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IL MIO CATTIVO MAESTRO L’autore di «Ipotesi su Gesù» ricorda le lezioni dello storico e giurista laico: «Si fermava alle doman

 

IL MIO CATTIVO MAESTRO L’autore di «Ipotesi su Gesù» ricorda le lezioni dello storico e giurista laico: «Si fermava alle domande penultime»

MESSORI

La ragione parziale di Galante Garrone

dal nostro inviato FRANCESCO CEVASCO

DESENZANO (BS)

Accadde una notte di luglio e di afa, trentasei anni fa. Il giovane laureando si assopì agnostico, liberal, mangiapreti e si risvegliò con un irresistibile desiderio: mettere in discussione la fede illuministica nella Dea Ragione e usare la ragione per confermare la Fede. Tutto il contrario di quello che gli aveva insegnato il suo maestro Alessandro Galante Garrone, di cui aveva seguito i corsi di storia contemporanea all’università di Torino e con il quale si sarebbe laureato in storia del Risorgimento. Padre della patria, punta di diamante della cultura azionista, laica, liberaldemocratica, Galante Garrone ripudierà qualche anno dopo quell’allievo che, nel frattempo, era diventato l’autore del più clamoroso best seller cattolico del secolo, Ipotesi su Gesù.

Vittorio Messori, oggi, ha 59 anni. Vive con la moglie nella tranquillità di Desenzano, sul lago di Garda. Per conservare i suoi oltre ventimila libri, tutti di argomento religioso, ha preso in affitto un capannone industriale dismesso. Sta curando gli ultimi ritocchi al suo quattordicesimo saggio, Dicono che è risorto . Sta partendo per Lourdes («Non per fanatismo religioso, vado in vacanza, un amico mi ha affittato la casa su quella magnifica collina»). Nel salotto sono appese le copertine dei suoi libri, anche le edizioni cinese, coreana e araba. In bagno, una copia di La civiltà cattolica , ma anche la laicissima Micromega . Nello studio, una grande fotografia di Bernadette, la pastorella delle apparizioni, che lo guarda negli occhi quando sta seduto alla scrivania, e la prima pagina di un giornale scolastico in cui il piccolo Messori metteva in prosa «San Martino» di Giosue Carducci.

Messori è un uomo mite, ma coraggioso. Ha avuto la faccia tosta di chiedere al Papa se credeva davvero che Gesù fosse il figlio di Dio. Non gli piace definire Galante Garrone un «cattivo maestro». Preferisce: «Un maestro incompleto, insufficiente. Che mi ha insegnato la serietà sul lavoro. Che, come gli ha detto una volta Arturo Carlo Jemolo, non crede nel paradiso, ma fa di tutto per meritarselo. Un mite giacobino. Ma, a volte, anche la mitezza giacobina può portare al terrore e alla ghigliottina come conseguenza di una morale che, nei confronti degli avversari, manca di pietà, di perdono, di misericordia. Galante Garrone è una delle più nobili figure di quella cultura azionista, elitaria, che al sacerdozio del prete sostituisce il sacerdozio del professore, dell’intellettuale. Che alla cattedra del vescovo sostituisce la cattedra universitaria. Che non sopporta i cialtroni e ha orrore della retorica, ma che fa di quest’antiretorica una nuova retorica. Che in una sorta di religioso antifascismo dà al tiranno tutte le colpe, anche quelle che non sono sue. Che la pena di morte va abolita, ma se la decide il tribunale di Norimberga o se la si applica a Mussolini è diverso. Che il genocidio è inaccettabile, ma se fanno fuori ventimila cattolici protofascisti in Vandea… è la Storia, bellezza. Che aver indossato la camicia nera o aver giurato fedeltà al fascismo è un Male radicale, ma se gli si ricorda che lo ha fatto anche qualcuno di loro diventano cattivissimi».

Senza l’avventura di quella notte, Messori sarebbe ancora impregnato di quel laicismo in cui s’immerse appena arrivato, bambino, a Torino. «Già prima, con il latte materno avevo succhiato la diffidenza per il nero della tonaca dei preti e il rifiuto della Chiesa come istituzione. I miei genitori sono modenesi doc e non stavano certamente con don Camillo. Mia madre diceva che la Chiesa era una bottega. E l’unica parente, una zia, che la domenica faceva un salto a messa, la chiamavano la bigotta. Io stesso non ho mai rinnegato un certo anticlericalismo. Sui misfatti del clericalismo sono stato più pungente di Galante Garrone».

Il giovane Messori entra al «seminario minore laico» Massimo D’Azeglio, il liceo a trecento metri dal «monastero laico», il palazzotto di via Biancamano dove ha sede l’Einaudi. «Mi vedevo già là dentro come redattore, consulente, magari anche autore. Dovevo superare ancora una tappa: il "seminario maggiore laico" di Palazzo Campana, l’università che mi avrebbe dato chierica, unzione e consacrazione, mi avrebbe inserito in quell’ordine sacerdotale einaudiano perfettamente integrato nella Torino da manuale, e a volte da barzelletta, del laicismo elitario. Galante Garrone e anche Norberto Bobbio e Luigi Firpo furono i miei maestri. Non rinnego nulla della cultura che hanno cercato di darmi. Mi hanno insegnato a usare la ragione.

Ma non a usarla fino in fondo. Loro si fermavano troppo presto. Passavano il tempo a occuparsi, in maniera esemplare, di cose "penultime", rifiutando, quindi, le domande "ultime". Snobbavano le questioni religiose come "domande da brufoli", da ragazzini. In qualche modo mi fanno venire in mente Renzo Arbore quando canzona quelli che si chiedono chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ricordo la fatica che ho fatto, molti anni dopo la laurea, per convincere Galante Garrone a parlare con me su questioni religiose per un’intervista a Famiglia Cristiana . Si sentiva affettuosamente violentato. Considerava l’argomento talmente privato da vergognarsi di parlarne. Aveva paura di denudarsi. Insomma, difendeva il suo impenetrabile agnosticismo. Era più facile confrontarsi con quei pochi atei puri e duri ufficialmente rimasti a dichiarare la loro fede».

Messori si ostinava a coniugare fede e ragione; i suoi maestri erano fermi a fede o ragione. «Ho portato la ragione fino alle soglie del mistero e mi sono convinto che l’ipotesi più ragionevole è l’accettazione dell’enigma. Ho studiato la vita di Gesù con lo stesso criterio con cui Galante Garrone ha studiato Filippo Buonarroti e Felice Cavallotti. Era Gesù un oscuro predicatore ebraico o era il Cristo figlio di Dio? Non ho escluso niente. Nemmeno che quella di Gesù fosse una figura puramente mitologica. Ma, studiando come un professore e indagando come un cronista, sono arrivato alla più ragionevole delle ipotesi. Paradossale e imprevista, ma ragionevole: la cosa più sensata è scommettere sul mistero. Se ho potuto arrivare fin là in fondo è perché ho avuto maestri come Galante Garrone».

Ha combattuto, Messori, contro quello che è successo quella notte costringendolo a diventare quel che è oggi. «Non volevo diventare cristiano e meno che mai cattolico. Mi vergognavo. Andavo a messa di nascosto. Mia madre quando mi scoperse chiamò il medico di famiglia e gli disse che avevo un grave esaurimento nervoso. Avevo anche un problema culturale e una prospettiva professionale: se continui così, mi dicevo, non diventerai mai nessuno all’Einaudi. Mi costò andare avanti. Sapevo di aver vissuto un’esperienza mistica, io che detestavo (e ancora adesso sento estranei) i mistici. Rivedevo quell’ameba gelatinosa e disprezzabile che era ai miei occhi l’Azione cattolica con i suoi distintivi (ormai soltanto Scalfaro lo porta ancora all’occhiello). Vedevo la Fuci e i Boy scout. Quel mondo kitsch di chitarre e gite in montagna mi era repellente. L’idea di rischiare di farne parte mi sembrava innanzitutto un attentato al buon gusto».

Ma tant’è: c’era qualcosa di più forte e di più misterioso che spingeva il giovane Messori, già colto ed erudito, a superare «i confini che la cultura di Galante Garrone e del suo laicismo mi avevano imposto. Avevo voglia di risposte alle domande che la mia educazione laica mi faceva considerare indegne, da rimuovere. Ero in sintonia con l’Enciclopedia Einaudi che relegava il cristianesimo tra l’antropologia e il folklore e con il catalogo Feltrinelli che non contemplava la sezione religione».

Ma tant’è: c’era qualcosa di invincibile e ingovernabile che stava cadendo tra capo e collo al giovanotto Messori. Laico e libertino, la sera d’estate andava alla Stipel (come si chiamava allora la compagnia dei telefoni) per guadagnare qualche cosa sostituendo le centraliniste che dopo una cert’ora non era bello che lavorassero. Erano occasioni per consolare un’anima in pena notturna, ma anche per fissare la sveglia telefonica a una signora che, magari, dopo un galante colloquio propedeutico, riceveva, con qualche anticipo, una sveglia umana. Tutto ciò avveniva, naturalmente, in attesa di prendere il tram per andare al santuario laico di Palazzo Campana. «La salvezza sta nei Lumi, pensavo, come mi avevano insegnato i miei maestri. E per ampliare il mio orizzonte culturale, decisi di affrontare una lettura fino a quel momento a me sconosciuta. Il Vangelo. Mi serviva per capire un’opera d’arte, per intercettare una citazione. Una semplice operazione culturale. Non volevo salvarmi l’anima. Per quello basta Platone che ci ha spiegato ben prima di Cristo che l’anima è immortale».

Ma l’operazione culturale prende una piega imprevista. Come nel racconto di Edgar Allan Poe, Una discesa nel Maelstrom , Messori si trova preso in un gorgo, cerca una via di salvezza, il gorgo non s’inverte, come nella finzione letteraria, ma cede in un punto, si apre una fessura, e Messori può sbirciare aldilà, quanto basta per cambiargli la vita.

Sarebbe sufficiente per arruolare un nuovo soldato nell’esercito dei mistici. E, invece, oggi Messori è d’accordo con il cardinale Giacomo Biffi, teorico della «teologia del tortellino»: essere cristiani non vuol dire rinunciare ai tortellini, ma gustarli con più piacere e per l’eternità, se te li sarai guadagnati comportandoti bene, cristianamente, nella vita terrena. E, qui, il discorso torna alla morale; quella di Messori, ormai, è molto diversa da quella di Galante Garrone. «I laici hanno una morale irragionevole: comportarsi bene senza motivo.

Perché devo fare del bene se non ne ho alcun vantaggio? La vocazione alla vita è una vocazione alla vita eterna. E bisogna guadagnarsela, la vita eterna. Io non temo la morte. Temo chi ha il potere di giudicare la mia vita terrena. Nella morale laica, che si professa rigorosamente razionale, c’è , in realtà, un deficit di razionalità, un fideismo irrazionale. Valla a spiegare alle folle degli stadi, agli hooligans, la morale laica…».

 

Corriere della sera 29 luglio 2000
Cultura

 

 

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