "intellectum agentem esse in diversis diversum", in
quanto è assolutamente improbabile che nell’anima razionale non ci sia un
principio proprio grazie a cui possa svolgere un’operazione che le è
connaturale, l’operazione della conoscenza intellettiva; ciò che accadrebbe
qualora si supponesse che vi è un unico intelletto per tutti gli uomini, sia
che lo si identifichi con Dio o con un’intelligenza separata (sive dicatur Deus vel intelligentia) (II Sent., d. 17, q.
Nella Summa
Contra Gentiles, S.
Tommaso attacca nuovamente Averroè accusandolo di
avere falsato il senso genuino dei testi aristotelici, e richiamandosi al
principio che l’anima è forma del corpo e che l’intelletto è facoltà
essenziale dell’anima, conclude che "essendo una virtù dell’anima, e
necessario che non sia uno in tutti, ma che si moltiplichi come si moltiplicano
le anime" (C. G., II, c. 59).
Nella Summa Theologiae il Dottore Angelico
confuta la dottrina averroistica che l’intelletto si
unisca all’anima semplicemente per mezzo dei fantasmi o immagini; questa è
tesi insostenibile per due ragioni: anzitutto perché non è vero che i fantasmi
siano oggetto dell’intelletto, ma sono soltanto materia dell’operazione
intellettiva; in secondo luogo perché se fosse vero che la distinzione tra i
singoli uomini dipendesse semplicemente dalla diversità dei fantasmi,
"non si distinguerebbero tra loro che per qualche cosa di estraneo alla
loro essenza", e così "nel caso che Socrate e Platone non avessero
che un intelletto unico, Socrate e Platone non sarebbero che un uomo solo"
(I, q.
Quando net 1268 S. Tommaso fu chiamato
per la seconda volta alla cattedra di teologia dell’università
di Parigi, la questione dell’unità dell’intelletto vi era diventata più acuta
che mai, a causa della presenza in quella università di numerosi averroisti, capeggiati da Sigieri
di Brabante. Così S. Tommaso scese nuovamente in
lizza e nel giro di tre anni sfornò tre vigorosi saggi, dedicati esclusivamente
a questo argomento: il De Anima, il De Spiritualibus Creaturis e il De
unitate intellectus contra Averroistas. Gli
argomenti che egli adduce contro Averroè
sono sostanzialmente gli stessi, ma ora tornano arricchiti da più ampie e
acute considerazioni. Alcuni argomenti hanno carattere induttivo, in quanto
muovono dall’esperienza stessa del conoscere, che risulta essere qualche cosa
di assolutamente individuale e personale:
1) "E infatti manifesto che le perfezioni delle scienze non sono le medesime in
tutti, in quanto alcuni hanno le scienze e altri ne sono privi. Ciò non sarebbe
possibile se l’intelletto fosse uno per tutti; come è impossibile che un
soggetto sia in atto e in potenza rispetto alla medesima forma: p. es. che la
superficie sia simultaneamente bianca in atto e in potenza" (De An., a. 3).
2) "Un uomo
particolare, Socrate o Platone, fa
quando vuole le cose intelligibili in atto, astraendo l’universale dalle cose
particolari, quando distingue ciò che è comune a tutti gli individui dalle cose
che sono proprie dei singoli. Dunque l’azione dell’intelletto agente, che
astrae l’universale, è azione di quest’uomo, come
pure considerare o giudicare sulla natura comune che è l’azione dell’intelletto possibile. Ed ogni agente ha formalmente
in se stesso la virtù che è principio di tale azione. Onde come è necessario
che l’intelletto possibile sia qualcosa di formalmente inerente all’uomo, così
è necessario che l’intelletto agente sia qualcosa di formalmente inerente
all’uomo" (De Spir. Creat.,
c. 10).
Altri argomenti hanno carattere deduttivo,
e sono ricavati o dalla natura dell’anima, o dalla natura stessa dell’agire,
oppure dalle conseguenze perniciose che seguono alla negazione della
individualità dell’intelletto, 1) Certo esiste un intelletto perfetto che è causa
di tutti gli intelletti, ma ciò con cui l’anima conosce non è l’intelletto
perfetto bensì l’intelletto partecipato che le compete in quanto creatura
spirituale: "L’anima è la più perfetta delle creature inferiori. Perciò
oltre la virtù universale dell’intelletto superiore bisogna ammettere la
partecipazione nell’anima di una virtù particolare adeguata a questo
determinato effetto, perché le cose diventino intelligibili in atto"
(ibid.); 2) "In ogni operante è necessario che ci sia un principio
formale con cui operi formalmente: infatti non può operare formalmente mediante
qualcosa separato da esso; così, sebbene ciò che è separato sia principio che
muove ad operare, tuttavia ci deve essere un qualcosa di intrinseco con cui
operi formalmente sia esso forma o qualsivoglia impressione. Dunque in noi ci
deve essere un principio formale con cui riceviamo le specie intelligibili, ed
un altro con cui le astraiamo. Tali princìpi si
chiamano intelletto possibile ed agente" (De An.,
a. 5). "Se l’intelletto di tutti fosse uno solo,
uno solo dovrebbe essere anche il soggetto che intende, e conseguentemente
l’intelletto che vuole (...) una sola volontà sarebbe in tutti,
il che è falso e distrugge del tutto la filosofia mora1e" (De Unitat. Intell., a. 4).
2. INTELLE1TO
AGENTE E POSSIBILE
L’argomento su cui S. Tommaso fonda la distinzione nell’anima di due intelletti, uno possibile
e l’altro agente, è il seguente. Mentre l’intelletto divino è totalmente in
atto ossia tutti gli intelligibili stanno eternamente sotto il suo sguardo;
viceversa l’intelletto umano, all’inizio, è totalmente in potenza (è una tabula
rasa); né ciò che è in potenza è in grado di passare all’atto
per sua iniziativa (come la materia non può darsi le forme): pertanto è
necessario ammettere nell’anima oltre la disposizione passiva anche un potere
attivo, e questo è per l’appunto l’intelletto agente (cfr.
II Sent., d. 17, q.
3. SPIRITUALITA'
E INFINITEZZA DELL’INTELLETTO
La facoltà intellettiva, facoltà precipua
dell’anima, è facoltà squisitamente spirituale e lo è in entrambe le sue
dimensioni, sia quella possibile sia quella agente. S. Tommaso si impegna
spesso in vivaci dibattiti contro gli averroisti,
polemizzando contro la loro tesi secondo cui l’unico aspetto spirituale del conoscere
umano è quello che compete all’intelletto agente; mentre negavano la spiritualità
dell’intelletto possibile. Per l’Aquinate questa è
tesi inammissibile non solo perché contraria alla fede la quale insegna che
"la vita eterna è conoscere il vero Dio" (Gv
17, 7), ma anche perché urta contro la ragione e questo per vari motivi: 1)
"Perché l’operazione dell’intelletto ha come oggetto tutte le forme
corporee, e questo esige che il principio di tale operazione prescinda da
qualsiasi forma materiale, sia cioè immateriale" (II Sent.,
d. 19, q.
Interessanti sono i rilievi fatti da S.
Tommaso a proposito delta apertura infinita di cui è dotata l’intelligenza
umana, apertura che rispecchia e conferma la sua immaterialità: "Quella
parte dell’anima che nel suo agire non dipende da un organo corporeo, non rimane
bloccata (non remanet
determinata), ma è in un certo modo (quodammodo) infinita, essendo
immateriale; e con la sua capacità si estende a ciò che è comune a tutti gli
enti (l’essere)" (De Ver., q.
4. OGGETTO
DELL’INTELLETTO
Nella conoscenza intellettiva S. Tommaso
distingue due oggetti, proprio e adeguato. Oggetto proprio sono le essenze
delle cose materiali. E la loro conoscenza viene raggiunta mediante
l’astrazione dai fantasmi: "L’oggetto proprio dell’intelletto umano unito
al corpo sono le essenze o nature che hanno la loro sussistenza nella materia
corporea; mediante queste essenze delle cose visibili, l’uomo può salire ad
una certa conoscenza delle cose invisibili (...). Perciò affinché
l’intelletto possa conoscere il proprio oggetto è necessario che si volga ai
fantasmi e apprenda così la natura universale sussistente in ogni cosa
particolare" (I, q.
5. INTELLETTO
SPECULATIVO E PRATICO
A proposito della distinzione già posta da
Aristotele, tra intelletto speculativo e pratico, S. Tommaso fa le seguenti
acute e precise considerazioni. "L’intelletto speculativo e pratico
differiscono in questo: che l’intelletto speculativo considera il vero in
assoluto; mentre l’intelletto pratico considera il vero in rapporto all’agire.
Talvolta accade che il vero preso in se stesso non possa diventare regola
dell’agire, ed è precisamente quanto accade nelle matematiche; per cui il loro
studio non può avere che carattere speculativo. Altre volte invece il vero
preso in se stesso può anche divenire regola dell’agire: allora l’intelletto
speculativo diviene pratico in quanto viene esteso all’agire. Ma questo si può
considerare in due modi.
1.
Il
vero che viene studiato riceve la sua importanza dal fatto di essere diretto
all’azione. In questo caso, poiché si applica al contingente, non possiede una
verità stabile (non habet
fixam veritatem): tale è lo studio sugli atti di virtù. Questo studio
benché possa appartenere all’intelletto sia
speculativo che pratico, tuttavia compete soprattutto all’intelletto pratico.
2.
Il vero studiato
continua ad avere una sua importanza anche nel caso che non sia ordinato all’azione
immediata, come nello studio delle realtà divine, la cui conoscenza però, dato
che Dio costituisce il fine ultimo dell’agire, permette di dirigere l’operare.
In questo secondo caso lo studio appartiene primariamente all’intelletto
speculativo e secondariamente a quello pratico" (III Sent.,
d. 23, q.
(Vedi, CONOSCENZA,
ASTRAZIONE, ILLUMINAZIONE, AVERROE', AVERROISMO)
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Battista Mondin.
Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso D'Aquino,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna.