Bibbia a fumetti - Castigat ridendo mores - da Astrologia a Vita Sociale il dizionario dei problemi dell'uomo moderno

 

Torna all'indice

Dio

 

Dio

 

S. Tommaso ha una dottrina filosofica e teologi­ca ricchissima su Dio, senza dubbio tra le più ricche, più profonde e più complete sul­l’argomento...La sua speculazione metafisica si conclude sempre con Dio; e la sua medita­zione teologica prende il via sempre da Dio. E, come avremo modo di vedere più avanti, è proprio nella sua riflessione su Dio che la sua originalità filosofica (la filosofia dell’es­sere) consegue i risultati più vistosi e più si­gnificativi.

 

Nelle varie opere in cui l’Aquinate af­fronta la questione di Dio (I Sent., d. 3, qq. lss.;C. G.,I,cc. l2ss.;DeVer.,qq.2e10; De Ent. et Ess., c. 4; Comp. Theol., cc. 3 ss.; S. Th., I, qq. 2 ss.) lo fa sempre seguendo lo stesso ordine: in primo luogo studia ciò che di Dio è già accessibile alla ragione, senza il soccorso della rivelazione: esistenza, natura, attributi e operazioni di Dio; successivamen­te passa a studiare quanto di Dio e diventato manifesto attraverso la rivelazione. Ecco co­me egli stesso schematizza la trattazione nella seconda questione della Summa: "L’inda­gine intorno a Dio comprenderà tre parti. Considereremo: primo, le questioni spettan­ti alla divina Essenza; secondo, quelle ri­guardanti la distinzione delle Persone; ter­zo, quelle che riguardano La derivazione del­le creature da Dio. Intorno all’Essenza divi­na poi dobbiamo considerare: 1. Se Dio esi­sta; 2. Come egli sia o meglio come non sia; 3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la potenza" (I, q. 2, prol.).

 

Anche in questa nostra esposizione, for­zatamente schematica del pensiero del Dottore Angelico su Dio, rispetteremo l’ordine da lui seguito, presentando anzitutto la sua "teologia naturale" e poi la "teologia dog­matica". Qualcuno avanzerà qualche riserva su questa articolazione della materia e la sua suddivisione in teologia "naturale" e "dog­matica". Qualcuno obietterà che S. Tommaso non fa mai della teologia naturale, perché tutte le sue opere sono teologiche. Ora, di questa affermazione è vera solo la seconda parte: è vero cioè che S. Tommaso generalmente scrive ope­re di teologia e non di filosofia. Ma questo non gli impedisce affatto di fare della filoso­fia, e della filosofia su Dio. Soltanto che, an­ziché fuori della teologia, egli compie questa riflessione all’interno della teologia, come momento preliminare e indispensabile della medesima. Ma non c’è nessun dubbio che il suo discorso sull’esistenza, la natura, gli at­tributi e le operazioni di Dio è un discorso squisitamente filosofico. Se ne può avere una conferma anche nel fatto che in questa parte il suo appello a quell’autorità, la S. Scrittura, che è di capitale e primaria impor­tanza nella teologia dogmatica, è ridotta al minimo.

 

 

I.  ESISTENZA DI DIO

 

Pur vivendo in un clima di profonda reli­giosità, S. Tommaso non ignora che, quanto meno in passato, ci sono stati degli atei e che la po­sizione dell’ateismo ha dalla sua qualche ar­gomento che merita d’essere preso in consi­derazione.

 

1.   Gli argomenti dell’ateismo. Tutte le obiezioni contro l’esistenza di Dio si possono ridurre alle seguenti: il fenomeno del ma­le, la possibilità di spiegare tutto con la scienza e con la libertà umana: "Sembra che Dio non esista (videtur quod Deus non sit). Infatti: 1) Nel nome Dio si intende afferma­to un bene infinito. Dunque se Dio esistesse non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c’è il male. Dunque Dio non esi­ste. 2) Ciò che può essere compiuto da un ri­stretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esi­stesse: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli vo­lontari alla ragione o volontà umana. Nessu­na necessità, quindi, della esistenza di Dio" (I, q. 2, a. 3, obb. 1-2).

Com’è suo stile, S. Tommaso non replica imme­diatamente alle obiezioni, ma prima si preoccupa di far vedere che, nonostante tut­te le difficoltà degli atei, ci sono argomenti molto solidi e decisivi a favore dell’esistenza di Dio; così riesce già a liquidare, quanto meno indirettamente, le loro obiezioni.

 

      2. L’argomento ontologico. Tra gli innu­merevoli argomenti che già la filosofia greca e successivamente la filosofia cristiana aveva imbastito per dimostrare l’esistenza di Dio, S. Tommaso ricorda il celebre argomento con cui S. Anselmo aveva preteso di dimostrare l’esi­stenza di Dio muovendo dalla sua essenza, intesa come "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" (id quo maius cogitari nequit). S. Tommaso disapprova l’argomento ansel­miano e fa vedere che la via che pretende di discendere dall’essenza divina fino all’esi­stenza non è percorribile, per il semplice motivo che prima di provare l’esistenza di Dio la nostra mente non può avere che una definizione nominale e non reale di Dio; e in secondo luogo perché anche supposto che noi avessimo un concetto reale di Dio, si tratterebbe sempre di un concetto essenzial­mente negativo, perché Dio non è tanto colui di cui non si può pensare nulla di maggio­re, quanto semplicemente colui che non si può pensare affatto: "Dico dunque che que­sta proposizione Dio esiste in sé stessa è di per sé evidente, perché il predicato si identi­fica col soggetto; Dio, infatti, come si vedrà in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo l’essenza di Dio (nos non sci­mus de Deo quid est), per noi non è eviden­te, ma necessita d’essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più no­te, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti" (I, q. 2, a. 1).

 

3. Le Cinque Vie della Summa. Perciò, vi­sto che non abbiamo nessuna intuizione di Dio, né della sua essenza, né della sua esi­stenza, per provare la sua esistenza occorre procedere a posteriori: prendendo in esame i fenomeni che ci circondano (incluso lo stes­so fenomeno umano) e verificare se questi stessi fenomeni, per essere spiegati esausti­vamente, non esigano l’esistenza di Dio. Questo è il procedimento seguito costante­mente da S. Tommaso nelle sue opere, presentando argomenti nella maggior parte dei casi già noti e familiari, ma talvolta anche adducen­do argomenti nuovi, ricavati dalla sua filoso­fia dell’essere.

 

Nella Summa, allargando fino a cinque la lista degli argomenti dell’esistenza di Dio, che nelle altre opere non supera mai il nu­mero di quattro, S. Tommaso fa vedere che l’esi­stenza di Dio può essere provata partendo da cinque fenomeni noti a tutti: il divenire (movimento), le cause seconde, la contin­genza, i gradi di perfezione, l’ordine dell’u­niverso. Nessuno di questi fenomeni è origi­nario è incausato; tutti manifestano una con­dizione di dipendenza e di carenza ontologi­ca. Di qui la necessità di ricercare la loro causa. E la ricerca che non vuol essere un re­gressus ad infinitum si conclude sempre ne­cessariamente con la scoperta di Dio.

 

La struttura delle cinque vie è uniforme ed è di una semplicità esemplare. Essa con­sta di quattro momenti:

 

1.- Si attira anzitutto l’attenzione su di un determinato fenomeno di contingenza (il divenire, la causalità su­bordinata o strumentale, la possibilità, i gra­di di perfezione, l’ordine).

 

2.- Si evidenzia il carattere relativo, dipendente, contingente, causato d’ogni singolo fenomeno: ciò che è mosso, è mosso da altri; le cause seconde, strumentali, sono a loro volta causate; il possibile riceve l’essere dal necessario; i gra­di ricevono la loro perfezione dal massimo; l’ordine richiede sempre intelligenza mentre le cose naturali ne sono prive.

 

3.- Si mostra che la realtà effettiva, attuale, di un fenome­no contingente non si può spiegare facendo intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti.

 

4.- Si conclude dicendo che l’u­nica spiegazione plausibile del contingente è Dio: lui è il motore immobile, la causa in­causata, l’essere necessario, il sommamente perfetto, l’intelligenza ordinatrice suprema.

 

Ecco ora, in breve le cinque vie:

 

      Prima via: dal moto al motore immobi­le.

 

     "La prima e la più evidente si desume dal moto (prima autem et manifestior via est, quae sumitur ex parte motus). E' certo infatti e consta ai sensi, che alcune cose mutano in questo mondo. Ora tutto ciò che muta o di­viene è mutato da altri (omne autem quod movetur, ab alio movetur) (...). Se dunque ciò da cui deriva il mutamento muta a sua volta, sarà necessario che anch’esso sia mu­tato da un terzo e questo da un quarto, ma in ciò non si può procedere all’infinito (...). Dunque è necessario arrivare a una prima ragione del mutamento che non muti affat­to: e questo è ciò che tutti gli uomini inten­dono per Dio" (I, q. 2, a. 3).

 

 Seconda via: dalle cause seconde alla Causa Prima.

 

      "Vediamo nelle cose che ca­dono sotto i sensi un ordine di cause effi­cienti (invenimus enim in istis sensibilibus es­se ordinem causarum efficientium); tuttavia non si vede né è possibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa poiché, se così fosse, una cosa dovrebbe essere prima di sé stessa, il che è impossibile. Ma non è possi­bile che nelle cause efficienti si proceda al­l'infinito (...). Dunque è necessario porre una prima causa efficiente che tutti chiama­no Dio" (I, q. 2, a. 3).

 

      Terza via: è presa dal possibile e dal necessario (tertia via est sumpta ex possibili et necessario) ed è       questa:

 

     "Tra le cose (di questo mondo) noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcu­ne cose nascono e finiscono, il che vuole dire che possono essere e non essere. Ora, è im­possibile che tutte le cose di tale natura sia­no sempre state, perché ciò che può non es­sere, un tempo non esisteva. Se dunque tut­te le cose (esistenti in natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è ve­ro, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste non comincia a esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse a esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemen­te falso. Dunque non tutti gli enti sono con­tingenti (non omnia entia sunt possibilia), ma nella realtà occorre che ci sia qualcosa di necessario (...). Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé stesso necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio" (ibid, a. 3).

 

Quarta via: dai gradi di perfezione al­l’assolutamente perfetto (quarta via sumitur ex gradibus qui in rebus inveniuntur).

 

Nelle cose si riscontrano gradi di perfezione (cose più o meno buone, più o meno vere, più o meno belle ecc.). "Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secon­do che si accostano di più o di meno ad al­cunché di sommo e di assoluto (...). Vi è dunque un qualche cosa che è massimamen­te vero, massimamente buono, massima­mente bello, e di conseguenza qualcosa che è il supremo ente (maxime ens) (...). E que­sto chiamiamo Dio (ibid.).

 

Quinta via: dall’ordine del cosmo al su­premo Ordinatore (quinta via sumitur ex gu­bernatione rerum).

 

"Noi osserviamo che al­cune cose prive di conoscenza, cioè i corpi fisici (corpora naturalia), tuttavia operano per un fine, come risulta dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predispo­sizione (ex intentione) raggiungono il loro fi­ne. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine e quest’essere chiamiamo Dio" (ibid.).

 

Per aiutare il lettore moderno a cogliere il senso delle cinque vie osserviamo anzitut­to che nella prima via, il moto (divenire) di cui parla S. Tommaso non è il moto locale bensì il moto sostanziale ed entitativo; nella secon­da, la serie di cause seconde a cui si riferisce 1’Angelico non è una serie di cause dipen­denti tra di loro accidentalmente, che può essere più o meno lunga e persino indefinita, bensì di cause collegate necessariamente in vista dell’effetto (per es. la falce, il manico, la mano, il corpo per la falciatura del fieno); nella terza, si parla di necessità nell’ordine dell’essere e non in quello dell’essenza; nella quarta, S. Tommaso si riferisce alle perfezioni sem­plici e non alle perfezioni miste; nella quantità, i corpi naturali abbracciano non soltanto gli esseri materiali (acqua, aria) ma anche gli esseri viventi privi di intelligenza (i fiori, le piante) nelle cui operazioni il finalismo è quanto mai palese.

 

La seconda osservazione è che le prove di S. Tommaso non sono legate a nessuna teoria co­smologica particolare: i fenomeni che egli prende in considerazione e i principi che egli invoca non sono legati né a Platone, né ad Aristotele, né a Tolomeo ecc., ma apparten­gono all’esperienza ordinaria, e i principi (di causalità e dell’assurdità del regressus ad jn­fintum), non sono legati a nessuna scienza e a nessuna visione cosmologica. ma sono principi primi della metafisica.

 

La terza e ultima osservazione riguarda più specificamente il principio di causalità: esso non va inteso come mera successione e concatenazione necessaria di eventi, come accade nella filosofia e nella scienza moder­na a partire da Hume e Kant; bensì come co­municazione della propria perfezione da parte della causa all’effetto: è comunicazio­ne d’essere e non mera successione (è la co­municazione della propria realtà del melo alla mela, della mucca al vitellino e non la mera successione del tuono rispetto al lam­po). Tale principio ha valore assoluto come il principio di non contraddizione e funge da validissimo supporto alle argomentazioni di S.Tommaso.

 

Alla luce di queste osservazioni ritenia­mo che le cinque vie conservino inalterato il loro valore anche per l’uomo della civiltà ci­bernetica. Concediamo tuttavia, che a code­sto uomo possono risultare più comprensibili e più persuasive altre vie (le vie a Dio sono d’altronde infinite), soprattutto quelle che partono dall’uomo stesso anziché dal cosmo.

 

4. Replica agli argomenti dell’ateismo.

 

Do­po avere provato l’esistenza di Dio con argo­menti di indubbio valore, l’Angelico prende in esame gli argomenti degli atei.

 

All’argomento tratto dal male, a questo punto si accontenta di replicare come segue: "Come dice S. Agostino: “Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal ma­le”. Sicché appartiene all’infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dil mali per trarne dei beni" (I, q. 2, a. 3, ad 1). La repli­ca di S. Tommaso è decisamente troppo "secca" e troppo "comoda" per risultare pienamente soddisfacente. Ma si deve tener conto del fatto che qui egli ha ridotto la sua critica al­l’osso e non ha inteso in alcun modo impe­gnarsi sulla questione della natura e delle cause del male. Il problema lo affronta al­trove con estrema serietà e con grande im­pegno, specialmente nella Quaestio disputa­ta de malo (vedi: MALE).

 

Altrettanto brevi ma più persuasive sono le risposte dell’Aquinate alle altre due obie­zioni. A quella tratta dalla scienza che spie­ga le operazioni della natura mediante le leggi naturali, S. Tommaso replica: "Certo la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, e necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro causa prima" (ibid., ad 2). All’obiezione relativa alla libertà umana, la risposta è la seguente: "Similmente gli atti del libero arbitrio devo­no essere ricondotti a una causa più alta del­la ragione e della volontà umana, "perché queste sono mutevoli e defettibili e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venir meno deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato"’ (ibid.) (vedi: ARBITRIO, LIBERO).

 

5.      Le prove dell’esistenza di Dio nelle altre opere.

 

La trattazione della Summa è la più completa e la più approfondita, ma anche quanto S. Tommaso ha scritto nelle altre opere va tenuto presente, in modo particolare, come si vedrà, le prove dell’esistenza di Dio rica­vate dalla filosofia dell’essere. La questione dell’esistenza di Dio è affrontata in tutte le opere sistematiche a partire dal Commento alle Sentenze fino al Compendio di Teologia; ma è esaminata anche in alcune Questioni disputate, nell’opuscolo De ente et essentia e nel Commento al Vangelo di S. Giovanni.

 

Nel Commento alle Sentenze S. Tommaso pre­senta quattro prove, che egli stesso denomi­na: a) via causalitatis ("tutto ciò che ha l’es­sere dal nulla dipende da un altro dal quale riceve l’essere"); b) via remotionis ("al di là dell’imperfetto deve esserci il perfetto che esclude ogni mescolanza di imperfezione"); c) via eminentiae in esse ("i gradi di bontà si stabiliscono in rapporto all’ottimo"); d) via eminentiae in cognitione ("i gradi di eviden­za esigono ciò che è evidente in se stesso") (I Sent., d. 3, div. primae partis textus).

 

Nel De Veritate il problema dell’esisten­za di Dio è toccato un paio di volte. Nella q. 2, a. 3, l’esistenza di Dio è ricavata dal fina­lismo. Nella q. 10, a. 2, S. Tommaso esclude che l’e­sistenza di Dio sia una verità ovvia, per sé nota e fa vedere che va dimostrata: "L’es­senza di Dio non ci è nota, quindi rispetto a noi (quoad nos) l’esistenza di Dio non ci ri­sulta evidente (Deum esse non est per se notum), ma ha bisogno di dimostrazione".

 

Nella S. Contra Gentiles, S. Tommaso propone quattro vie: del divenire (motus), della cau­salità, dei gradi di perfezione e dell’ordine. Le ultime tre sono esposte in modo sinteti­co, mentre la prima viene presentata con una lunga serie di passaggi e con moltissimi riferimenti alla fisica aristotelica e, a rende­re la cosa più complicata, in due versioni, una diretta e l’altra indiretta (cfr. C. G., I, c. 13).

 

Nel De Potentia il problema dell’esisten­za di Dio non viene sollevato esplicitamen­te, ma è incluso implicitamente nella q. 3, a. 5, che ha per titolo: Utrum possit esse aliquid quod non sit creatum a Deo (Può esserci qualcosa che non è stato creato da Dio?). La risposta di S. Tommaso a questo interrogativo assu­me l’andatura di una vera e propria prova dell’esistenza di Dio, che coincide in larga misura con la Quarta via, solo che nella for­mulazione del De Potentia si ricorre in ma­niera più esplicita al principio di partecipa­zione: "Quando si incontra qualcosa che vie­ne partecipato da molti enti, occorre che es­sa sia attribuita loro da colui che la possiede perfettissimamente.. ."

 

         Nel Compendium Theologiae, dato il Ca­rattere sintetico dell’opera, S. Tommaso propone una sola via, che corrisponde alla via del di­venire, che qui viene detta, "via visibile alla ragione" (Comp. Theol., c. 3).

 

         Nel Prologo al Commento al Vangelo di S. Giovanni, S. Tommaso afferma che gli antichi fi­losofi sono giunti alla conoscenza di Dio in quattro modi, e basandosi sul versetto bibli­co: "Io vidi il Signore seduto su un trono al­to ed elevato" (Is 6, 1), li denomina rispetti­vamente: modo dell’autorità (vidi Domi­num), dell’eternità (sedentem), della dignità o nobiltà (super solium excelsum) e della verità incomprensibile (elevatum). Il modo dell’autorità di Dio si basa sul finalismo e corrisponde chiaramente alla Quinta via; il modo dell’eternità è basato sulla mutabilità (divenire delle cose) e corrisponde alla Ter­za via; i due modi della dignità e della verità si basano entrambi sulla partecipazione e coincidono praticamente con la Quarta via.

 

Nel De ente et essentia (c. 4) S. Tommaso svilup­pa un importante argomento dell’esistenza di Dio a partire dalla distinzione reale tra es­senza e atto d’essere nelle creature.

 

6.      Le vie dell’essere.

 

     Tranne la via testé ri­cordata del De ente et essentia, tutte le altre vie percorse dall’Angelico che abbiamo pas­sato in rassegna sono vie "tradizionali", già elaborate da Platone (Prima e Quarta), da Aristotele (Prima, Seconda e Quinta) da Sant'Agostino (Quarta e Quinta), Avicenna e Maimonide (Terza), anche se si deve ricono­scere che nell’esposizione che ne dà S. Tommaso tutto funziona con maggiore rigore e chia­rezza.

 

Però sarebbe davvero sorprendente se un pensatore geniale e originale come S. Tommaso, creatore di una propria filosofia, la filosofia dell’essere, non avesse saputo fare un pro­prio discorso su Dio, sulla sua esistenza, sul­la sua natura. Di solito ci si accontenta di ri­conoscere la sua originalità nella definizione dell’essenza di Dio, che viene identificata con l’esse per cui Dio è l’esse ipsum sub­sistens. Ma S. Tommaso può dire questo dell’essen­za di Dio, perché già prima aveva impostato la dimostrazione dell’esistenza di Dio diret­tamente sull’essere e ne aveva argomentata la sussistenza rispetto all’essere muovendo dal modo di essere delle creature. E in effet­ti, negli scritti di S. Tommaso ci sono tre prove del­l’esistenza di Dio perfettamente sintonizzate con la sua filosofia dell’essere e che, essendo tutte centrate sull’essere, possono a buon di­ritto essere chiamate prove "ontologiche". Le quali tuttavia si distinguono nettamente dalla celebre prova ontologica anselmiana in quanto, diversamente da quella che è a prio­ri, sono a posteriori, in quanto muovono da alcune osservazioni relative alle condizioni ontologiche degli enti che noi possiamo age­volmente constatare.

 

Le tre constatazioni che fungono da punto di partenza sono: gli enti hanno l’essere per partecipazione; negli enti c’è distinzione reale tra l’essenza e l’atto dell’essere e c’è quindi composizione; la perfezione dell’es­sere si trova negli enti per gradi. È a partire da questi tre fenomeni che S. Tommaso ha sviluppa­to le sue tre vie ontologiche a Dio. Data la loro originalità e la capitale importanza che assumono nella filosofia tomistica dell’esse­re, non possiamo esimerci dal riportarle in­tegralmente; tra l’altro, come tutte le auten­tiche ascese metafisiche, sono argomenta­zioni molto, molto brevi.

 

Via della partecipazione:

 

"Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo. Per es., tutte le cose calde per partecipazione si riducono al fuoco il quale è caldo per essenza. Ora, dato che tutte le cose che sono, partecipano all’essere e sono enti per partecipazione, oc­corre che in cima a tutte le cose ci sia qualco­sa in virtù della sua stessa essenza, ossia che la sua essenza sia l’essere stesso (necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum, quod sit ipsum esse per suam essentiam, idest quod sua essentia sit suum esse). Questa cosa è Dio, il quale è causa sufficientissima, de­gnissima e perfettissima di tutte le cose: da Lui tutte le cose che esistono partecipano al­l’essere" (in Joan., Prol. n. 5).

 

Via della distinzione tra essenza ed es­sere.

 

"Tutto ciò che conviene a qualche co­sa o è causato dai principi della sua natura, come la risibilità nell’uomo, o le compete in virtù di qualche principio estrinseco, come la luce dell’aria per influsso del sole. Ora non si può dire che l’essere di una cosa sia causato dalla sua stessa forma o essenza, in­tendendo come da causa efficiente, perché così una cosa sarebbe causa di sé stessa o produrrebbe sé stessa, cosa del tutto impos­sibile. E' necessario quindi che ogni cosa in cui l’essere è diverso dalla sua natura, abbia l’essere da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù d’un altro esige come causa prima ciò che è per sé, ci deve essere qualche cosa che sia causa dell’essere in tutte le altre, ap­punto perché essa è soltanto essere; diversa­mente si andrebbe all’infinito nelle cause, avendo ogni cosa, che non è solo essere, una causa, come s’è visto" (De ente, c. 4, n. 27).

 

Via della gradualità della perfezione dell’essere negli enti.

 

"L’essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto e in altre in modo meno perfetto; però non è mai presente in modo così perfetto da iden­tificarsi con la loro essenza, altrimenti l’esse­re farebbe parte della definizione dell’essen­za della cosa, il che è evidentemente falso, giacché l’essenza di qualsiasi cosa è concepi­bile anche prescindendo dall’essere. Pertan­to occorre concludere che le cose ricevono l’essere da altri e (retrocedendo nella serie delle cause) è necessario che si arrivi a qual­che cosa la cui essenza sia costituita dall’es­sere stesso, altrimenti si dovrebbe andare in­dietro a1l’infinito" (II Sent., d. 1, q. 1, a. 1).

 

7.      L’essenza di Dio.

 

     Accertata l’esistenza di Dio, S. Tommaso passa allo studio della sua es­senza e della sua natura.

 

L’argomento dell’essenza e della natura di Dio, in sede razionale, è ancora più arduo e più impegnativo di quello della sua esisten­za. Se infatti nella contingenza radicale delle cose non mancano tracce inconfondibili di quest’ultima, tuttavia esse non sono tali da consentire un’identificazione e una defini­zione adeguata della realtà di Dio, della sua essenza, della sua persona, delle sue pro­prietà e attributi. Infatti dal mondo non è possibile ricavare concetti precisi, chiari e distinti del suo autore, come dalle orme la­sciate da un elefante non è possibile farsi un’idea adeguata dell’elefante che le ha im­presse. Le perfezioni infinite di Dio si mani­festano sempre alla mente dell’uomo per speculum et in enigmate, sia perché sono spezzettate e frantumate in tante piccole do­si, sia perché la nostra capacità di appren­derle è quella di un’intelligenza finita, limi­tata, condizionata dalla materia e dalla storia. Tuttavia questo non elimina la legittimi­tà e la necessità di fare un discorso anche sulla natura, sugli attributi e sulle operazioni di Dio, dal momento che se ne conosce l’esi­stenza.

 

Alcuni aspetti dell’essere di Dio risulta­no già chiari dalle conclusioni delle varie vie: l’immutabilità, l’efficienza, la necessità, la perfezione e l’intelligenza. Ma sappiamo che, oltre che con le celebri Cinque vie, S. Tommaso è asceso a Dio anche in altri modi, in par­ticolare percorrendo la via dell’essere. Ora è proprio la via dell’essere che conduce S. Tommaso a scoprire quell’aspetto di Dio che costituisce la differenza specifica rispetto a tutte le creature, e quindi a individuare perfetta­mente la sua essenza. La differenza specifica non consiste nel possedere l’efficienza, l’in­telligenza, la potenza, la perfezione, la bon­tà, la verità ecc. Ciò che distingue Dio dalle creature è di non avere l’essere per parteci­pazione, bensì per essenza: è l’identificazio­ne in lui dell’essenza con il suo essere. Ecco quindi raggiunto il concetto più adeguato di Dio, la definizione più precisa: Dio è l’esse ipsum subsistens. Questa espressione, se­condo S. Tommaso, si applica soltanto a Dio; e perciò non è affatto un titolo anonimo, come può sembrare a prima vista, ma è un titolo personalissimo: anzi è il nome proprio di Dio. E questo, spiega S. Tommaso, per tre motivi:

 

"Anzitutto per il suo significato. Infatti non esprime già una qualche forma o modo par­ticolare di essere, ma lo stesso essere (...). In secondo luogo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi sono meno vasti e univer­sali (...). Infine, perché il nome Colui che è più proprio di Dio dello stesso nome Dio, sia per la derivazione del termine, che è l’es­sere, sia per l’universalità del significato" (I, q. 13, a. 11).

 

Per quanto concerne l’essenza di Dio in sede filosofica la verità più importante è in­dubbiamente questa: il suo possesso pieno dell’essere, proprio perché è l’essere a costi­tuire la sua essenza. Questo privilegio com­pete esclusivamente a Dio. ("Ciò che è l’esse­re, non è incluso perfettamente nel concetto di nessuna creatura; infatti in qualsiasi crea­tura l’essere è distinto dalla sua essenza; per questo motivo non si può dire di nessuna creatura che il suo esistere è qualche cosa di necessario e di evidente (per se notum et se­cundum se) in forza dei suoi stessi princìpi. Ma in Dio l’essere è incluso nel concetto del­la sua essenza, perché in Dio l’essere e l’es­senza si identificano, come dicono Boezio e Dionigi" (De Ver. q. 10, a. 12).

 

   II. GLI ATTIRIBUTI DI DIO

 

La lunga rassegna degli attributi di Dio che l’Angelico ci presenta in tutte le sue opere sistematiche ha come filo conduttore il concetto intensivo dell’essere. Così tutti gli attributi ricevono la loro giustificazione definitiva chiamando in causa l’essere. Rias­sumendo, il procedimento di S. Tommaso per stabi­lire gli attributi di Dio è il seguente: egli prende una perfezione, la confronta con l’essere; controlla se si basa sull’essere stes­so o se invece ottiene l’essere solo quando si incarna in una determinata essenza. Nel pri­mo caso ha raggiunto un attributo di Dio, nel secondo no. I principali attributi che S. Tommaso ottiene con questo procedimento sono i seguenti: semplicità, infinità, perfezione, immutabilità, eternità, onnipresenza, unici­tà, verità, bontà, bellezza. Ecco gli argo­menti, come sempre molto lucidi e incisivi, con cui, avvalendosi del concetto intensivo dell’essere, egli ne giustifica l’applicazione a Dio.

 

1. Semplicità: "Colui che conferisce l’essere a tutti gli altri, per quanto concerne l’essere stesso non può dipendere da nessun altro; infatti chi per esistere dipende da un altro, deve ricevere l’essere da quello. e non può certamente essere colui che dà l’essere a tut­ti gli altri. Ma Dio è colui che conferisce l’es­sere a tutti; quindi il suo essere non dipende da altri. Ma l’essere d’ogni composto dipen­de dai suoi componenti: togliendo i compo­nenti viene meno il composto sia come cosa sia come idea (secundum rem et secundum intellectum). Quindi Dio non è composto. Inoltre, colui che è il principio primo dell’es­sere (primum principium essendi) lo possie­de in modo eccellentissimo, perché ogni co­sa è presente in maniera più eccellente nella causa che nel causato. Ma il modo più eccel­lente di possedere l’essere è quello per cui una cosa è identica all’essere. Quindi Dio è il Suo essere (est suum esse), mentre nessun composto è il suo essere, perché il suo essere dipende dai componenti e nessuno dei com­ponenti è l’essere stesso. Dunque Dio non è composto. Ciò deve essere ammesso assolu­tamente". (I Sent., d. 8, q. 4, a. 1).

 

    2.  Perfezione: "In Dio si ritrovano le perfe­zioni di tutte le cose. Perciò è anche detto universalmente perfetto (universaliter perfectus), perché non gli manca nessuna delle perfezioni che si possono incontrare in qual­siasi genere di cose, come dice il Commenta­tore. E questo si può arguire da quanto ab­biamo già dimostrato, che cioè Dio è l’esse­re stesso per sé sussistente (ipsum esse per se subsistens): di qui la necessità ch’egli con­tenga tutta la perfezione dell’essere (totam perfectionem essendi). E' chiaro infatti che se un corpo caldo non ha tutta la perfezione del caldo, ciò avviene perché il calore non è par­tecipato in tutta la sua perfezione; ma se il calore fosse per sé sussistente, non gli potrebbe mancare niente di ciò che forma la perfezione del calore. Ora, Dio è lo stesso essere per sé sussistente; quindi niente gli può mancare della perfezione dell’essere. Ma le perfezioni di tutte le cose fanno parte della perfezione dell’essere (omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essen­di), essendo perfette le cose a seconda del modo con cui partecipano all’essere. Di qui ne segue che a Dio non può mancare la per­fezione di nessuna cosa" (I, q. 4, a. 2).

 

    3. Infinità: "Infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata). Ora, in certa maniera la materia viene limitata dalla forma e a sua volta la forma dalla materia. La materia è limitata dalla forma in quanto la materia, pri­ma di ricevere la forma, è in potenza a molte forme; ma dal momento che ne riceve una, da quella viene delimitata. La forma poi è li­mitata dalla materia, perché la forma, consi­derata in sé stessa, è comune a molte cose; ma dal momento in cui è ricevuta nella ma­teria, diventa forma soltanto di una determi­nata cosa. Se non che, la materia riceve la sua perfezione dalla forma che la determina, e perciò l’infinito attribuito alla materia rac­chiude imperfezione, perché è come una materia senza forma. La forma invece non viene perfezionata dalla materia, ma ne riceve piuttosto la restrizione della sua ampiezza illimitata; quindi l’infinito che si attribuisce alla forma non delimitata dalla materia im­porta essenzialmente perfezione. Ora, come abbiamo già veduto, l’essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa tro­vare (maxime formale omnium est ipsum es­se). Quindi, siccome l’essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio è il suo pro­prio essere sussistente (suum esse subsi­stens), come si è precedentemente dimostra­to, resta provato chiaramente che Dio è infi­nito e perfetto" (I, q. 7, a. 1).

 

4. Onnipresenza: "Essendo Dio l’essere stesso per essenza (ipsum esse per suam es­sentiam), bisogna che l’essere creato sia l’ef­fetto proprio di Lui, come bruciare è l’effet­to proprio del fuoco. E questo Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano a esistere, ma fintanto che perdurano nell’essere; come la luce è causata nell’aria dal sole finché l’aria rimane illuminata. Fino a che dunque una cosa ha l’essere, è necessario che Dio le sia presente nella proporzione in cui essa possiede l’essere. L’essere poi è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondamente radicato (magis intimum et profundius), poiché, come si è già detto, l’essere è elemento formale rispetto a tutti i princìpi e i componenti che si trovano in una data realtà. Necessariamente dunque Dio è in tutte le cose e in maniera intima (Deus est in omnibus rebus, et intime)" (I, q. 8, q. 1).

 

5. Immutabilità: "Da quanto è stato prece­dentemente esposto si dimostra che Dio è assolutamente immutabile (...). Infatti tutto ciò che si muove acquista qualcosa in forza del suo movimento e arriva a ciò cui prima non arrivava. Ora, Dio, essendo infinito e racchiudendo in sé stesso in modo perfetto e universale la pienezza di tutto l’essere (ple­nitudinem perfectionis totius esse), nulla può acquistare né estendersi a qualcosa cui pri­ma non arrivava; in nessun modo quindi a lui conviene il movimento. Ecco perché an­che tra gli antichi, alcuni, quasi costretti dalla stessa verità affermarono l’immutabilità del primo principio" (I, q. 9, a. 1).

 

6. Eternità: "La nozione di eternità nasce dall’immutabilità, come quella di tempo de­riva dal movimento, come risulta da ciò che è stato detto. Quindi essendo Dio somma­mente immutabile, a lui in modo assoluto compete d’essere eterno. E non è soltanto eterno, ma è anche la sua stessa eternità, mentre nessun’altra cosa è la propria durata, perché non è il proprio essere. Dio invece è il suo stesso essere uniforme (Deus est suum esse uniforme),  e perciò com’è la sua essenza così è la sua eternità". (I, q. 10, a. 2).

 

      7. Unità: "L’uno è l’ente indiviso (ens indi­visum). Perciò perché una cosa sia massima­mente una occorre che sia massimamente ente e massimamente indivisa. Ora, l’una e l’a!tra condizione si verifica in Dio. Egli in­fatti è massimamente ente, perché non è en­te per avere un essere determinato da una qualche natura (o essenza) alla quale sia sta­to unito, ma perché è lo stesso essere sussi­stente, illimitato in tutti i sensi (est ipsum es­se subsistens, omnibus modis indetermina­tum). E' poi massimamente individuo, in quanto non è divisibile per nessun genere di divisione né in atto né in potenza, essendo semplice sotto tutti gli aspetti, come fu già dimostrato. È quindi evidente che Dio è sommamente uno" (I, q. 11, a. 4).

        

         8. Bontà: "Il bene è definito egregiamente da Aristotele come “ciò che tutti desidera­no”. Ora, tutte le cose desiderano di esistere nella loro piena attualità, secondo il modo loro proprio, come risulta dalla ripugnanza naturale che hanno alla distruzione; quindi l’esistenza in atto (esse actu) costituisce la ragione essenziale del bene. Per questo, dal­la privazione dell’atto nella potenza conse­gue un male, come dimostra Aristotele (Met. IX, lect. 19). Ma Dio è ente totalmen­te in atto, non in potenza come s’è visto so­pra. Dunque è veramente buono (...). Anzi, da questo può ricavarsi che Dio è la stessa bontà. Infatti, per qualunque cosa la pienez­za dell’essere, ossia l’essere in atto, è ciò che costituisce il suo bene; ora Dio non soltanto è un ente in atto, ma è il suo stesso essere (est ipsum suum esse) come si è dimostrato sopra. Perciò egli non soltanto è buono, ma è la stessa bontà" (C. G., I, cc. 37-38).

 

III.  VITA E OPERAZIONI DI DIO

 

Dopo avere accertato l’esistenza di Dio, definita la sua essenza e illustrati i suoi prin­cipali attributi, S. Tommaso passa a studiare la vita di Dio e le sue opere. Si tratta di una vita in­tensissima e di una serie di operazioni eccel­lenti, che si addicono al suo essere immate­riale, semplice, infinito, perfetto, buono, immutabile ecc.

 

A Dio competono due ordini di opera­zioni:

 

1)              ad intra: sono quelle che costitui­scono la vita intima di Dio, e si tratta preci­samente delle operazioni del conoscere e del volere;

 

2)              ad extra: esse riguardano i rappor­ti di Dio col mondo, e precisamente la crea­zione, la provvidenza e la conservazione. Qui esporremo brevemente il pensiero di S.Tommaso sulle operazioni ad intra; per le operazio­ni ad extra rimandiamo il lettore alle rispetti­ve voci.

 

       La conoscenza di Dio. Appartiene alla natura stessa dello spirito d’essere intelli­gente e libero, di comunicare con gli altri e di farlo con perfetta autonomia. La materia è cieca, tenebrosa e impenetrabile, ed è inoltre incatenata a leggi immutabili. Invece lo spirito è luminoso e mobilissimo, va dove vuole, è libero. È dalla condizione stessa della natura spirituale, che compete a Dio in modo sommo, che S. Tommaso deriva immediata­mente la sua dottrina sulla conoscenza e sul­la volontà di Dio.

 

In quanto spirito assoluto Dio è somma­mente conoscitivo. "A chiarimento di ciò bi­sogna considerare che gli esseri conoscitivi si distinguono dagli esseri non conoscitivi in questo, che i non conoscitivi non hanno che la propria forma; mentre quelli dotati di co­noscenza sono fatti per avere anche la forma di altre cose, giacché in chi conosce si trova l’immagine dell’oggetto conosciuto (...). Ma la limitazione viene dalla materia (...). Quindi, essendo Dio all’apice della immaterialità, come risulta chiaramente da ciò che precede, ne viene che egli sia anche all’apice del conoscere" (I, q. 14, a. 1).

 

Mentre nell’uomo il conoscere è altra cosa dall’essere (ora conosce, ora non cono­sce), in Dio essere e conoscere coincidono perfettamente: Dio è sempre in atto di esi­stere e di conoscere e, conseguentemente, non può avere che sé medesimo come ogget­to intelligibile, adeguato e sempre presente: perciò Dio conosce sé in se stesso. E si cono­sce perfettamente, cioè conosce totalmente se stesso. Conoscendosi perfettamente, Egli conosce anche ciò a cui può estendersi la sua virtù, conosce quindi tutte le cose, essendo­ne la causa, e le conosce non con cognizione generica, ma distinta e propria, e in se stesso vede anche le cose tutte insieme, mentre l’uomo conosce le cose una dopo l’altra, con scienza discorsiva (cfr. I, q. 14, aa. 2-7).

 

Dio sa tutto quello che può fare lui e an­che quello che possono fare, dire, pensare le creature; e, siccome Dio è eterno e per lui tutto è presente, egli conosce con scienza di visione quello che è presente o fu o sarà; in­vece conosce con scienza di semplice intelli­genza quello che non è presente e neppure fu o sarà, ma resta soltanto possibile. Cono­scendo il bene Dio conosce anche il male, che è o corruzione del bene o mancanza del bene (cfr. 1, q. 14, aa. 9-10).

 

In Dio la conoscenza delle cose, in quan­to le si aggiunge la volontà, è causa delle co­se e le cose esistono in quanto Dio le cono­sce e non già Dio le conosce perché esistono (cfr. I, q. 14, a. 8).

 

2. La volontà di Dio. S. Tommaso prova che a Dio compete oltre all’operazione del cono­scere anche quella del volere, richiamandosi al principio che ogni essere possiede l’incli­nazione verso ciò che giova alla propria au­torealizzazione. "Questa tendenza al bene negli esseri privi di conoscenza si chiama ap­petito naturale. E così anche gli esseri intelli­genti hanno una simile inclinazione al bene appreso mediante una specie intelligibile, in maniera che quando hanno questo bene, vi si riposano, quando non l’hanno lo ricerca­no. Questa duplice operazione appartiene alla volontà. Quindi in ogni essere che ha l’intelletto, c’è la volontà, come in ogni esse­re dotato di senso c’è l’appetito sensitivo. Perciò è necessario ammettere che in Dio vi è la volontà, essendovi l’intelletto. E come il suo conoscere coincide con l’essere, cosi è per il suo volere" (I, q. 19, a. 1). "A Dio compete avere volontà, essendo dotato di intelligenza. Ora, siccome egli intende me­diante la sua essenza, come s’è provato in precedenza, cosi ancora vuole. Pertanto la volontà di Dio è la sua stessa essenza" (C. G., I, c. 73).

 

Come l’oggetto del conoscere divino è anzitutto e soprattutto il proprio essere (Dio si diletta nella contemplazione di sé stesso) altrettanto oggetto primario e principale della volontà divina è l’infinita ricchezza del suo essere: Dio si compiace e gusta le perfe­zioni superlative e meravigliose del proprio essere. Infatti oggetto della volontà è il be­ne conosciuto. Ora il primo oggetto cono­sciuto da Dio è l’essenza divina. Dunque l’essenza divina è il termine a cui principal­mente si dirige la volontà divina (...). Inol­tre, per qualsiasi essere volente, l’oggetto principale voluto è il suo ultimo fine; poiché il fine è voluto in se stesso, e per esso si vo­gliono le altre cose (i mezzi). Ora l’ultimo fi­ne è Dio stesso, perché è il sommo bene; quindi egli è il principale oggetto voluto dal­la sua volontà" (C. G., I, c. 74).

 

Ma Dio non vuole e non ama soltanto sé stesso; con un unico atto egli vuole e ama ol­tre che sé stesso anche le cose, ma non allo stesso modo. Come infatti conosce le cose solo come imitazioni della divina essenza, così vuole e ama le cose come partecipazioni della divina bontà. Mentre però Dio vuole sé stesso necessariamente, le cose le vuole li­beramente. "La volontà divina ha un rap­porto necessario alla sua bontà, la quale è il suo oggetto proprio. Dio vuole dunque ne­cessariamente che esista la sua bontà, come la nostra volontà necessariamente vuole la felicità. Tutte le altre cose Dio le vuole in quanto sono ordinate alla sua bontà, come a loro fine (...). Siccome però la bontà di Dio è assolutamente perfetta in se stessa e può stare senza tutto il resto, non traendo da es­so nessun accrescimento di perfezione, ne segue che volere le cose da sé distinte non è necessario per Iddio di necessità assoluta. Tuttavia può divenire necessario in forza di un’ipotesi: supposto infatti che Dio le vo­glia, non può non volerle, perché la sua vo­lontà non può mutare" (I, q. 19, a. 3).

 

Studiando la volontà di Dio, S. Tommaso af­fronta anche il tormentoso problema del male e questa volta lo fa in modo più pro­fondo ed esauriente di quanto non avesse in­teso fare replicando a coloro che invocavano il fenomeno del male per negare l’esistenza di Dio (cfr. I, q. 2, a. 3, ad 1). S. Tommaso riaffer­ma il principio che il male non si può volere per sé ma soltanto in quanto congiunto con qualche bene. Questo principio si applica anche a Dio. Pertanto Dio, volendo la sua bontà sopra tutto, rigetta il male di colpa che è ad essa direttamente contrario; quanto agli altri mali, volendo Dio le altre cose in ordine a sé, può volere il male di pena in ordine alla giustizia e il male naturale in ordine alla provvidenza (I, q. 19, a. 9) (vedi: MALE).

 

   IV. TRINITA'

 

Già attingibile dalla ragione attraverso le vie della teologia naturale e della religio­ne, il mistero di Dio assume lineamenti più definiti e più avvincenti attraverso la Rivela­zione (unicità, onnipotenza, creazione, mi­sericordia, giustizia, amore, azione liberatri­ce ecc.). Lungo la storia della salvezza, at­traverso una vera e propria azione pedagogica, Dio stesso ha rivelato alla umanità l’uni­cità della sua natura e, con Gesù Cristo, la trinità delle persone (ipostasi).

 

Del mistero della Trinità, in quel pos­sente capolavoro speculativo che è il De Trinitate, S. Agostino aveva detto praticamente tutto quello che alla mente umana è consen­tito di dire: egli aveva trovato le formule giuste e le immagini appropriate per chiarire come in Dio sia possibile a un tempo la sus­sistenza di tre individui distinti e l’identità della natura, senza cadere nel politeismo. La felicissima intuizione di Agostino fu di collegare la sussistenza alla relazione: in Dio si hanno le tre persone del Padre, Figlio, Spirito Santo grazie alla sussistenza delle re­lazioni della Paternità, della Filiazione, del­la Spirazione passiva. Nella sostanza l’inse­gnamento trinitario di S. Tommaso ricalca fedel­mente quello di S. Agostino; la novità più si­gnificativa riguarda lo studio delle due ope­razioni specifiche e immanenti dello spirito umano, l’intellezione e la volizione. S. Tommaso fa vedere che la processione del Figlio ha luogo mediante l’intellezione e si tratta di una vera e propria generazione, mentre la processio­ne dello Spirito Santo ha luogo mediante la volizione comune del Padre e del Figlio, ma non si può chiamare generazione (I, q. 27, a. 4) (vedi: TRINITÀ ).

 

V. CONOSCIBILITA' E INEFFABILITA' DI DIO

 

Nella Summa S. Tommaso affronta questi pro­blemi, sempre antichi e sempre nuovi, a me­tà strada del suo studio su Dio: dopo aver trattato della esistenza, natura e attributi di Dio, e prima di iniziare la trattazione delle sue operazioni. La questione XII chiede in che modo noi conosciamo Dio (Quomodo Deus a nobis cognoscatur); la questione XIII tratta dei nomi di Dio (De nominibus Dei). Noi abbiamo preferito trasferire queste due questioni alla fine dell’esposizione del pen­siero di S. Tommaso su Dio. perché sono questioni che non riguardano la realtà di Dio bensì i poteri che l’uomo ha nei confronti di Dio: i poteri di conoscerlo e di nominarlo. Pertan­to si tratta di una verifica critica di quanto l’uomo pretende di fare con i suoi concetti e con le sue parole, applicandoli a Dio. In en­trambi i casi S. Tommaso si mantiene fermamente ancorato alla sua posizione gnoseologica (e, di conseguenza, anche semantica) del reali­smo moderato, e collega sia la conoscenza sia il linguaggio umano all’esperienza sensi­bile. Come s’è visto, le stesse prove dell’esi­stenza di Dio sono tratte dall’esperienza. Perciò la conoscenza che l’uomo acquisisce di Dio e i nomi che gli assegna non possono avere che un valore analogico (vedi: ANALO­GIA). Nessun concetto e nessuna parola esprime direttamente e adeguatamente ciò che Dio è in se stesso. Neppure il nome più proprio di Dio, l’Esse ipsum subsistens, ci consente di acquisire un concetto adeguato di Dio. Esso deve passare attraverso il filtro molto stretto della via negativa, la quale alla fine salva la res significata ma distrugge com­pletamente il modus significandi. Ecco due dichiarazioni molto esplicite di S. Tommaso a que­sto proposito: una è tratta dalla Summa, ri­guarda l’origine "empirica" e si riferisce alla purificazione di tutti i nostri concetti quando ce ne serviamo per intendere la realtà di Dio. "Noi non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature, come più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque ter­mine si dica di Dio e delle creature si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio come a principio e causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose"(1. q. 13, a. 5). "Noi ne­ghiamo anzitutto a Dio tutto quanto è cor­poreo e, secondariamente, quanto è intellet­tuale e mentale, almeno nel senso in cui questo elemento si trova nelle creature vi­venti, come, per esempio, bontà e sapienza. E allora resta nella nostra mente solo che Dio è e nulla più. Infine rimuoviamo anche l’idea dello stesso “essere”, così come questa idea di “essere” si trova presente nelle creature, e allora Dio rimane nell’oscura notte dell’i­gnoranza, ed è in questa ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio nella nostra vita, come di­ce Dionigi. Infatti in questa nebbia, dicono, abita Dio"(1 Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4).

 

La posizione che S. Tommaso assume circa i problemi della conoscibilità e della ineffabi­lità di Dio è una posizione intermedia tra un eccessivo apofatismo, che concede che su Dio si possa fare soltanto un discorso negati­vo, e un baldanzoso catafatismo, troppo fi­ducioso nelle possibilità umane di capire e di esprimere ciò che Dio è in se stesso.

 

A Maimonide, massimo esponente del­l’apofatismo ai suoi tempi, S. Tommaso replica che nella sua teoria "sparisce ogni differenza tra dire che Dio è sapiente, e dire che Dio si adi­ra o che Dio è fuoco. (...). Ma ciò contrasta con la posizione dei santi e dei profeti che hanno parlato di Dio, i quali approvano l’at­tribuzione a Dio di determinate cose, men­tre altre le escludono; concordano che Dio è vivo, sapiente e così via, ma negano che sia un corpo, oppure soggetto a passioni. Secondo la teoria di Maimonide si può dire e negare indiscriminatamente tutto, senza nessuna distinzione" (De Pot., q. 7, a. 5). Ma c’è di peggio, osserva S. Tommaso: se fosse vera la teoria di Maimonide, "prima della crea­zione, oppure nel caso che Dio non avesse creato il mondo, di Lui non si potrebbe dire né che è buono, né che è sapiente, né che è vivo ecc."’ (ibid.).

 

A coloro, poi che credono di sapere tut­to su Dio per il semplice motivo che su di Lui riusciamo a fare innumerevoli discorsi, l’Aquinate fa osservare che "è impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle creature univocamente. Poiché ogni effetto che non è proporzionato alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell’a­gente non secondo la stessa natura, ma im­perfettamente; in maniera che quanto negli effetti si trova diviso e molteplice, nella cau­sa è semplice e uniforme; così il sole me­diante un’unica energia produce nelle cose di quaggiù forme molteplici e svariate. Allo stesso modo, come si è detto, tutte le perfe­zioni delle cose, che nelle creature sono frammentarie e molteplici, in Dio preesisto­no in semplice unità. Così, dunque, quando un nome che indica perfezione si applica a una creatura, significa quella perfezione co­me distinta da altre, secondo la nozione espressa dalla definizione: per es., quando il termine sapiente lo attribuiamo all’uomo, in­dichiamo una perfezione distinta dall’essen­za dell’uomo e dalla sua potenza e dalla sua esistenza e da altre cose del genere. Quando invece attribuiamo questo nome a Dio, non intendiamo indicare qualche cosa di distinto dalla sua essenza, dalla sua potenza e dal suo essere (...). Quindi è chiaro che il termi­ne sapiente si dice di Dio e dell’uomo non secondo l’identico concetto formale. E così è per tutti gli altri nomi. Perciò nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature"’ (I, q. 13, a. 5).

 

In conclusione, nella sua dottrina sulla conoscenza di Dio e sulle possibilità del lin­guaggio teologico, S. Tommaso opera una felice sin­tesi tra la teologia negativa di ispirazione platonica e la teologia positiva di ispirazione aristotelica, giungendo alla conclusione che "tutto ciò che è conosciuto può anche essere espresso in parole (...). Ma poiché di Dio noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo imperfettamen­te, quasi balbettando" (I Sent., d. 22, q. 1, a. 1). E questo rivela il profondo senso del mi­stero, tipico d’ogni vero teologo, di cui era dotato il Dottore Angelico.

_____________________________________________________

 

         Battista Mondin.

         Dizionario enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D'Aquino,

         Edizioni Studio Domenicano, Bologna.

 

 

 

<<  <   6   7   8   9   10   >  >>

amicizia
bellezza
cuore
desiderio
emozione
felicita
gioia
intelligenza
lavoro
matrimonio
natura
oroscopo
persona
ragione
solidarieta
tenerezza
umorismo
virtu
zibaldone