LETTERA
APOSTOLICA
NOVO
MILLENNIO INEUNTE
DEL
SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI
PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL
CLERO E AI FEDELI
AL TERMINE DEL GRANDE GIUBILEO
DELL'ANNO DUEMILA
Ai Confratelli nell'Episcopato,
ai sacerdoti e ai diaconi,
ai religiosi e alle religiose,
a tutti i fedeli laici.
1. All'inizio del nuovo millennio,
mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni
della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per
Duc in
altum! Questa parola risuona oggi per noi, e ci invita a fare memoria
grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al
futuro: « Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre! » (Eb 13,8).
Grande è stata quest'anno la gioia
della Chiesa, che si è dedicata a contemplare il volto del suo Sposo e Signore.
Essa si è fatta più che mai popolo pellegrinante, guidato da Colui che è « il
Pastore grande delle pecore » (Eb 13,20).
Con uno straordinario dinamismo, che ha coinvolto tanti suoi membri, il Popolo
di Dio, qui a Roma, come a Gerusalemme e in tutte le singole Chiese locali, è
passato attraverso la « Porta Santa » che è Cristo. A lui, traguardo della
storia e unico Salvatore del mondo,
È impossibile misurare l'evento di
grazia che, nel corso dell'anno, ha toccato le coscienze. Ma certamente, « un
fiume d'acqua viva », quello che perennemente scaturisce « dal trono di Dio e
dell'Agnello » (cfr Ap 22,1), si è
riversato sulla Chiesa. E l'acqua dello Spirito che disseta e rinnova (cfr Gv 4,14). E l'amore misericordioso del
Padre che, in Cristo, ci è stato ancora una volta svelato e donato. Al termine
di quest'anno possiamo ripetere, con rinnovata esultanza, l'antica parola della
gratitudine: « Celebrate il Signore perché è buono, perché eterna è la sua
misericordia » (Sal 118[117],1).
2. Sento perciò il bisogno di rivolgermi
a voi, carissimi, per condividere il canto della lode. A quest'Anno Santo del
Duemila avevo pensato, come ad una scadenza importante, fin dall'inizio del mio
Pontificato. Avevo colto, in questa celebrazione, un appuntamento
provvidenziale, in cui
È riuscito il Giubileo in questo
intento? Il nostro impegno, con i suoi sforzi generosi e le immancabili
fragilità, è davanti allo sguardo di Dio. Ma non possiamo sottrarci al dovere
della gratitudine per le « meraviglie » che Dio ha compiuto per noi. « Misericordias Domini in aeternum cantabo
» (Sal 89[88],2).
Al tempo stesso, quanto è avvenuto
sotto i nostri occhi chiede di essere riconsiderato e, in certo senso,
decifrato, per ascoltare ciò che lo Spirito, lungo quest'anno così intenso, ha
detto alla Chiesa (cfr Ap 2,7.11.17
ecc.).
3. Soprattutto, carissimi Fratelli
e Sorelle, è doveroso per noi proiettarci verso il futuro che ci attende. Tante
volte, in questi mesi, abbiamo guardato al nuovo millennio che si apre, vivendo
il Giubileo non solo come memoria del
passato, ma come profezia
dell'avvenire. Bisogna ora far tesoro della grazia ricevuta, traducendola
in fervore di propositi e concrete linee operative. Un compito al quale
desidero invitare tutte le Chiese locali. In ciascuna di esse, raccolta intorno
al suo Vescovo, nell'ascolto della Parola, nell'unione fraterna e nella «
frazione del pane » (cfr At 2,42), è
« veramente presente e agisce
Questo radicarsi della Chiesa nel
tempo e nello spazio riflette, in ultima analisi, il movimento stesso dell'Incarnazione. E ora dunque che ciascuna
Chiesa, riflettendo su ciò che lo Spirito ha detto al Popolo di Dio in questo
speciale anno di grazia, ed anzi nel più lungo arco di tempo che va dal
Concilio Vaticano II al Grande Giubileo, compia una verifica del suo fervore e
recuperi nuovo slancio per il suo impegno spirituale e pastorale. È a tal fine
che desidero offrire in questa Lettera, a conclusione dell'Anno giubilare, il
contributo del mio ministero petrino, perché
I
L'incontro con Cristo
Eredità del Grande Giubileo
4. « Noi ti rendiamo grazie,
Signore Dio onnipotente » (Ap 11,17).
Nella Bolla di indizione del Giubileo auspicavo che la celebrazione
bimillenaria del mistero dell'Incarnazione fosse vissuta come «un unico,
ininterrotto canto di lode alla Trinità»2 e insieme
«come cammino di riconciliazione e come segno di genuina speranza per quanti
guardano a Cristo ed alla sua Chiesa».3
L'esperienza dell'Anno giubilare si è modulata appunto secondo queste
dimensioni vitali, raggiungendo momenti di intensità che ci hanno fatto quasi
toccare con mano la presenza misericordiosa di Dio, dal quale «discende ogni
buon regalo e ogni dono perfetto» (Gc 1,17).
Penso alla dimensione della lode, innanzitutto. È da qui infatti che muove
ogni autentica risposta di fede alla rivelazione di Dio in Cristo. Il
cristianesimo è grazia, è la sorpresa di un Dio che, non pago di creare il
mondo e l'uomo, si è messo al passo con la sua creatura, e dopo aver parlato a
più riprese e in diversi modi « per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi
giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio » (Eb 1,1-2).
In questi
giorni! Sì, il Giubileo ci ha fatto sentire che duemila anni di storia
sono passati senza attenuare la freschezza di quell'« oggi » con cui gli angeli
annunciarono ai pastori l'evento meraviglioso della nascita di Gesù a Betlemme:
« Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore »
(Lc 2,11). Duemila anni sono passati,
ma resta più che mai viva la proclamazione che Gesù fece della sua missione
davanti ai suoi attoniti concittadini nella sinagoga di Nazareth, applicando a
sé la profezia di Isaia: « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete
udito con i vostri orecchi » (Lc 4,21).
Duemila anni sono passati, ma torna sempre consolante per i peccatori bisognosi
di misericordia — e chi non lo è ? — quell'« oggi » della salvezza che sulla
Croce aprì le porte del Regno di Dio al ladrone pentito: « In verità ti dico,
oggi sarai con me nel Paradiso » (Lc 23,43).
La pienezza del tempo
5. La coincidenza di questo
Giubileo con l'ingresso in un nuovo millennio ha certamente favorito, senza
alcun cedimento a fantasie millenariste, la percezione del mistero di Cristo
nel grande orizzonte della storia della salvezza. Il cristianesimo è religione calata nella storia! È sul terreno
della storia, infatti, che Dio ha voluto stabilire con Israele un'alleanza e
preparare così la nascita del Figlio dal grembo di Maria nella « pienezza del
tempo » (Gal 4,4). Colto nel suo
mistero divino e umano, Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è
il senso e la meta ultima. È per mezzo di lui, infatti, Verbo e immagine del
Padre, che « tutto è stato fatto » (Gv 1,3;
cfr Col 1,15). La sua incarnazione,
culminante nel mistero pasquale e nel dono dello Spirito, costituisce il cuore
pulsante del tempo, l'ora misteriosa in cui il Regno di Dio si è fatto vicino
(cfr Mc 1,15), anzi ha messo radici,
come seme destinato a diventare un grande albero (cfr Mc 4,30-32), nella nostra storia.
« Gloria a te, Cristo Gesù, oggi e
sempre tu regnerai ». Con questo canto mille e mille volte ripetuto, abbiamo
quest'anno contemplato Cristo quale ce lo presenta l'Apocalisse: « l'Alfa e
l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio e la fine » (Ap 22,13). E contemplando Cristo, abbiamo insieme adorato il Padre
e lo Spirito, l'unica e indivisa Trinità, mistero ineffabile in cui tutto ha la
sua origine e tutto il suo compimento.
Purificazione della memoria
6. Perché il nostro occhio potesse
essere più puro per contemplare il mistero, quest'Anno giubilare è stato
fortemente caratterizzato dalla richiesta
di perdono. E ciò è stato vero non solo per i singoli, che si sono
interrogati sulla propria vita, per implorare misericordia e ottenere il dono
speciale dell'indulgenza, ma per l'intera Chiesa, che ha voluto ricordare le
infedeltà con cui tanti suoi figli, nel corso della storia, hanno gettato ombra
sul suo volto di Sposa di Cristo.
A questo esame di coscienza ci
eravamo a lungo disposti, consapevoli che
I testimoni della fede
7. La viva coscienza penitenziale,
tuttavia, non ci ha impedito di rendere gloria al Signore per quanto ha operato
in tutti i secoli, e in particolare nel secolo che ci siamo lasciati alle
spalle, assicurando alla sua Chiesa una
grande schiera di santi e di martiri. Per alcuni di essi l'Anno giubilare è
stato anche l'anno della beatificazione o canonizzazione. Riferita a Pontefici
ben noti alla storia o ad umili figure di laici e religiosi, da un continente
all'altro del globo, la santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio
esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di
parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo.
Molto si è fatto poi, in occasione
dell'Anno Santo, per raccogliere le
memorie preziose dei Testimoni della fede nel secolo XX. Li abbiamo
commemorati il 7 maggio 2000, insieme con i rappresentanti delle altre Chiese e
Comunità ecclesiali, nello scenario suggestivo del Colosseo, simbolo delle
antiche persecuzioni. È un'eredità da non disperdere, da consegnare a un
perenne dovere di gratitudine e a un rinnovato proposito di imitazione.
Chiesa pellegrinante
8. Quasi mettendosi sulle orme dei
Santi, si sono avvicendati qui a Roma, presso le tombe degli Apostoli,
innumerevoli figli della Chiesa, desiderosi di professare la propria fede,
confessare i propri peccati e ricevere la misericordia che salva. Il mio
sguardo quest'anno non è rimasto soltanto impressionato dalle folle che hanno
riempito Piazza san Pietro durante molte celebrazioni. Non di rado mi sono
soffermato a guardare le lunghe file di pellegrini in paziente attesa di
varcare
Osservando poi il continuo fluire
dei gruppi, ne traevo come un'immagine
plastica della Chiesa pellegrinante, di quella Chiesa posta, come dice
sant'Agostino, « fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio ».5 A noi non
è dato di osservare che il volto più esteriore di questo evento singolare. Chi
può misurare le meraviglie di grazia, che si sono realizzate nei cuori?
Conviene tacere e adorare, fidandosi umilmente dell'azione misteriosa di Dio e
cantandone l'amore senza fine: «Misericordias
Domini in aeternum cantabo!».
I giovani
9. I numerosi incontri giubilari
hanno visto radunarsi le più diverse categorie di persone, registrando una
partecipazione davvero impressionante, che talvolta ha messo a dura prova
l'impegno degli organizzatori e degli animatori, sia ecclesiali che civili.
Desidero approfittare di questa Lettera per esprimere a tutti il mio grazie più
cordiale. Ma al di là del numero, ciò che tante volte mi ha commosso è stata la
constatazione dell'impegno serio di preghiera, di riflessione, di comunione,
che questi incontri hanno per lo più manifestato.
E come non ricordare specialmente il gioioso ed entusiasmante raduno dei
giovani? Se c'è un'immagine del Giubileo dell'Anno 2000 che più di altre
resterà viva nella memoria, sicuramente è quella della marea di giovani con i
quali ho potuto stabilire una sorta di dialogo privilegiato, sul filo di una
reciproca simpatia e di un'intesa profonda. È stato così fin dal benvenuto che
ho loro dato in Piazza san Giovanni in Laterano e in Piazza san Pietro. Poi li
ho visti sciamare per
Ancora una volta, i giovani si
sono rivelati per Roma e per
Pellegrini delle varie categorie
10. Non posso ovviamente soffermarmi
in dettaglio sui singoli eventi giubilari. Ciascuno di essi ha avuto il suo
carattere e ha lasciato il suo messaggio non solo a quanti vi hanno preso parte
direttamente, ma anche a quanti ne hanno avuto notizia o vi hanno partecipato a
distanza, attraverso i mass media. Ma come non ricordare il tono festoso del primo grande incontro dedicato ai bambini? Iniziare
con loro, significava in certo modo rispettare il monito di Gesù: « Lasciate
che i bambini vengano a me » (Mc 10,14).
Significava forse ancor più ripetere il gesto che egli compì, quando « pose in
mezzo » un bambino e ne fece il simbolo stesso dell'atteggiamento da assumere,
se si vuole entrare nel Regno di Dio (cfr Mt
18,2-4).
Così, in certo senso, è sulle orme
dei bambini che sono venuti a chiedere la misericordia giubilare le più varie
categorie di adulti: dagli anziani ai malati e disabili, dai lavoratori delle
officine e dei campi agli sportivi, dagli artisti ai docenti universitari, dai
Vescovi e presbiteri alle persone di vita consacrata, dai politici ai
giornalisti fino ai militari, venuti a ribadire il senso del loro servizio come
un servizio alla pace.
Grande respiro ebbe il raduno dei lavoratori, svoltosi il 1°
maggio nella tradizionale data della festa del lavoro. Ad essi chiesi di vivere
la spiritualità del lavoro, ad imitazione di san Giuseppe e di Gesù stesso. Il
loro giubileo mi offrì inoltre l'occasione per pronunciare un forte invito a
sanare gli squilibri economici e sociali esistenti nel mondo del lavoro, e a
governare con decisione i processi della globalizzazione economica in funzione
della solidarietà e del rispetto dovuto a ciascuna persona umana.
I bambini, con la loro
incontenibile festosità, sono tornati nel Giubileo
delle Famiglie, in cui sono stati additati al mondo come « primavera della
famiglia e della società ». Davvero eloquente è stato questo incontro
giubilare, in cui tante famiglie, provenienti dalle diverse regioni del mondo,
sono venute ad attingere con rinnovato fervore la luce di Cristo sul disegno originario
di Dio a loro riguardo (cfr Mc 10,6-8;
Mt 19,4-6). Esse si sono impegnate a
irradiarla verso una cultura che rischia di smarrire in modo sempre più
preoccupante il senso stesso del matrimonio e dell'istituto familiare.
Tra gli incontri più toccanti,
poi, rimane per me quello che ho avuto con i
carcerati di Regina Caeli. Nei loro occhi ho letto il dolore, ma anche il
pentimento e la speranza. Per loro il Giubileo è stato a titolo tutto speciale
un « anno di misericordia ».
Simpatico, infine, negli ultimi
giorni dell'anno, l'incontro con il mondo
dello spettacolo, che tanta forza di attrazione esercita sull'animo della
gente. Alle persone coinvolte in questo settore ho ricordato la grande
responsabilità di proporre, con il lieto divertimento, messaggi positivi,
moralmente sani, capaci di infondere fiducia e amore alla vita.
Il Congresso Eucaristico
Internazionale
11. Nella logica di quest'Anno
giubilare, un significato qualificante doveva avere il Congresso Eucaristico Internazionale. E lo ha avuto! Se
l'Eucaristia è il sacrificio di Cristo che si rende presente tra noi, poteva la
sua presenza reale non essere al
centro dell'Anno Santo dedicato all'incarnazione del Verbo? Fu previsto,
proprio per questo, come anno «intensamente eucaristico»6 e così
abbiamo cercato di viverlo. Al tempo stesso, come poteva mancare, accanto al
ricordo della nascita del Figlio, quello della Madre? Maria è stata presente
nella celebrazione giubilare non solo attraverso opportuni e qualificati
Convegni, ma soprattutto attraverso il grande Atto di affidamento con cui,
affiancato da buona parte dell'Episcopato mondiale, ho consegnato alla sua
premura materna la vita degli uomini e delle donne del nuovo millennio.
La dimensione ecumenica
12. Si comprenderà che mi sia
spontaneo parlare soprattutto del Giubileo visto dalla Sede di Pietro. Non
dimentico tuttavia di aver voluto io stesso che la sua celebrazione avesse
luogo a pieno titolo anche nelle Chiese particolari, ed è lì che la maggior
parte dei fedeli ha potuto ottenere le grazie speciali e, in particolare,
l'indulgenza legata all'Anno giubilare. Resta comunque significativo che
numerose Diocesi abbiano sentito il desiderio di rendersi presenti, con vasti
gruppi di fedeli, anche qui a Roma.
Un'attenzione speciale avevo anche
chiesto che si riservasse nel programma dell'Anno giubilare alla dimensione ecumenica. Quale occasione
più propizia, per incoraggiare il cammino verso la piena comunione, che la
comune celebrazione della nascita di Cristo? Molti sforzi sono stati compiuti a
tale scopo, e rimane luminoso l'incontro ecumenico nella Basilica di san Paolo,
il 18 gennaio 2000, quando per la prima volta nella storia una Porta Santa è stata aperta congiuntamente dal Successore di
Pietro, dal Primate Anglicano e da un Metropolita del Patriarcato Ecumenico di
Costantinopoli, alla presenza di rappresentanti di Chiese e Comunità ecclesiali
di tutto il mondo. In questa linea sono andati anche alcuni importanti incontri
con Patriarchi ortodossi e Capi di altre Confessioni cristiane. Ricordo, in
particolare, la recente visita di S.S. Karekin II, Patriarca Supremo e
Catholicos di tutti gli Armeni. Inoltre tanti fedeli di altre Chiese e Comunità
ecclesiali hanno partecipato agli incontri giubilari delle singole categorie.
Il cammino ecumenico resta certo faticoso, forse lungo, ma ci anima la speranza
di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo
Spirito, capace di sorprese sempre nuove.
Il pellegrinaggio in Terra Santa
13. E come poi non ricordare il mio personale Giubileo sulle strade della
Terra Santa? Avrei desiderato iniziarlo ad Ur dei Caldei, per mettermi
quasi sensibilmente sulle orme di Abramo «nostro padre nella fede» (cfr Rm 4,11-16). Dovetti invece
accontentarmi di una tappa solo spirituale, con la suggestiva « Liturgia della
Parola » celebrata il 23 febbraio nell'Aula Paolo VI. Venne subito dopo il
pellegrinaggio vero e proprio, seguendo l'itinerario della storia della
salvezza. Ebbi così la gioia di sostare al Monte Sinai, nello scenario del dono
del Decalogo e della prima Alleanza. Ripresi un mese più tardi il cammino,
toccando il Monte Nebo e recandomi poi negli stessi luoghi abitati e
santificati dal Redentore. È difficile esprimere la commozione che ho provato
nel poter venerare i luoghi della nascita e della vita di Cristo, a Betlemme e
a Nazareth, nel celebrare l'Eucaristia nel Cenacolo, nello stesso luogo della
sua istituzione, nel rimeditare il mistero della Croce sul Golgotha, dove Egli
ha dato la vita per noi. In quei luoghi, ancora tanto travagliati e anche
recentemente funestati dalla violenza, ho potuto sperimentare un'accoglienza
straordinaria non soltanto da parte dei figli della Chiesa, ma anche da parte
delle comunità israeliana e palestinese. Intensa è stata poi la mia emozione
nella preghiera presso il Muro del Pianto e nella visita al Mausoleo di Yad
Vashem, ricordo agghiacciante delle vittime dei campi di sterminio nazisti.
Quel pellegrinaggio è stato un momento di fraternità e di pace, che mi piace
raccogliere come uno dei più bei doni dell'evento giubilare. Ripensando al
clima vissuto in quei giorni, non posso non esprimere l'augurio sentito di una
sollecita e giusta soluzione dei problemi ancora aperti in quei luoghi santi,
congiuntamente cari agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani.
Il debito internazionale
14. Il Giubileo è stato anche — e
non poteva essere diversamente — un grande evento di carità. Fin dagli anni
preparatori, avevo fatto appello ad una maggiore e più operosa attenzione ai
problemi della povertà che ancora travagliano il mondo. Un particolare
significato ha assunto, in questo scenario, il problema del debito internazionale dei Paesi poveri.
Nei confronti di questi ultimi, un gesto di generosità era nella logica stessa
del Giubileo, che nella sua originaria configurazione biblica era appunto il
tempo in cui la comunità si impegnava a ristabilire giustizia e solidarietà nei
rapporti tra le persone, restituendo anche i beni materiali sottratti. Sono
lieto di osservare che recentemente i Parlamenti di molti degli Stati creditori
hanno votato un sostanziale condono del debito bilaterale a carico dei Paesi
più poveri e indebitati. Faccio voti che i rispettivi Governi diano compimento,
in tempi brevi, a queste decisioni parlamentari. Piuttosto problematica si è
rivelata invece la questione del debito multilaterale, contratto dai Paesi più
poveri con gli Organismi finanziari internazionali. C'è da augurarsi che gli
Stati membri di tali Organizzazioni, soprattutto quelli che hanno un maggiore
peso decisionale, riescano a trovare i necessari consensi per arrivare alla
rapida soluzione di una questione, da cui dipende il cammino di sviluppo di
molti Paesi, con pesanti conseguenze per la condizione economica ed
esistenziale di tante persone.
Un dinamismo nuovo
15. Sono, queste, soltanto alcune
delle linee emergenti dall'esperienza giubilare. Essa lascia impressi in noi
tanti ricordi. Ma se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande eredità
che essa ci consegna, non esiterei ad individuarlo nella contemplazione del volto di Cristo: lui considerato nei suoi
lineamenti storici e nel suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza
nella Chiesa e nel mondo, confessato come senso della storia e luce del nostro
cammino.
Ora dobbiamo guardare avanti,
dobbiamo « prendere il largo », fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum! Ciò che abbiamo fatto
quest'anno non può giustificare una sensazione di appagamento ed ancor meno indurci
ad un atteggiamento di disimpegno. Al contrario, le esperienze vissute devono suscitare in noi un dinamismo nuovo,
spingendoci ad investire l'entusiasmo provato in iniziative concrete. Gesù
stesso ci ammonisce: « Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge
indietro, è adatto per il regno di Dio » (Lc
9,62). Nella causa del Regno non c'è tempo per guardare indietro, tanto
meno per adagiarsi nella pigrizia. Molto ci attende, e dobbiamo per questo
porre mano ad un'efficace programmazione pastorale post-giubilare.
È tuttavia importante che quanto
ci proporremo, con l'aiuto di Dio, sia profondamente radicato nella
contemplazione e nella preghiera. Il nostro è tempo di continuo movimento che
giunge spesso fino all'agitazione, col facile rischio del « fare per fare ».
Dobbiamo resistere a questa tentazione, cercando di « essere » prima che di «
fare ». Ricordiamo a questo proposito il rimprovero di Gesù a Marta: « Tu ti
preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno »
(Lc 10,41-42). In questo spirito,
prima di proporre alla vostra considerazione alcune linee operative, desidero
parteciparvi qualche spunto di meditazione sul mistero di Cristo, fondamento
assoluto di ogni nostra azione pastorale.
II
UN VOLTO DA CONTEMPLARE
16. « Vogliamo vedere Gesù » (Gv 12,21). Questa richiesta, fatta
all'apostolo Filippo da alcuni Greci che si erano recati a Gerusalemme per il
pellegrinaggio pasquale, è riecheggiata spiritualmente anche alle nostre
orecchie in questo Anno giubilare. Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli
uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai
credenti di oggi non solo di « parlare » di Cristo, ma in certo senso di farlo
loro « vedere ». E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di
Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti
alle generazioni del nuovo millennio?
La nostra testimonianza sarebbe,
tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto. Il Grande
Giubileo ci ha sicuramente aiutati ad esserlo più profondamente. A conclusione
del Giubileo, mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell'animo la
ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo
resta più che mai fisso sul volto del
Signore.
La testimonianza dei Vangeli
17. E la contemplazione del volto
di Cristo non può che ispirarsi a quanto di Lui ci dice
Quella che ci giunge per loro
tramite è una visione di fede, suffragata da una precisa testimonianza storica:
una testimonianza veritiera, che i Vangeli, pur nella loro complessa redazione
e con un'intenzionalità primariamente catechetica, ci consegnano in modo
pienamente attendibile.9
18. I Vangeli in realtà non
pretendono di essere una biografia completa di Gesù secondo i canoni della
moderna scienza storica. Da essi tuttavia il
volto del Nazareno emerge con sicuro fondamento storico, giacché gli Evangelisti
si preoccuparono di delinearlo raccogliendo testimonianze affidabili (cfr Lc 1,3) e lavorando su documenti
sottoposti al vigile discernimento ecclesiale. Fu sulla base di queste
testimonianze della prima ora che essi, sotto l'azione illuminante dello
Spirito Santo, appresero il dato umanamente sconcertante della nascita
verginale di Gesù da Maria, sposa di Giuseppe. Da chi lo aveva conosciuto
durante i circa trent'anni da lui trascorsi a Nazareth (cfr Lc 3,23), raccolsero i dati sulla sua
vita di « figlio del carpentiere » (Mt 13,55)
e «carpentiere» egli stesso, ben collocato nel quadro della sua parentela (cfr Mc 6,3). Ne registrarono la religiosità,
che lo spingeva a recarsi con i suoi in pellegrinaggio annuale al tempio di
Gerusalemme (cfr Lc 2,41) e
soprattutto lo rendeva abituale frequentatore della sinagoga della sua città
(cfr Lc 4,16).
Le notizie si fanno poi più ampie,
pur senza essere un resoconto organico e dettagliato, per il periodo del
ministero pubblico, a partire dal momento in cui il giovane Galileo si fa
battezzare da Giovanni Battista al Giordano, e forte della testimonianza
dall'alto, con la consapevolezza di essere il « figlio prediletto » (Lc 3,22), inizia la sua predicazione
dell'avvento del Regno di Dio, illustrandone le esigenze e la potenza
attraverso parole e segni di grazia e misericordia. I Vangeli ce lo presentano
così in cammino per città e villaggi, accompagnato da dodici Apostoli da lui
scelti (cfr Mc 3,13-19), da un gruppo
di donne che li assistono (cfr Lc 8,2-3),
da folle che lo cercano o lo seguono, da malati che ne invocano la potenza
guaritrice, da interlocutori che ne ascoltano, con vario profitto, le parole.
La narrazione dei Vangeli converge
poi nel mostrare la crescente tensione che si verifica tra Gesù e i gruppi
emergenti della società religiosa del suo tempo, fino alla crisi finale, che ha
il suo drammatico epilogo sul Golgotha. È l'ora delle tenebre, a cui segue una
nuova, radiosa e definitiva aurora. I racconti evangelici si chiudono infatti
mostrando il Nazareno vittorioso sulla morte, ne additano la tomba vuota e lo
seguono nel ciclo delle apparizioni, nelle quali i discepoli, prima perplessi e
attoniti, poi colmi di indicibile gioia, lo sperimentano vivente e radioso, e
da lui ricevono il dono dello Spirito (cfr Gv
20,22) e il mandato di annunciare il Vangelo a « tutte le nazioni » (Mt 28,19).
La via della fede
19. « E i discepoli gioirono al
vedere il Signore » (Gv 20,20). Il
volto che gli Apostoli contemplarono dopo la risurrezione era lo stesso di quel
Gesù col quale avevano vissuto circa tre anni, e che ora li convinceva della
verità strabiliante della sua nuova vita mostrando loro « le mani e il costato
» (ibid.). Certo, non fu facile
credere. I discepoli di Emmaus credettero solo dopo un faticoso itinerario
dello spirito (cfr Lc 24,13-35).
L'apostolo Tommaso credette solo dopo aver constatato il prodigio (cfr Gv 20,24-29). In realtà, per quanto si
vedesse e si toccasse il suo corpo, solo
la fede poteva varcare pienamente il mistero di quel volto. Era, questa,
un'esperienza che i discepoli dovevano aver fatto già nella vita storica di
Cristo, negli interrogativi che affioravano alla loro mente ogni volta che si
sentivano interpellati dai suoi gesti e dalle sue parole. A Gesù non si arriva
davvero che per la via della fede, attraverso un cammino di cui il Vangelo
stesso sembra delinearci le tappe nella ben nota scena di Cesarea di Filippo
(cfr Mt 16,13-20). Ai discepoli,
quasi facendo una sorta di primo bilancio della sua missione, Gesù chiede che
cosa la « gente » pensi di lui, ricevendone come risposta: « Alcuni Giovanni il
Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti » (Mt 16,14). Risposta sicuramente elevata, ma distante ancora — e
quanto! — dalla verità. Il popolo arriva a intravedere la dimensione religiosa
decisamente eccezionale di questo rabbì che
parla in modo così affascinante, ma non riesce a collocarlo oltre quegli uomini
di Dio che hanno scandito la storia di Israele. Gesù, in realtà, è ben altro! È
appunto questo passo ulteriore di conoscenza, che riguarda il livello profondo
della sua persona, quello che Egli si aspetta dai «suoi»: «Voi chi dite che io
sia?» (Mt 16,15). Solo la fede
professata da Pietro, e con lui dalla Chiesa di tutti i tempi, va al cuore,
raggiungendo la profondità del mistero: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio
vivente» (Mt 16,16).
20. Com'era arrivato Pietro a
questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera
sempre più convinta sulle sue orme? Matteo ci dà una indicazione illuminante nelle
parole con cui Gesù accoglie la confessione di Pietro: « Né la carne né il
sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli » (16,17).
L'espressione « carne e sangue » evoca l'uomo e il modo comune di conoscere.
Questo modo comune, nel caso di Gesù, non basta. È necessaria una grazia di «
rivelazione » che viene dal Padre (cfr ibid.).
Luca ci offre un'indicazione che va nella stessa direzione, quando annota che
questo dialogo con i discepoli si svolse « mentre Gesù si trovava in un luogo
appartato a pregare » (Lc 9,18).
Ambedue le indicazioni convergono nel farci prendere coscienza del fatto che
alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole
nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre
l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera,
aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante
nella solenne proclamazione dell'evangelista Giovanni: « E il Verbo si fece
carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria
come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14).
La profondità del mistero
21. Il Verbo e la carne, la gloria
divina e la sua tenda tra gli uomini! È nell'unione
intima e indissociabile di queste due polarità che sta l'identità di
Cristo, secondo la formulazione classica del Concilio di Calcedonia (a. 451): «
una persona in due nature ». La persona è quella, e solo quella, del Verbo
eterno, figlio del Padre. Le due nature, senza confusione alcuna, ma anche
senza alcuna possibile separazione, sono quella divina e quella umana.10
Siamo consapevoli della
limitatezza dei nostri concetti e delle nostre parole. La formula, pur sempre
umana, è tuttavia attentamente calibrata nel suo contenuto dottrinale e ci
consente di affacciarci, in qualche modo, sull'abisso del mistero. Sì, Gesù è
vero Dio e vero uomo! Come l'apostolo Tommaso,
22. « Il Verbo si è fatto carne »
(Gv 1,14). Questa folgorante
presentazione giovannea del mistero di Cristo è confermata da tutto il Nuovo
Testamento. In questa linea si pone anche l'apostolo Paolo quando afferma che
il Figlio di Dio è « nato dalla stirpe di Davide secondo la carne » (Rm 1,3; cfr 9,5). Se oggi, col
razionalismo che serpeggia in tanta parte della cultura contemporanea, è
soprattutto la fede nella divinità di Cristo che fa problema, in altri contesti
storici e culturali ci fu piuttosto la tendenza a sminuire o dissolvere la
concretezza storica dell'umanità di Gesù. Ma per la fede della Chiesa è
essenziale e irrinunciabile affermare che davvero il Verbo « si è fatto carne »
ed ha assunto tutte le dimensioni
dell'umano, tranne il peccato (cfr Eb
4,15). In questa prospettiva, l'Incarnazione è veramente una kenosi, uno « spogliarsi », da parte del
Figlio di Dio, di quella gloria che egli possiede dall'eternità (cfr Fil 2,6-8;
D'altra parte, questo abbassamento
del Figlio di Dio non è fine a se stesso; tende piuttosto alla piena glorificazione
di Cristo, anche nella sua umanità: « Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha
dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni
ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua
proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11).
23. « Il tuo volto, Signore, io
cerco » (Sal 27[26], 8). L'antico
anelito del Salmista non poteva ricevere esaudimento più grande e sorprendente
che nella contemplazione del volto di Cristo. In lui veramente Dio ci ha
benedetti, e ha fatto « splendere il suo volto » sopra di noi (cfr Sal 67[66], 3). Al tempo stesso, Dio e
uomo qual è, egli ci rivela anche il volto autentico dell'uomo, « svela
pienamente l'uomo all'uomo ».11
Gesù è « l'uomo nuovo » (Ef 4,24; cfr Col 3,10) che chiama a partecipare alla sua vita divina l'umanità
redenta. Nel mistero dell'Incarnazione sono poste le basi per un'antropologia
che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi
verso Dio stesso, anzi, verso il traguardo della « divinizzazione », attraverso
l'inserimento in Cristo dell'uomo redento, ammesso all'intimità della vita
trinitaria. Su questa dimensione soteriologica del mistero dell'Incarnazione i
Padri hanno tanto insistito: solo perché il Figlio di Dio è diventato veramente
uomo, l'uomo può, in lui e attraverso di lui, divenire realmente figlio di Dio.12
Volto del Figlio
24. Questa identità divino-umana
emerge con forza dai Vangeli, che ci offrono una serie di elementi grazie ai
quali possiamo introdurci in quella « zona-limite » del mistero, rappresentata
dall'auto-coscienza di Cristo.
Per quanto sia lecito ritenere
che, per la condizione umana che lo faceva crescere « in sapienza, età e grazia
» (Lc 2,52), anche la coscienza umana
del suo mistero progredisse fino all'espressione piena della sua umanità
glorificata, non c'è dubbio che già nella sua esistenza storica Gesù avesse
consapevolezza della sua identità di Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea fino
ad affermare che fu, in definitiva, per questo, che venne respinto e
condannato: cercavano infatti di ucciderlo « perché non soltanto violava il
sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio » (Gv 5,18). Nello scenario del Getsemani e
del Golgotha, la coscienza umana di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura.
Ma nemmeno il dramma della passione e morte riuscirà a intaccare la sua serena
certezza di essere il Figlio del Padre celeste.
Volto dolente
25. La contemplazione del volto di
Cristo ci conduce così ad accostare
l'aspetto più paradossale del suo mistero, quale emerge nell'ora estrema,
l'ora della Croce. Mistero nel mistero, davanti al quale l'essere umano non può
che prostrarsi in adorazione.
Passa davanti al nostro sguardo
l'intensità della scena dell'agonia nell'orto degli Ulivi. Gesù, oppresso dalla
previsione della prova che lo attende, solo davanti a Dio, lo invoca con la sua
abituale e tenera espressione di confidenza: « Abbà, Padre ». Gli chiede di
allontanare da lui, se possibile, il calice della sofferenza (cfr Mc 14,36). Ma il Padre sembra non voler
ascoltare la voce del Figlio. Per riportare all'uomo il volto del Padre, Gesù
ha dovuto non soltanto assumere il volto dell'uomo, ma caricarsi persino del «
volto » del peccato. « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da
peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui
giustizia di Dio » (2 Cor 5,21).
Non finiremo mai di indagare
l'abisso di questo mistero. È tutta l'asprezza di questo paradosso che emerge
nel grido di dolore, apparentemente disperato, che Gesù leva sulla croce: « Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che
significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15,34). È possibile immaginare uno strazio più grande,
un'oscurità più densa? In realtà, l'angoscioso «perché» rivolto al Padre con le parole iniziali del Salmo 22, pur
conservando tutto il realismo di un indicibile dolore, si illumina con il senso
dell'intera preghiera, in cui il Salmista unisce insieme, in un intreccio
toccante di sentimenti, la sofferenza e la confidenza. Continua infatti il
Salmo: « In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati
[...] Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta »
(22[21], 5.12).
26. Il grido di Gesù sulla croce,
carissimi Fratelli e Sorelle, non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la
preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza
di tutti. Mentre si identifica col nostro peccato, « abbandonato » dal Padre,
egli si « abbandona » nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul
Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche
in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e
soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura
fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima
ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce
dell'anima. La tradizione teologica non ha evitato di chiedersi come potesse,
Gesù, vivere insieme l'unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia
e di beatitudine, e l'agonia fino al grido dell'abbandono. La compresenza di
queste due dimensioni apparentemente inconciliabili è in realtà radicata nella
profondità insondabile dell'unione ipostatica.
27. Di fronte a questo mistero,
accanto all'indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande
patrimonio che è la « teologia vissuta »
dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di
accogliere più facilmente l'intuizione della fede, e ciò in forza delle
particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o
persino attraverso l'esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati
terribili di prova che la tradizione mistica descrive come « notte oscura ».
Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa
di simile all'esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di
beatitudine e di dolore. Nel Dialogo
della Divina Provvidenza Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la
gioia insieme alla sofferenza: « E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente
per i peccati del prossimo, beata per l'unione e per l'affetto della carità che
ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello, l'Unigenito
Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente ».13 Allo
stesso modo Teresa di Lisieux vive la
sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il
paradosso di Gesù beato e angosciato: « Nostro Signore nell'orto degli Ulivi
godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua agonia non era meno
crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne
capisco qualcosa ».14 È una testimonianza illuminante! Del resto, la stessa
narrazione degli Evangelisti dà fondamento a questa percezione ecclesiale della
coscienza di Cristo, quando ricorda che, pur nel suo abisso di dolore, egli
muore implorando il perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono filiale:
« Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23,46).
Volto del Risorto
28. Come nel Venerdì e nel Sabato
Santo,
È a Cristo risorto che ormai
A duemila anni di distanza da
questi eventi,
III
RIPARTIRE DA CRISTO
29. « Ecco, io sono con voi tutti
i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20).
Questa certezza, carissimi Fratelli e Sorelle, ha accompagnato
Ci interroghiamo con fiducioso
ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi. Non ci seduce certo la
prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa
esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e
la certezza che essa ci infonde: Io sono
con voi!
Non si tratta, allora, di
inventare un « nuovo programma ». Il programma c'è già: è quello di sempre,
raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima
analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la
vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella
Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e
delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo
vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per
il terzo millennio.
È necessario tuttavia che esso si
traduca in orientamenti pastorali adatti
alle condizioni di ciascuna comunità. Il Giubileo ci ha offerto
l'opportunità straordinaria di impegnarci, per alcuni anni, in un cammino
unitario di tutta
Esorto, perciò, vivamente i
Pastori delle Chiese particolari, aiutati dalla partecipazione delle diverse
componenti del Popolo di Dio, a delineare con fiducia le tappe del cammino
futuro, sintonizzando le scelte di ciascuna Comunità diocesana con quelle delle
Chiese limitrofe e con quelle della Chiesa universale.
Tale sintonia sarà certamente
facilitata dal lavoro collegiale, ormai divenuto abituale, che viene svolto dai
Vescovi nelle Conferenze episcopali e nei Sinodi. Non è forse stato questo
anche il senso delle Assemblee continentali del Sinodo dei Vescovi, che hanno
scandito la preparazione al Giubileo, elaborando linee significative per
l'odierno annuncio del Vangelo nei molteplici contesti e nelle diverse culture?
Questo ricco patrimonio di riflessione non deve essere lasciato cadere, ma reso
concretamente operativo.
È dunque un'entusiasmante opera di
ripresa pastorale che ci attende. Un'opera che ci coinvolge tutti. Desidero
tuttavia additare, a comune edificazione ed orientamento, alcune priorità pastorali, che l'esperienza stessa del Grande
Giubileo ha fatto emergere con particolare forza al mio sguardo.
La santità
30. E in primo luogo non esito a
dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella
della santità. Non era forse questo
il senso ultimo dell'indulgenza giubilare, quale grazia speciale offerta da
Cristo perché la vita di ciascun battezzato potesse purificarsi e rinnovarsi
profondamente?
Mi auguro che, tra coloro che
hanno partecipato al Giubileo, siano stati tanti a godere di tale grazia, con
piena coscienza del suo carattere esigente. Finito il Giubileo, ricomincia il
cammino ordinario, ma additare la santità resta più che mai un'urgenza della
pastorale.
Occorre allora riscoprire, in
tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della Costituzione dogmatica
sulla Chiesa Lumen gentium, dedicato
alla « vocazione universale alla santità ». Se i Padri conciliari diedero a
questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco
spirituale all'ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica
intrinseca e qualificante. La riscoperta della Chiesa come « mistero », ossia
come popolo « adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito »,15 non
poteva non comportare anche la riscoperta della sua « santità », intesa nel senso
fondamentale dell'appartenenza a Colui che è per antonomasia il Santo, il « tre
volte Santo » (cfr Is 6,3).
Professare
Ma il dono si traduce a sua volta
in un compito, che deve governare l'intera esistenza cristiana: «Questa è la
volontà di Dio, la vostra santificazione» (1
Ts 4,3). È un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: «Tutti i
fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita
cristiana e alla perfezione della carità».16
31. Ricordare questa elementare
verità, ponendola a fondamento della programmazione pastorale che ci vede
impegnati all'inizio del nuovo millennio, potrebbe sembrare, di primo acchito,
qualcosa di scarsamente operativo. Si può forse « programmare » la santità? Che
cosa può significare questa parola, nella logica di un piano pastorale?
In realtà, porre la programmazione
pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze.
Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso
nella santità di Dio attraverso l'inserimento in Cristo e l'inabitazione del
suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta
all'insegna di un'etica minimalistica e di una religiosità superficiale.
Chiedere a un catecumeno: « Vuoi ricevere il Battesimo? » significa al tempo
stesso chiedergli: « Vuoi diventare santo? ». Significa porre sulla sua strada
il radicalismo del discorso della Montagna: « Siate perfetti come è perfetto il
Padre vostro celeste » (Mt 5,48).
Come il Concilio stesso ha
spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una
sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni « geni » della santità.
Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno.
Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi
anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle
condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con
convinzione questa « misura alta » della
vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle
famiglie cristiane deve portare in questa direzione. È però anche evidente che
i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace
di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze
della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e
di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti
riconosciuti dalla Chiesa.
La preghiera
32. Per questa pedagogia della
santità c'è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell'arte della preghiera. L'Anno giubilare è
stato un anno di più intensa preghiera, personale e comunitaria. Ma sappiamo
bene che anche la preghiera non va data per scontata. È necessario imparare a
pregare, quasi apprendendo sempre nuovamente quest'arte dalle labbra stesse del
Maestro divino, come i primi discepoli: « Signore, insegnaci a pregare! » (Lc 11,1). Nella preghiera si sviluppa
quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: « Rimanete in me e io in voi
» (Gv 15,4). Questa reciprocità è la
sostanza stessa, l'anima della vita cristiana ed è condizione di ogni autentica
vita pastorale. Realizzata in noi dallo Spirito Santo, essa ci apre, attraverso
Cristo ed in Cristo, alla contemplazione del volto del Padre. Imparare questa
logica trinitaria della preghiera cristiana, vivendola pienamente innanzitutto
nella liturgia, culmine e fonte della vita ecclesiale,17 ma anche
nell'esperienza personale, è il segreto di un cristianesimo veramente vitale,
che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti
e in esse si rigenera.
33. E non è forse un « segno dei
tempi » che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di
secolarizzazione, una diffusa esigenza di
spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera? Anche le altre religioni, ormai
ampiamente presenti nei Paesi di antica cristianizzazione, offrono le proprie
risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi
che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e Salvatore
del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il
rapporto con lui.
La grande tradizione mistica della
Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, può dire molto a tal proposito. Essa
mostra come la preghiera possa progredire, quale vero e proprio dialogo
d'amore, fino a rendere la persona umana totalmente posseduta dall'Amato
divino, vibrante al tocco dello Spirito, filialmente abbandonata nel cuore del
Padre. Si fa allora l'esperienza viva della promessa di Cristo: « Chi mi ama
sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Gv 14,21). Si tratta di un cammino
interamente sostenuto dalla grazia, che chiede tuttavia forte impegno
spirituale e conosce anche dolorose purificazioni (la « notte oscura »), ma
approda, in diverse forme possibili, all'indicibile gioia vissuta dai mistici
come « unione sponsale ». Come dimenticare qui, tra tante luminose testimonianze,
la dottrina di san Giovanni della Croce e di santa Teresa d'Avila?
Sì, carissimi Fratelli e Sorelle,
le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche « scuole » di preghiera, dove l'incontro con Cristo non
si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie,
lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero «
invaghimento » del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non
distoglie dall'impegno nella storia: aprendo il cuore all'amore di Dio, lo apre
anche all'amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il
disegno di Dio.18
34. Certo alla preghiera sono in
particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una
vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più
disponibili all'esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino
con generoso impegno. Ma ci si sbaglierebbe a pensare che i comuni cristiani si
possano accontentare di una preghiera superficiale, incapace di riempire la
loro vita. Specie di fronte alle numerose prove che il mondo d'oggi pone alla
fede, essi sarebbero non solo cristiani mediocri, ma « cristiani a rischio ».
Correrebbero, infatti, il rischio insidioso di veder progressivamente
affievolita la loro fede, e magari finirebbero per cedere al fascino di «
surrogati », accogliendo proposte religiose alternative e indulgendo persino
alle forme stravaganti della superstizione.
Occorre allora che l'educazione alla preghiera diventi in
qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale. Io stesso
mi sono orientato a dedicare le prossime catechesi del mercoledì alla riflessione sui Salmi, cominciando da
quelli delle Lodi, con cui la preghiera pubblica della Chiesa ci invita a
consacrare e orientare le nostre giornate. Quanto gioverebbe che non solo nelle
comunità religiose, ma anche in quelle parrocchiali, ci si adoperasse
maggiormente perché tutto il clima fosse pervaso di preghiera. Occorrerebbe
valorizzare, col debito discernimento, le forme popolari, e soprattutto educare
a quelle liturgiche. Una giornata della comunità cristiana, in cui si
coniughino insieme i molteplici impegni pastorali e di testimonianza nel mondo
con la celebrazione eucaristica e magari con la recita di Lodi e Vespri, è
forse più « pensabile » di quanto ordinariamente non si creda. L'esperienza di
tanti gruppi cristianamente impegnati, anche a forte componente laicale, lo
dimostra.
L'Eucaristia domenicale
35. Il massimo impegno va posto
dunque nella liturgia, « il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e,
insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù ».19 Nel
secolo XX, specie dal Concilio in poi, molto è cresciuta la comunità cristiana
nel modo di celebrare i Sacramenti e soprattutto l'Eucaristia. Occorre
insistere in questa direzione, dando particolare rilievo all'Eucaristia domenicale e alla stessa domenica, sentita come giorno speciale
della fede, giorno del Signore risorto e del dono dello Spirito, vera Pasqua
della settimana.20 Da duemila anni, il tempo cristiano è scandito dalla memoria di
quel « primo giorno dopo il sabato » (Mc 16,2.9;
Lc 24,1; Gv 20,1), in cui Cristo risorto portò agli Apostoli il dono della
pace e dello Spirito (cfr Gv 20,19-23).
La verità della risurrezione di Cristo è il dato originario su cui poggia la
fede cristiana (cfr 1 Cor 15,14),
evento che si colloca al centro del
mistero del tempo, e prefigura l'ultimo giorno, quando Cristo ritornerà
glorioso. Non sappiamo quali eventi ci riserverà il millennio che sta
iniziando, ma abbiamo la certezza che esso resterà saldamente nelle mani di
Cristo, il « Re dei re e Signore dei signori » (Ap 19,16), e proprio celebrando la sua Pasqua, non solo una volta
all'anno, ma ogni domenica,
36. Vorrei pertanto insistere, nel
solco della Dies Domini, perché la partecipazione all'Eucaristia sia
veramente, per ogni battezzato, il cuore
della domenica: un impegno irrinunciabile, da vivere non solo per assolvere
a un precetto, ma come bisogno di una vita cristiana veramente consapevole e
coerente. Stiamo entrando in un millennio che si prefigura caratterizzato da un
profondo intreccio di culture e religioni anche nei Paesi di antica
cristianizzazione. In molte regioni i cristiani sono, o stanno diventando, un «
piccolo gregge » (Lc 12,32). Ciò li
pone di fronte alla sfida di testimoniare con maggior forza, spesso in
condizione di solitudine e di difficoltà, gli aspetti specifici della propria
identità. Il dovere della partecipazione eucaristica ogni domenica è uno di
questi. L'Eucaristia domenicale, raccogliendo settimanalmente i cristiani come
famiglia di Dio intorno alla mensa della Parola e del Pane di vita, è anche
l'antidoto più naturale alla dispersione. Essa è il luogo privilegiato dove la
comunione è costantemente annunciata e coltivata. Proprio attraverso la
partecipazione eucaristica, il giorno del
Signore diventa anche il giorno della
Chiesa,22 che può svolgere così in modo efficace il suo ruolo di
sacramento di unità.
Il sacramento della
Riconciliazione
37. Un rinnovato coraggio
pastorale vengo poi a chiedere perché la quotidiana pedagogia delle comunità
cristiane sappia proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione. Come
ricorderete, nel 1984 intervenni su questo tema con l'Esortazione post-sinodale
Reconciliatio et paenitentia, che
raccoglieva i frutti di riflessione di un'Assemblea del Sinodo dei Vescovi
dedicata a questa problematica. Invitavo allora a fare ogni sforzo per
fronteggiare la crisi del « senso del peccato » che si registra nella cultura
contemporanea,23 ma più ancora invitavo a far riscoprire Cristo come mysterium pietatis, colui nel quale Dio
ci mostra il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé. È
questo volto di Cristo che occorre far riscoprire anche attraverso il
sacramento della Penitenza, che è per un cristiano « la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi
peccati gravi commessi dopo il Battesimo ».24 Quando il
menzionato Sinodo affrontò il problema, stava sotto gli occhi di tutti la crisi
del Sacramento, specialmente in alcune regioni del mondo. I motivi che ne erano
all'origine non sono svaniti in questo breve arco di tempo. Ma l'Anno
giubilare, che è stato particolarmente caratterizzato dal ricorso alla
Penitenza sacramentale, ci ha offerto un messaggio incoraggiante, da non
lasciar cadere: se molti, e tra essi anche tanti giovani, si sono accostati con
frutto a questo Sacramento, probabilmente è necessario che i Pastori si armino
di maggior fiducia, creatività e perseveranza nel presentarlo e farlo
valorizzare. Non dobbiamo arrenderci, carissimi Fratelli nel sacerdozio, di
fronte a crisi temporanee! I doni del Signore — e i Sacramenti sono tra i più
preziosi — vengono da Colui che ben conosce il cuore dell'uomo ed è il Signore
della storia.
Il primato della grazia
38. Impegnarci con maggior
fiducia, nella programmazione che ci attende, ad una pastorale che dia tutto il
suo spazio alla preghiera, personale e comunitaria, significa rispettare un
principio essenziale della visione cristiana della vita: il primato della grazia. C'è una tentazione che da sempre insidia
ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale: quella di pensare che i
risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo,
Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita ad
investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di
intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che « senza Cristo non
possiamo far nulla » (cfr Gv 15,5).
La preghiera ci fa vivere appunto
in questa verità. Essa ci ricorda costantemente il primato di Cristo e, in
rapporto a lui, il primato della vita interiore e della santità. Quando questo
principio non è rispettato, c'è da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno
incontro al fallimento e lasciano nell'animo un avvilente senso di
frustrazione? Facciamo allora l'esperienza dei discepoli nell'episodio
evangelico della pesca miracolosa: « Abbiamo faticato tutta la notte e non
abbiamo preso nulla » (Lc 5,5). È
quello il momento della fede, della preghiera, del dialogo con Dio, per aprire
il cuore all'onda della grazia e consentire alla parola di Cristo di passare
attraverso di noi con tutta la sua potenza: Duc
in altum! Fu Pietro, in quella pesca, a dire la parola della fede: « Sulla
tua parola getterò le reti » (ibid.).
Consentite al Successore di Pietro, in questo inizio di millennio, di invitare
tutta
Ascolto della Parola
39. Non c'è dubbio che questo
primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un
rinnovato ascolto della parola di Dio.
Da quando il Concilio Vaticano II ha sottolineato il ruolo preminente della
parola di Dio nella vita della Chiesa, certamente sono stati fatti grandi passi
in avanti nell'ascolto assiduo e nella lettura attenta della Sacra Scrittura.
Ad essa si è assicurato l'onore che merita nella preghiera pubblica della
Chiesa. Ad essa i singoli e le comunità ricorrono ormai in larga misura, e tra
gli stessi laici sono tanti che vi si dedicano anche con l'aiuto prezioso di
studi teologici e biblici. Soprattutto poi è l'opera dell'evangelizzazione e
della catechesi che si sta rivitalizzando proprio nell'attenzione alla parola
di Dio. Occorre, carissimi Fratelli e Sorelle, consolidare e approfondire
questa linea, anche mediante la diffusione nelle famiglie del libro della
Bibbia. In particolare è necessario che l'ascolto della Parola diventi un
incontro vitale, nell'antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo
biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l'esistenza.
Annuncio della Parola
40. Nutrirci della Parola, per
essere « servi della Parola » nell'impegno dell'evangelizzazione: questa è
sicuramente una priorità per
Questa passione non mancherà di
suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata
ad una porzione di « specialisti », ma dovrà coinvolgere la responsabilità di
tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può
tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia
vissuto quale impegno quotidiano delle
comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto
al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell'attenzione per le
diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli
specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati
alla loro pienezza.
Il cristianesimo del terzo
millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione. Restando pienamente se stesso, nella
totale fedeltà all'annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso
porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto
e radicato. Della bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa abbiamo
particolarmente goduto nell'Anno giubilare. È forse solo un inizio, un'icona
appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara.
La proposta di Cristo va fatta a
tutti con fiducia. Ci si rivolgerà agli adulti, alle famiglie, ai giovani, ai
bambini, senza mai nascondere le esigenze più radicali del messaggio
evangelico, ma venendo incontro alle esigenze di ciascuno quanto a sensibilità
e linguaggio, secondo l'esempio di Paolo, il quale affermava: « Mi sono fatto
tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno » (1 Cor 9,22). Nel raccomandare tutto questo, penso in particolare
alla pastorale giovanile. Proprio per
quanto riguarda i giovani, come poc'anzi ho ricordato, il Giubileo ci ha
offerto una testimonianza di generosa disponibilità. Dobbiamo saper valorizzare
quella risposta consolante, investendo quell'entusiasmo come un nuovo « talento
» (cfr Mt 25,15) che il Signore ci ha
messo nelle mani perché lo facciamo fruttificare.
41. Ci sostenga ed orienti, in
questa « missionarietà » fiduciosa, intraprendente, creativa, l'esempio fulgido
dei tanti testimoni della fede che il Giubileo ci ha fatto rievocare.
IV
TESTIMONI DELL'AMORE
42. « Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). Se abbiamo veramente
contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra
programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al « comandamento nuovo » che
egli ci ha dato: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli
altri» (Gv 13,34).
È l'altro grande ambito in cui
occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa
universale e di Chiese particolari: quello
della comunione (koinonìa) che
incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è
il frutto e la manifestazione di quell'amore che, sgorgando dal cuore
dell'eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona
(cfr Rm 5,5), per fare di tutti noi «
un cuore solo e un'anima sola » (At 4,32).
È realizzando questa comunione di amore che
Le parole del Signore, a questo
proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose,
anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa;
ma se mancherà la carità (agape),
tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell'inno alla carità: se anche parlassimo le
lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede « da trasportare le
montagne », ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe « nulla » (cfr 1 Cor 13,2). La carità è davvero il «
cuore » della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho
voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: «Capii che
Una spiritualità di comunione
43. Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione:
ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo
essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del
mondo.
Che cosa significa questo in
concreto? Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma
sarebbe sbagliato assecondare simile impulso. Prima di programmare iniziative
concrete occorre promuovere una
spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo
in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i
ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si
costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa
innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in
noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto.
Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello
di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come « uno che mi
appartiene », per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per
intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una
vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di
vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e
valorizzarlo come dono di Dio: un « dono per me », oltre che per il fratello
che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper «
fare spazio » al fratello, portando « i pesi gli uni degli altri » (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni
egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo,
diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino
spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione.
Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di
espressione e di crescita.
44. Su questa base, il nuovo
secolo dovrà vederci impegnati più che mai a valorizzare e sviluppare quegli
ambiti e strumenti che, secondo le grandi direttive del Concilio Vaticano II,
servono ad assicurare e garantire la comunione. Come non pensare, innanzitutto,
a quegli specifici servizi alla comunione
che sono il ministero petrino, e,
in stretta relazione con esso, la
collegialità episcopale? Si tratta di realtà che hanno il loro fondamento e
la loro consistenza nel disegno stesso di Cristo sulla Chiesa,28 ma
proprio per questo bisognose di una continua verifica che ne assicuri
l'autentica ispirazione evangelica.
Molto si è fatto dal Concilio
Vaticano II in poi anche per quanto riguarda la riforma della Curia romana,
l'organizzazione dei Sinodi, il funzionamento delle Conferenze episcopali. Ma
certamente molto resta da fare, per esprimere al meglio le potenzialità di
questi strumenti della comunione, oggi particolarmente necessari di fronte
all'esigenza di rispondere con prontezza ed efficacia ai problemi che
45. Gli spazi della comunione
vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto
della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra
Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio, tra clero e
religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali. A tale scopo devono essere
sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto
canonico, come i Consigli presbiterali e
pastorali. Essi, com'è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia
parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa;29 non per
questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza. La teologia e la
spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace
ascolto tra Pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall'altro,
a convergere normalmente anche nell'opinabile verso scelte ponderate e
condivise.
Occorre a questo scopo far nostra
l'antica sapienza che, senza portare alcun pregiudizio al ruolo autorevole dei
Pastori, sapeva incoraggiarli al più ampio ascolto di tutto il Popolo di Dio.
Significativo ciò che san Benedetto ricorda all'Abate del monastero,
nell'invitarlo a consultare anche i più giovani: « Spesso ad uno più giovane il
Signore ispira un parere migliore ».30 E san
Paolino di Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni
fedele soffia lo Spirito di Dio».31
Se dunque la saggezza giuridica,
ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica
della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la
spiritualità della comunione conferisce un'anima al dato istituzionale con un'indicazione
di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità
di ogni membro del Popolo di Dio.
La varietà delle vocazioni
46. Questa prospettiva di
comunione è strettamente legata alla capacità della comunità cristiana di fare
spazio a tutti i doni dello Spirito. L'unità della Chiesa non è uniformità, ma
integrazione organica delle legittime diversità. È la realtà di molte membra
congiunte in un corpo solo, l'unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12,12). È necessario perciò che
Certamente un impegno generoso va
posto — soprattutto con la preghiera insistente al padrone della messe (cfr Mt 9,38) — per la promozione delle vocazioni al sacerdozio e di quelle di speciale
consacrazione. È questo un problema di grande rilevanza per la vita della
Chiesa in ogni parte del mondo. In certi Paesi di antica evangelizzazione, poi,
esso si è fatto addirittura drammatico a motivo del mutato contesto sociale e
dell'inaridimento religioso indotto dal consumismo e dal secolarismo. È
necessario ed urgente impostare una vasta e capillare pastorale delle vocazioni, che raggiunga le parrocchie, i centri
educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori
essenziali della vita, che trovano la loro sintesi risolutiva nella risposta
che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa
sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del
Regno.
In questo contesto prende tutto il
suo rilievo anche ogni altra vocazione, radicata in definitiva nella ricchezza
della vita nuova ricevuta nel sacramento del Battesimo. In particolare, sarà da
scoprire sempre meglio la vocazione che è
propria dei laici, chiamati come tali a « cercare il regno di Dio trattando
le cose temporali e ordinandole secondo Dio »32 ed anche
a svolgere « i compiti propri nella Chiesa e nel mondo [...] con la loro azione
per l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini ».33
In questa stessa linea, grande
importanza per la comunione riveste il dovere di promuovere le varie realtà aggregative, che sia nelle forme più
tradizionali, sia in quelle più nuove dei movimenti ecclesiali, continuano a
dare alla Chiesa una vivacità che è dono di Dio e costituisce un'autentica «
primavera dello Spirito ». Occorre certo che associazioni e movimenti, tanto
nella Chiesa universale quanto nelle Chiese particolari, operino nella piena
sintonia ecclesiale e in obbedienza alle direttive autorevoli dei Pastori. Ma
torna anche per tutti, esigente e perentorio, il monito dell'Apostolo: «Non
spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete
ciò che è buono» (1 Ts 5,19-21).
47. Un'attenzione speciale, poi,
deve essere assicurata alla pastorale
della famiglia, tanto più necessaria in un momento storico come il
presente, che sta registrando una crisi diffusa e radicale di questa
fondamentale istituzione. Nella visione cristiana del matrimonio, la relazione
tra un uomo e una donna — relazione reciproca e totale, unica e indissolubile —
risponde al disegno originario di Dio, offuscato nella storia dalla « durezza
del cuore », ma che Cristo è venuto a restaurare nel suo splendore originario,
svelando ciò che Dio ha voluto fin « dal principio » (Mt 19,8). Nel matrimonio, elevato alla dignità di Sacramento, è
espresso poi il « grande mistero » dell'amore sponsale di Cristo per la sua
Chiesa (cfr Ef 5,32).
Su questo punto,
L'impegno ecumenico
48. E che dire poi dell'urgenza di
promuovere la comunione nel delicato ambito dell'impegno ecumenico? Purtroppo, le tristi eredità del passato ci
seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio. La celebrazione giubilare
ha registrato qualche segnale davvero profetico e commovente, ma ancora tanto
cammino rimane da fare.
In realtà, facendoci fissare lo
sguardo su Cristo, il Grande Giubileo ci ha fatto prendere più viva coscienza
della Chiesa come mistero di unità. « Credo
La preghiera di Cristo ci ricorda
che questo dono ha bisogno di essere accolto e sviluppato in maniera sempre più
profonda. L'invocazione « ut unum sint
» è, insieme, imperativo che ci obbliga, forza che ci sostiene, salutare
rimprovero per le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore. È sulla preghiera di
Gesù, non sulle nostre capacità, che poggia la fiducia di poter raggiungere
anche nella storia, la comunione piena e visibile di tutti i cristiani.
In questa prospettiva di rinnovato
cammino post-giubilare, guardo con grande speranza alle Chiese dell'Oriente, auspicando che riprenda pienamente quello
scambio di doni che ha arricchito
Con analogo impegno dev'essere
coltivato il dialogo ecumenico con i fratelli e le sorelle della Comunione anglicana e delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.
Il confronto teologico su punti essenziali della fede e della morale cristiana,
la collaborazione nella carità e, soprattutto, il grande ecumenismo della
santità, con l'aiuto di Dio non potranno nel futuro non produrre i loro frutti.
Intanto proseguiamo con fiducia nel cammino, sospirando il momento in cui, con
tutti i discepoli di Cristo, senza eccezione, potremo cantare insieme a voce spiegata:
« Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme » (Sal 133[132],1).
Scommettere sulla carità
49. Dalla comunione
intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universale,
proiettandoci nell'impegno di un amore
operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che
qualifica in modo ugualmente decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e
la programmazione pastorale. Il secolo e il millennio che si avviano dovranno
ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale
grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo
ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere
soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto
identificarsi: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi
avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete
vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi » (Mt 25,35-36). Questa pagina non è un
semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un
fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul
versante dell'ortodossia,
Certo, non va dimenticato che
nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che « con
l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo ».35 Ma stando
alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c'è una sua
presenza speciale, che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale per loro.
Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell'amore di Dio, la sua
provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella
storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena
venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e
materiali.
Lo scenario della povertà può
allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che
investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse
economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all'insidia della
droga, all'abbandono nell'età avanzata o nella malattia, all'emarginazione o
alla discriminazione sociale. Il cristiano, che si affaccia su questo scenario,
deve imparare a fare il suo atto di fede in Cristo decifrandone l'appello che
egli manda da questo mondo della povertà. Si tratta di continuare una
tradizione di carità che ha avuto già nei due passati millenni tantissime
espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore inventiva. È l'ora di
una nuova « fantasia della carità », che si dispieghi non tanto e non solo
nell'efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini,
solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo
umiliante, ma come fraterna condivisione.
Dobbiamo per questo fare in modo
che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come « a casa loro ». Non
sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona
novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso
la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l'annuncio del Vangelo,
che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel
mare di parole a cui l'odierna società della comunicazione quotidianamente ci
espone. La carità delle opere assicura
una forza inequivocabile alla carità delle parole.
Le sfide odierne
51. E come poi tenerci in disparte
di fronte alle prospettive di un dissesto
ecologico, che rende inospitali e nemiche dell'uomo vaste aree del pianeta?
O rispetto ai problemi della pace,
spesso minacciata con l'incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di
tante persone, specialmente dei bambini? Tante sono le urgenze, alle quali
l'animo cristiano non può restare insensibile.
Un impegno speciale deve
riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono spesso meno
compresi, fino a rendere impopolare l'intervento della Chiesa, ma che non
possono per questo essere meno presenti nell'agenda ecclesiale della carità. Mi
riferisco al dovere di impegnarsi per il
rispetto della vita di ciascun essere umano dal concepimento fino al suo
naturale tramonto. Allo stesso modo, il servizio all'uomo ci impone di gridare,
opportunamente e importunamente, che quanti s'avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie
sul terreno delle biotecnologie, non possono mai disattendere le esigenze
fondamentali dell'etica, appellandosi magari ad una discutibile solidarietà,
che finisce per discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria
di ogni essere umano.
Per l'efficacia della
testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è
importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della
posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre
ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i
valori radicati nella natura stessa dell'essere umano. La carità si farà allora
necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all'economia, alla
famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai
quali dipende il destino dell'essere umano e il futuro della civiltà.
52. Tutto questo ovviamente dovrà
essere realizzato con uno stile specificamente cristiano: saranno soprattutto i laici a rendersi presenti in questi
compiti in adempimento della vocazione loro propria, senza mai cedere alla
tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali. In particolare,
il rapporto con la società civile dovrà configurarsi in modo da rispettare
l'autonomia e le competenze di quest'ultima, secondo gli insegnamenti proposti
dalla dottrina sociale della Chiesa.
È noto lo sforzo che il Magistero
ecclesiale ha compiuto, soprattutto nel secolo XX, per leggere la realtà
sociale alla luce del Vangelo ed offrire in modo sempre più puntuale ed
organico il proprio contributo alla soluzione della questione sociale, divenuta
ormai una questione planetaria.
Questo versante etico-sociale si
propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve
respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica,
che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica
dell'Incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del
cristianesimo. Se quest'ultima ci rende consapevoli del carattere relativo
della storia, ciò non vale a disimpegnarci in alcun modo dal dovere di
costruirla. Rimane più che mai attuale, a tal proposito, l'insegnamento del
Concilio Vaticano II: « Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli
uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a
disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò
con un obbligo ancora più stringente ».36
Un segno concreto
53. Per dare un segno di questo
indirizzo di carità e di promozione umana, che si radica nelle intime esigenze
del Vangelo, ho voluto che lo stesso Anno giubilare, tra i numerosi frutti di
carità che già ha prodotto nel corso del suo svolgimento — penso, in
particolare, all'aiuto offerto a tanti fratelli più poveri per consentir loro
di prendere parte al Giubileo — lasciasse anche un'opera che costituisse, in qualche modo, il frutto e il sigillo della carità giubilare. Molti pellegrini,
infatti, hanno in diversi modi versato il loro obolo e, insieme con loro, anche
molti protagonisti dell'attività economica hanno offerto sostegni generosi, che
sono serviti ad assicurare una conveniente realizzazione dell'evento giubilare.
Saldati i conti delle spese che è stato necessario affrontare nel corso
dell'anno, il denaro che si sarà potuto risparmiare dovrà essere destinato a
finalità caritative. È importante infatti che da un evento religioso tanto
significativo sia allontanata ogni parvenza di speculazione economica. Ciò che
sopravanzerà servirà a ripetere anche in questa circostanza l'esperienza
vissuta tante altre volte nel corso della storia da quando, agli inizi della
Chiesa, la comunità di Gerusalemme offrì ai non cristiani lo spettacolo
commovente di uno spontaneo scambio di doni, fino alla comunione dei beni, a
favore dei più poveri (cfr At 2,44-45).
L'opera che verrà realizzata sarà
soltanto un piccolo rivolo che confluirà nel grande fiume della carità
cristiana che percorre la storia. Piccolo, ma significativo rivolo: il Giubileo
ha spinto il mondo a guardare verso Roma,
Dialogo e missione
54. Un nuovo secolo, un nuovo
millennio si aprono nella luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce.
Noi abbiamo il compito stupendo ed esigente di esserne il « riflesso ». È il mysterium lunae così caro alla
contemplazione dei Padri, i quali indicavano con tale immagine la dipendenza
della Chiesa da Cristo, Sole di cui essa riflette la luce.38 Era un
modo per esprimere quanto Cristo stesso dice, presentandosi come « luce del
mondo » (Gv 8,12) e chiedendo insieme
ai suoi discepoli di essere « la luce del mondo » (Mt 5,14).
È un compito, questo, che ci fa
trepidare, se guardiamo alla debolezza che ci rende tanto spesso opachi e pieni
di ombre. Ma è compito possibile, se esponendoci alla luce di Cristo, sappiamo
aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi.
55. È in quest'ottica che si pone
anche la grande sfida del dialogo
interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati, nella
linea indicata dal Concilio Vaticano II.39 Negli
anni che hanno preparato il Grande Giubileo
56. Ma il dialogo non può essere
fondato sull'indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di
svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cfr
Questo principio è alla base non
solo dell'inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma
anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non
raramente lo Spirito di Dio, che « soffia dove vuole » (Gv 3,8), suscita nell'esperienza umana universale, nonostante le
sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi
discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono
portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il
Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i « segni dei tempi? ».41 Pur
attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i « veri segni della
presenza o del disegno di Dio »,42
Nella luce del Concilio
57. Quanta ricchezza, carissimi
Fratelli e Sorelle, negli orientamenti che il Concilio Vaticano II ci ha dato!
Per questo, in preparazione al Grande Giubileo, ho chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla ricezione del Concilio.44 È stato
fatto? Il Convegno che si è tenuto qui in Vaticano è stato un momento di questa
riflessione, e mi auguro che altrettanto si sia fatto, in diversi modi, in
tutte le Chiese particolari. A mano a mano che passano gli anni, quei testi non perdono il loro valore né il
loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata,
che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del
Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa. A Giubileo concluso sento
più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui
CONCLUSIONE
DUC IN
ALTUM!
58. Andiamo avanti con speranza!
Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui
avventurarsi, contando sull'aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio, che si è incarnato
duemila anni or sono per amore dell'uomo, compie anche oggi la sua opera:
dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per
diventarne noi stessi strumenti. Non è stato forse per riprendere contatto con
questa fonte viva della nostra speranza, che abbiamo celebrato l'Anno
giubilare? Ora il Cristo contemplato e amato ci invita ancora una volta a
metterci in cammino: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo » (Mt 28,19). Il mandato missionario ci
introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio
dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso
Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla
speranza « che non delude » (Rm 5,5).
Il nostro passo, all'inizio di
questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del
mondo. Le vie sulle quali ciascuno di noi, e ciascuna delle nostre Chiese,
cammina, sono tante, ma non v'è distanza tra coloro che sono stretti insieme
dall'unica comunione, la comunione che ogni giorno si alimenta alla mensa del
Pane eucaristico e della Parola di vita. Ogni domenica il Cristo risorto ci
ridà come un appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del «primo giorno dopo il
sabato» (Gv 20,19) si presentò ai
suoi per « alitare » su di loro il dono vivificante dello Spirito e iniziarli
alla grande avventura dell'evangelizzazione.
Ci accompagna in questo cammino
59. Carissimi Fratelli e Sorelle!
Il simbolo della Porta Santa si chiude alle nostre spalle, ma per lasciare più
spalancata che mai la porta viva che è Cristo. Non è a un grigio quotidiano che
noi torniamo, dopo l'entusiasmo giubilare. Al contrario, se autentico è stato
il nostro pellegrinaggio, esso ha come sgranchito le nostre gambe per il
cammino che ci attende. Dobbiamo imitare lo slancio dell'apostolo Paolo: «
Proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci
chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil
3,13-14). Dobbiamo imitare insieme la contemplazione di Maria, che, dopo il
pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme, ritornava nella casa di
Nazareth meditando nel suo cuore il mistero del Figlio (cfr Lc 2,51).
Gesù risorto, che si accompagna a
noi sulle nostre strade, lasciandosi riconoscere, come dai discepoli di Emmaus
« nello spezzare il pane » (Lc 24,35),
ci trovi vigili e pronti per riconoscere il suo volto e correre dai nostri
fratelli a portare il grande annuncio: “Abbiamo visto il Signore! “ (Gv 20,25).
È questo il frutto tanto auspicato
del Giubileo dell'Anno Duemila, il Giubileo che ha riproposto al vivo ai nostri
occhi il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio e Redentore dell'uomo.
Mentre esso si conclude e ci apre a un futuro di speranza, salga al Padre,
attraverso Cristo, nello Spirito Santo, la lode e il ringraziamento di tutta
Con questo auspicio invio a tutti
dal profondo del cuore la mia Benedizione.
Dal Vaticano, il 6 gennaio, Solennità
dell'Epifania del Signore, dell'anno 2001, ventitreesimo di Pontificato.
___________________________________________________________________
NOTE
(1) Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ufficio pastorale dei
Vescovi Christus Dominus, 11.
(2) Bolla Incarnationis
mysterium (29 novembre 1998), 3: AAS 91
(1999), 132.
(3) Ibid., 4: l.c., 133.
(4) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 8.
(5) De civ. Dei XVIII,
51,2: PL 41,614; cfr Conc. Ecum. Vat.
II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen
gentium, 8.
(6) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 55: AAS 87 (1995), 38.
(7) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1.
(8) « Ignoratio enim Scripturarum ignoratio Christi est »: Comm. in Is., Prol.: PL 24,17.
(9) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina
rivelazione Dei Verbum, 19.
(10) « Seguendo i santi Padri, all'unanimità, noi insegniamo a
confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto
nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo [...] uno
e medesimo Cristo Signore unigenito, da riconoscersi in due nature, senza
confusione, immutabili, indivise, inseparabili [...] egli non è diviso o separato
in due persone, ma è un unico e medesimo figlio, unigenito, Dio, Verbo e
Signore Gesù Cristo »: DS 301-302.
(11) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 22.
(12) Osserva a tal proposito sant'Atanasio: « L'uomo non poteva
essere divinizzato rimanendo unito a una creatura, se il Figlio non fosse vero
Dio », Discorso II contro gli Ariani 70:
PG 26, 425 B –
(13) N. 78.
(14) Ultimi Colloqui.
Quaderno giallo, 6 luglio 1897: Opere
complete, Città del Vaticano 1997, 1003.
(15) S. Cipriano, De Orat.
Dom. 23: PL 4, 553; cfr Lumen gentium, 4.
(16) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 40.
(17) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 10.
(18) Cfr Congr. per
(19) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 10.
(20) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Dies Domini (31 maggio 1998), 19: AAS 90 (1998), 724.
(21) Ibid., 2: l.c., 714.
(22) Cfr ibid., 35: l.c., 734.
(23) Cfr n. 18: AAS 77
(1985), 224.
(24) Ibid., 31: l.c., 258.
(25) Tertulliano, Apol.,
50,13: PL 1, 534.
(26) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 1.
(27) MsB 3vo, Opere
complete, Città del Vaticano, 1997, 223.
(28) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, c. III.
(29) Cfr Congr. per il Clero ed Altre, Istr. interdicasteriale
su alcune questioni circa la collaborazione dei laici al ministero dei
sacerdoti Ecclesiae de mysterio (15
agosto 1997): AAS 89 (1997), 852-877,
specie art. 5: Gli organismi di collaborazione nella Chiesa particolare.
(30) Reg. III, 3: « Ideo
autem omnes ad consilium vocari diximus, quia saepe iuniori Dominus revelat
quod melius est ».
(31) « De omnium fidelium
ore pendeamus, quia in omnem fidelem Spiritus Dei spirat »: Epist. 23,
(32) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 31.
(33) Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 2.
(34) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 8.
(35) Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 22.
(36) Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 34.
(37) S. Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, Pref., ed. Funk, I, 252.
(38) Così, ad esempio, S. Agostino: « Luna intellegitur Ecclesia, quod suum lumen non habeat, sed ab
Unigenito Dei Filio, qui multis locis in Sanctis Scripturis allegorice sol
appellatus est »: Enarr. in Ps. 10,
3: CCL 38, 42.
(39) Cfr Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non
cristiane Nostra aetate.
(40) Istr. sull'annuncio del Vangelo e il dialogo interreligioso
del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e della Congregazione
per l'Evangelizzazione dei Popoli, Dialogo
e annuncio: riflessioni e orientamenti (19 maggio 1991), 82: AAS 84 (1992), 444.
(41) Cfr Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 4.
(42) Ibid., 11.
(43) Ibid., 44.
(44) Cfr Lett. ap. Tertio
millennio adveniente (10 novembre 1994), 36: AAS 87 (1995), 28.