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LETTERA ENCICLICA
CARITAS IN VERITATE
DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI
AI VESCOVI, AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
AI FEDELI LAICI E A TUTTI GLI UOMINI DI BUONA VOLONTÀ
SULLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE
NELLA CARITÀ E NELLA VERITÀ
INTRODUZIONE
1. La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto
testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e
risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni
persona e dell'umanità intera. L'amore — « caritas » — è una forza
straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità
nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in
Dio, Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al
progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto
infatti egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa
libero (cfr Gv 8,22). Difendere la verità, proporla con
umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti
e insostituibili di carità. Questa, infatti, « si compiace della verità » (1 Cor 13,6).
Tutti gli uomini avvertono l'interiore impulso ad amare in modo autentico:
amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione
posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e
libera dalle nostre povertà umane la ricerca dell'amore e della verità e ci
svela in pienezza l'iniziativa di amore e il progetto di vita vera che Dio ha
preparato per noi. In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto
della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella
verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr Gv 14,6).
2. La carità è la via maestra della dottrina sociale
della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono
attinti alla carità che, secondo l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di
tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40). Essa dà vera sostanza alla
relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle
micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche
delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa —
ammaestrata dal Vangelo — la carità è tutto perché, come insegna san Giovanni
(cfr 1 Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima
Lettera enciclica, « Dio è carità » (Deus caritas est): dalla carità di
Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La
carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e
nostra speranza.
Sono consapevole degli sviamenti
e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il
conseguente rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e,
in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale,
giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a
tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare e
a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità
con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della «
veritas in caritate » (Ef
4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in
veritate ». La verità va cercata, trovata ed espressa nell'« economia »
della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata
nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla
carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare
la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel
concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto oggi, in un
contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di
essa incurante e ad essa restio.
3. Per questo stretto collegamento con la verità, la
carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come
elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura
pubblica. Solo nella verità la carità risplende e può essere
autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità.
Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui
l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità:
ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza
verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio
vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una
cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni
contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare
il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che
la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di
respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette la dimensione
personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è
insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola.
4. Perché piena di verità, la carità può essere
dall'uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata.
La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi
comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle
opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là
delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione
del valore e della sostanza delle cose. La verità apre e unisce le
intelligenze nel lógos dell'amore: è, questo, l'annuncio e la
testimonianza cristiana della carità. Nell'attuale contesto sociale e
culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la
carità nella verità porta a comprendere che l'adesione ai valori del
Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione
di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale. Un Cristianesimo
di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di
buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo
modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la
verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di
relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno
sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le
operatività.
5. La carità è amore ricevuto e donato. Essa è «
grazia » (cháris). La sua scaturigine è l'amore sorgivo del Padre per
il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È
amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati.
Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e «
riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5). Destinatari
dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a
farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e
per tessere reti di carità.
A questa
dinamica di carità ricevuta e donata risponde la dottrina sociale della
Chiesa. Essa è « caritas in veritate in re sociali »: annuncio della
verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della
carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di
liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo,
verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia
dei due ambiti cognitivi. Lo sviluppo, il benessere sociale, un'adeguata
soluzione dei gravi problemi socio-economici che affliggono l'umanità, hanno
bisogno di questa verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità sia amata e
testimoniata. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c'è
coscienza e responsabilità sociale, e l'agire sociale cade in balia di
privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla
società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti
difficili come quelli attuali.
6. « Caritas in veritate » è principio
intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende
forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale. Ne desidero
richiamare due in particolare, dettati in special modo dall'impegno per lo
sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene
comune.
La giustizia
anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio
sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è
donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la
quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione
del suo essere e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del mio,
senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi
ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la
giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o
parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » [1], intrinseca
ad essa. La giustizia è la prima via della carità o, com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa [2], parte
integrante di quell'amore « coi fatti e nella verità » (1 Gv
3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni. Da una parte,
la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi
diritti degli individui e dei popoli. Essa s'adopera per la costruzione della
“città dell'uomo” secondo diritto e giustizia. Dall'altra, la carità supera
la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono [3]. La “città dell'uomo” non è promossa solo da
rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di
gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche
nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a
ogni impegno di giustizia nel mondo.
7. Bisogna poi tenere in grande
considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e
adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene
legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”,
formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità
sociale [4]. Non è un
bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della
comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire
il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è
esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è
prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di
istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente,
culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis,
di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si
adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni. Ogni
cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo
le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via
istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno
qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo
direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando
la carità lo anima, l'impegno per il bene comune ha una valenza superiore a
quella dell'impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la
giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza della carità divina che,
operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo sulla terra, quando
è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione di quella
universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia
umana. In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno
per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana,
vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni [5], così da
dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in
qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di
Dio.
8. Pubblicando nel 1967 l'Enciclica
Populorum progressio, il mio
venerato predecessore Paolo VI ha illuminato il grande tema dello
sviluppo dei popoli con lo splendore della verità e con la luce soave della
carità di Cristo. Egli ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e
principale fattore di sviluppo [6] e ci ha
lasciato la consegna di camminare sulla strada dello sviluppo con tutto il
nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza [7], vale a dire
con l'ardore della carità e la sapienza della verità. È la verità originaria
dell'amore di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al dono e
rende possibile sperare in uno « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli
uomini » [8], in un passaggio « da condizioni meno umane a
condizioni più umane » [9], ottenuto
vincendo le difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino.
A
oltre quarant'anni dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo rendere
omaggio e tributare onore alla memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti
sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi
tracciato, per attualizzarli nell'ora presente. Questo processo di
attualizzazione iniziò con l'Enciclica Sollicitudo rei socialis, con cui il
Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione
della Populorum progressio in occasione
del suo ventennale. Fino ad allora, una simile commemorazione era stata
riservata solo alla Rerum novarum. Passati altri vent'anni, esprimo
la mia convinzione che la Populorum progressio merita di
essere considerata come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che
illumina il cammino dell'umanità in via di unificazione.
9. L'amore nella verità — caritas in veritate
— è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva
globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di
fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle
coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno
sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della
ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati
di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle
risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo
progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di
amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla
reciprocità delle coscienze e delle libertà.
La Chiesa non
ha soluzioni tecniche da offrire [10] e non
pretende « minimamente d'intromettersi nella politica degli Stati » [11]. Ha però una
missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a
misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione. Senza verità si
cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi
sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i
significati — con cui giudicarla e orientarla. La fedeltà all'uomo esige la
fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno
sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l'annunzia
instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di
verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento
singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera. Aperta
alla verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa
l'accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media
nel vissuto sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli [12].
CAPITOLO PRIMO
IL MESSAGGIO
DELLA
POPULORUM PROGRESSIO
10. La rilettura della Populorum progressio, a oltre
quarant'anni dalla pubblicazione, sollecita a rimanere fedeli al suo
messaggio di carità e di verità, considerandolo nell'ambito dello specifico
magistero di Paolo VI e, più in generale, dentro la
tradizione della dottrina sociale della Chiesa. Sono poi da valutare i
diversi termini in cui oggi, a differenza da allora, si pone il problema
dello sviluppo. Il corretto punto di vista, dunque, è quello della Tradizione
della fede apostolica [13], patrimonio
antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici e le questioni
dello sviluppo si ridurrebbero unicamente a dati sociologici.
11. La pubblicazione della Populorum progressio avvenne
immediatamente dopo la conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. La stessa
Enciclica segnala, nei primi paragrafi, il suo intimo rapporto con il Concilio [14]. Giovanni Paolo II, vent'anni dopo, nella Sollicitudo rei socialis sottolineava, a sua volta, il fecondo rapporto di
quella Enciclica con il Concilio e, in particolare, con la Costituzione pastorale Gaudium et spes [15]. Anch'io
desidero ricordare qui l'importanza del Concilio Vaticano II per
l'Enciclica di Paolo VI e per tutto
il successivo Magistero sociale dei Sommi Pontefici. Il Concilio approfondì
quanto appartiene da sempre alla verità della fede, ossia che la Chiesa,
essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di
verità. Proprio da questa visione partiva Paolo VI per
comunicarci due grandi verità. La prima è che tutta la Chiesa, in tutto il
suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è
tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo. Essa ha un ruolo
pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di
educazione, ma rivela tutte le proprie energie a servizio della promozione
dell'uomo e della fraternità universale quando può valersi di un regime di
libertà. In non pochi casi tale libertà è impedita da divieti e da
persecuzioni o è anche limitata quando la presenza pubblica della Chiesa
viene ridotta unicamente alle sue attività caritative. La seconda verità è
che l'autentico sviluppo dell'uomo riguarda unitariamente la totalità
della persona in ogni sua dimensione [16]. Senza la prospettiva di una vita eterna, il
progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro. Chiuso dentro la
storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere;
l'umanità perde così il coraggio di essere disponibile per i beni più alti,
per le grandi e disinteressate iniziative sollecitate dalla carità
universale. L'uomo non si sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo
gli può essere semplicemente dato dall'esterno. Lungo la storia, spesso si è
ritenuto che la creazione di istituzioni fosse sufficiente a garantire
all'umanità il soddisfacimento del diritto allo sviluppo. Purtroppo, si è
riposta un'eccessiva fiducia in tali istituzioni, quasi che esse potessero
conseguire l'obiettivo desiderato in maniera automatica. In realtà, le
istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è
anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di
responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una
visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo
sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell'uomo, che
cade nella presunzione dell'auto-salvezza e finisce per promuovere uno
sviluppo disumanizzato. D'altronde, solo l'incontro con Dio permette di non
“vedere nell'altro sempre soltanto l'altro” [17], ma di
riconoscere in lui l'immagine divina, giungendo così a scoprire veramente
l'altro e a maturare un amore che “diventa cura dell'altro e per l'altro”[18].
12. Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non
rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi
predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di
tale magistero nella continuità della vita della Chiesa [19]. In questo
senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della
dottrina sociale della Chiesa che applicano all'insegnamento sociale
pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina
sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un
unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo [20]. È giusto
rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento
dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza
dell'intero corpus dottrinale [21]. Coerenza non significa chiusura in un sistema,
quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale
della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che
emergono [22]. Ciò
salvaguarda il carattere sia permanente che storico di questo « patrimonio »
dottrinale [23] che, con le sue specifiche caratteristiche, fa
parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa [24]. La dottrina
sociale è costruita sopra il fondamento trasmesso dagli Apostoli ai Padri
della Chiesa e poi accolto e approfondito dai grandi Dottori cristiani. Tale
dottrina si rifà in definitiva all'Uomo nuovo, all'« ultimo Adamo che divenne
spirito datore di vita » (1 Cor 15,45) e che è
principio della carità che « non avrà mai fine » (1 Cor 13,8). È
testimoniata dai Santi e da quanti hanno dato la vita per Cristo Salvatore
nel campo della giustizia e della pace. In essa si esprime il compito
profetico dei Sommi Pontefici di guidare apostolicamente la Chiesa di Cristo
e di discernere le nuove esigenze dell'evangelizzazione. Per queste ragioni,
la Populorum progressio, inserita
nella grande corrente della Tradizione, è in grado di parlare ancora a noi,
oggi.
13. Oltre al suo importante legame con l'intera
dottrina sociale della Chiesa, la Populorum progressio è
strettamente connessa con il magistero complessivo di Paolo VI e, in particolare, con il suo
magistero sociale. Il suo fu certo un insegnamento sociale di grande
rilevanza: egli ribadì l'imprescindibile importanza del Vangelo per la
costruzione della società secondo libertà e giustizia, nella prospettiva
ideale e storica di una civiltà animata dall'amore. Paolo VI comprese chiaramente come la
questione sociale fosse diventata mondiale [25] e colse il
richiamo reciproco tra la spinta all'unificazione dell'umanità e l'ideale
cristiano di un'unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità.
Indicò nello sviluppo, umanamente e cristianamente inteso, il cuore del
messaggio sociale cristiano e propose la carità cristiana come principale
forza a servizio dello sviluppo. Mosso dal desiderio di rendere l'amore di
Cristo pienamente visibile all'uomo contemporaneo, Paolo VI affrontò con fermezza importanti questioni etiche,
senza cedere alle debolezze culturali del suo tempo.
14. Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971, Paolo VI trattò poi il tema del senso della
politica e del pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche
che ne pregiudicavano la qualità etica e umana. Sono argomenti strettamente
collegati con lo sviluppo. Purtroppo le ideologie negative fioriscono in
continuazione. Dall'ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia [26], consapevole
del grande pericolo di affidare l'intero processo dello sviluppo alla sola
tecnica, perché in tal modo rimarrebbe senza orientamento. La tecnica, presa
in se stessa, è ambivalente. Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad
affidarle interamente detto processo di sviluppo, dall'altro si assiste
all'insorgenza di ideologie che negano in toto l'utilità stessa dello
sviluppo, ritenuto radicalmente anti-umano e portatore solo di degradazione.
Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui
gli uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte
scientifiche, che, se ben usate, costituiscono invece un'opportunità di
crescita per tutti. L'idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia
nell'uomo e in Dio. È, quindi, un grave errore disprezzare le capacità umane
di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che
l'uomo è costitutivamente proteso verso l'« essere di più ». Assolutizzare
ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare l'utopia di
un'umanità tornata all'originario stato di natura sono due modi opposti per
separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra
responsabilità.
15. Altri due documenti di Paolo VI non strettamente connessi con la
dottrina sociale — l'Enciclica Humanae vitae, del 25 luglio 1968, e
l'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell'8
dicembre 1975 — sono molto importanti per delineare il senso pienamente
umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa. È quindi opportuno leggere
anche questi testi in relazione con la Populorum progressio.
L'Enciclica
Humanae vitae sottolinea il significato insieme
unitivo e procreativo della sessualità, ponendo così a fondamento della
società la coppia degli sposi, uomo e donna, che si accolgono reciprocamente
nella distinzione e nella complementarità; una coppia, dunque, aperta alla
vita [27]. Non si
tratta di morale meramente individuale: la Humanae vitae indica i forti
legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una
tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo
nell'Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II [28]. La Chiesa
propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale
nella consapevolezza che non può “avere solide basi una società che — mentre
afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si
contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di
disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”
[29].
L'Esortazione
apostolica Evangelii nuntiandi, per parte
sua, ha un rapporto molto intenso con lo sviluppo, in quanto «
l'evangelizzazione — scriveva Paolo VI — non sarebbe completa se non
tenesse conto del reciproco appello, che si fanno continuamente il Vangelo e
la vita concreta, personale e sociale, dell'uomo » [30]. « Tra
evangelizzazione e promozione umana — sviluppo, liberazione — ci sono infatti
dei legami profondi » [31]: partendo da
questa consapevolezza, Paolo VI poneva in
modo chiaro il rapporto tra l'annuncio di Cristo e la promozione della
persona nella società. La testimonianza della carità di Cristo attraverso
opere di giustizia, pace e sviluppo fa parte della evangelizzazione,
perché a Gesù Cristo, che ci ama, sta a cuore tutto l'uomo. Su questi
importanti insegnamenti si fonda l'aspetto missionario [32] della dottrina sociale della Chiesa come elemento
essenziale di evangelizzazione [33]. La dottrina
sociale della Chiesa è annuncio e testimonianza di fede. È strumento e luogo
imprescindibile di educazione ad essa.
16. Nella Populorum progressio, Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto,
che il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua essenza, una
vocazione: « Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo,
perché ogni vita è vocazione » [34]. È proprio
questo fatto a legittimare l'intervento della Chiesa nelle problematiche
dello sviluppo. Se esso riguardasse solo aspetti tecnici della vita
dell'uomo, e non il senso del suo camminare nella storia assieme agli altri
suoi fratelli né l'individuazione della meta di tale cammino, la Chiesa non
avrebbe titolo per parlarne. Paolo VI, come già Leone XIII nella Rerum novarum [35], era
consapevole di assolvere un dovere proprio del suo ufficio proiettando la
luce del Vangelo sulle questioni sociali del suo tempo [36].
Dire
che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che
esso nasce da un appello trascendente e, dall'altra, che è incapace di darsi
da sé il proprio significato ultimo. Non senza motivo la parola « vocazione »
ricorre anche in un altro passo dell'Enciclica, ove si afferma: « Non vi è
dunque umanesimo vero se non aperto verso l'Assoluto, nel riconoscimento
d'una vocazione, che offre l'idea vera della vita umana » [37]. Questa
visione dello sviluppo è il cuore della Populorum progressio e motiva tutte le riflessioni di Paolo VI sulla libertà, sulla verità e sulla carità nello
sviluppo. È anche la ragione principale per cui quell'Enciclica è ancora
attuale ai nostri giorni.
17. La vocazione è un appello che richiede una
risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano integrale suppone la
libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può
garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana.
I « messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni » [38] fondano
sempre le proprie proposte sulla negazione della dimensione trascendente
dello sviluppo, nella sicurezza di averlo tutto a propria disposizione.
Questa falsa sicurezza si tramuta in debolezza, perché comporta
l'asservimento dell'uomo ridotto a mezzo per lo sviluppo, mentre l'umiltà di
chi accoglie una vocazione si trasforma in vera autonomia, perché rende
libera la persona. Paolo VI non ha dubbi che ostacoli e condizionamenti
frenino lo sviluppo, ma è anche certo che « ciascuno rimane, qualunque siano
le influenze che si esercitano su di lui, l'artefice della sua riuscita o del
suo fallimento » [39]. Questa
libertà riguarda lo sviluppo che abbiamo davanti a noi ma,
contemporaneamente, riguarda anche le situazioni di sottosviluppo, che non
sono frutto del caso o di una necessità storica, ma dipendono dalla
responsabilità umana. È per questo che « i popoli della fame interpellano
oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza » [40]. Anche questo è vocazione, un appello rivolto da
uomini liberi a uomini liberi per una comune assunzione di responsabilità. Fu
viva in Paolo VI la percezione dell'importanza delle strutture
economiche e delle istituzioni, ma altrettanto chiara fu in lui la percezione
della loro natura di strumenti della libertà umana. Solo se libero, lo
sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà
responsabile esso può crescere in maniera adeguata.
18. Oltre a richiedere la libertà, lo sviluppo
umano integrale come vocazione esige anche che se ne rispetti la verità.
La vocazione al progresso spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di
più, per essere di più » [41]. Ma ecco il
problema: che cosa significa « essere di più »? Alla domanda Paolo VI risponde indicando la connotazione essenziale
dell'« autentico sviluppo »: esso « deve essere integrale, il che vuol dire
volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo » [42]. Nella
concorrenza tra le varie visioni dell'uomo, che vengono proposte nella
società di oggi ancor più che in quella di Paolo VI, la visione
cristiana ha la peculiarità di affermare e giustificare il valore
incondizionato della persona umana e il senso della sua crescita. La
vocazione cristiana allo sviluppo aiuta a perseguire la promozione di tutti
gli uomini e di tutto l'uomo. Scriveva Paolo VI: « Ciò che
conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere
l'umanità tutta intera » [43]. La fede cristiana si occupa dello sviluppo non
contando su privilegi o su posizioni di potere e neppure sui meriti dei
cristiani, che pure ci sono stati e ci sono anche oggi accanto a naturali
limiti [44], ma solo su
Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo sviluppo umano
integrale. Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo, perché
in esso Cristo, « rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l'uomo all'uomo » [45]. Ammaestrata dal suo Signore, la Chiesa scruta i
segni dei tempi e li interpreta ed offre al mondo « ciò che possiede in
proprio: una visione globale dell'uomo e dell'umanità » [46]. Proprio
perché Dio pronuncia il più grande « sì » all'uomo [47], l'uomo non può fare a meno di aprirsi alla
vocazione divina per realizzare il proprio sviluppo. La verità dello sviluppo
consiste nella sua integralità: se non è di tutto l'uomo e di ogni uomo, lo
sviluppo non è vero sviluppo. Questo è il messaggio centrale della Populorum progressio, valido oggi e sempre. Lo sviluppo umano integrale
sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore [48], domanda il
proprio inveramento in un « umanesimo trascendente, che ... conferisce
[all'uomo] la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello
sviluppo personale » [49]. La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda
dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale; motivo per cui, «
quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l'ordine
naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire » [50].
19. Infine, la visione dello sviluppo
come vocazione comporta la centralità in esso della carità. Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio osservava che
le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale. Egli
ci invitava a ricercarle in altre dimensioni dell'uomo. Nella volontà, prima
di tutto, che spesso disattende i doveri della solidarietà. Nel pensiero, in
secondo luogo, che non sempre sa orientare convenientemente il volere. Per
questo, nel perseguimento dello sviluppo, servono « uomini di pensiero capaci
di riflessione profonda, votati alla ricerca d'un umanesimo nuovo, che
permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso » [51]. Ma non è
tutto. Il sottosviluppo ha una causa ancora più importante della carenza di
pensiero: è « la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli » [52]. Questa
fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli? La società sempre più
globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola,
è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una
convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha
origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per
primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna. Paolo VI, presentando
i vari livelli del processo di sviluppo dell'uomo, poneva al vertice, dopo
aver menzionato la fede, « l'unità nella carità del Cristo che ci chiama
tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di
tutti gli uomini » [53].
20. Queste prospettive, aperte dalla
Populorum progressio, rimangono
fondamentali per dare respiro e orientamento al nostro impegno per lo
sviluppo dei popoli. La Populorum progressio, poi,
sottolinea ripetutamente l'urgenza delle riforme [54] e chiede che
davanti ai grandi problemi dell'ingiustizia nello sviluppo dei popoli si
agisca con coraggio e senza indugio. Questa urgenza è dettata anche dalla
carità nella verità. È la carità di Cristo che ci spinge: « caritas
Christi urget nos » (2 Cor 5,14). L'urgenza è inscritta non solo
nelle cose, non deriva soltanto dall'incalzare degli avvenimenti e dei
problemi, ma anche dalla stessa posta in palio: la realizzazione di
un'autentica fraternità. La rilevanza di questo obiettivo è tale da esigere
la nostra apertura a capirlo fino in fondo e a mobilitarci in concreto con il
« cuore », per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso
esiti pienamente umani.
CAPITOLO
SECONDO
LO
SVILUPPO UMANO
NEL
NOSTRO TEMPO
21. Paolo VI aveva una visione articolata
dello sviluppo. Con il termine « sviluppo » voleva indicare l'obiettivo
di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie
endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava
la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico
internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società
istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi
democratici in grado di assicurare libertà e pace. Dopo tanti anni, mentre
guardiamo con preoccupazione agli sviluppi e alle prospettive delle crisi che
si susseguono in questi tempi, ci domandiamo quanto le aspettative di
Paolo VI siano state soddisfatte dal modello di sviluppo che è stato
adottato negli ultimi decenni. Riconosciamo pertanto che erano fondate le
preoccupazioni della Chiesa sulle capacità dell'uomo solo tecnologico di
sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli
strumenti a disposizione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è
orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto
sul come utilizzarlo. L'esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e
senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e
creare povertà. Lo sviluppo economico che auspicava Paolo VI doveva essere tale da produrre una
crescita reale, estensibile a tutti e concretamente sostenibile. È vero che
lo sviluppo c'è stato e continua ad essere un fattore positivo che ha tolto
dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti Paesi la
possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale. Va
tuttavia riconosciuto che lo stesso sviluppo economico è stato e continua ad
essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi
ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi. Essa ci pone
improrogabilmente di fronte a scelte che riguardano sempre più il destino
stesso dell'uomo, il quale peraltro non può prescindere dalla sua natura. Le
forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri
sull'economia reale di un'attività finanziaria mal utilizzata e per lo più
speculativa, gli imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi
adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra,
ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a
problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI, ma anche, e soprattutto, di
impatto decisivo per il bene presente e futuro dell'umanità. Gli aspetti
della crisi e delle sue soluzioni, nonché di un futuro nuovo possibile
sviluppo, sono sempre più interconnessi, si implicano a vicenda, richiedono
nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica.
La complessità e gravità dell'attuale situazione economica giustamente ci preoccupa,
ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità
a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo
rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire
un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a
darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle
esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così
occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave,
fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del
momento presente.
22. Oggi il quadro dello sviluppo è policentrico.
Gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono
molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati. Questo dato dovrebbe
spingere a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso
la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei
problemi. La linea di demarcazione tra Paesi ricchi e poveri non è più così
netta come ai tempi della Populorum progressio, secondo
quanto già aveva segnalato Giovanni Paolo II [55]. Cresce
la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei
Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove
povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di
supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile
con perduranti situazioni di miseria disumanizzante. Continua « lo scandalo
di disuguaglianze clamorose » [56]. La
corruzione e l'illegalità sono purtroppo presenti sia nel comportamento di
soggetti economici e politici dei Paesi ricchi, vecchi e nuovi, sia negli
stessi Paesi poveri. A non rispettare i diritti umani dei lavoratori sono a
volte grandi imprese transnazionali e anche gruppi di produzione locale. Gli
aiuti internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per
irresponsabilità che si annidano sia nella catena dei soggetti donatori sia
in quella dei fruitori. Anche nell'ambito delle cause immateriali o culturali
dello sviluppo e del sottosviluppo possiamo trovare la medesima articolazione
di responsabilità. Ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da
parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di
proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario. Nello stesso
tempo, in alcuni Paesi poveri persistono modelli culturali e norme sociali di
comportamento che rallentano il processo di sviluppo.
23. Molte aree del pianeta, oggi,
seppure in modo problematico e non omogeneo, si sono evolute, entrando nel
novero delle grandi potenze destinate a giocare ruoli importanti nel futuro.
Va tuttavia sottolineato come non sia sufficiente progredire solo da un
punto di vista economico e tecnologico. Bisogna che lo sviluppo sia
anzitutto vero e integrale. L'uscita dall'arretratezza economica, un dato in
sé positivo, non risolve la complessa problematica della promozione
dell'uomo, né per i Paesi protagonisti di questi avanzamenti, né per i Paesi
economicamente già sviluppati, né per quelli ancora poveri, i quali possono
soffrire, oltre che delle vecchie forme di sfruttamento, anche delle
conseguenze negative derivanti da una crescita contrassegnata da distorsioni
e squilibri.
Dopo
il crollo dei sistemi economici e politici dei Paesi comunisti dell'Europa
orientale e la fine dei cosiddetti “blocchi contrapposti”, sarebbe stato
necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo. Lo aveva chiesto Giovanni Paolo II, il quale nel 1987 aveva indicato
l'esistenza di questi “blocchi” come una delle principali cause del
sottosviluppo [57], in quanto
la politica sottraeva risorse all'economia e alla cultura e l'ideologia
inibiva la libertà. Nel 1991, dopo gli avvenimenti del 1989, egli chiese
anche che, alla fine dei “blocchi”, corrispondesse una riprogettazione
globale dello sviluppo, non solo in quei Paesi, ma anche in Occidente e in
quelle parti del mondo che andavano evolvendosi [58]. Questo è
avvenuto solo in parte e continua ad essere un reale dovere al quale occorre
dare soddisfazione, magari profittando proprio delle scelte necessarie a
superare gli attuali problemi economici.
24. Il mondo che Paolo VI aveva davanti a sé, benché il
processo di socializzazione fosse già avanzato così che egli poteva parlare
di una questione sociale divenuta mondiale, era ancora molto meno integrato
di quello odierno. Attività economica e funzione politica si svolgevano in
gran parte dentro lo stesso ambito spaziale e potevano quindi fare reciproco
affidamento. L'attività produttiva avveniva prevalentemente all'interno dei
confini nazionali e gli investimenti finanziari avevano una circolazione
piuttosto limitata all'estero, sicché la politica di molti Stati poteva
ancora fissare le priorità dell'economia e, in qualche modo, governarne
l'andamento con gli strumenti di cui ancora disponeva. Per questo motivo la
Populorum progressio assegnava un
compito centrale, anche se non esclusivo, ai « poteri pubblici » [59].
Nella
nostra epoca, lo Stato si trova nella situazione di dover far fronte alle
limitazioni che alla sua sovranità frappone il nuovo contesto
economico-commerciale e finanziario internazionale, contraddistinto anche da
una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione
materiali ed immateriali. Questo nuovo contesto ha modificato il potere
politico degli Stati.
Oggi,
facendo anche tesoro della lezione che ci viene dalla crisi economica in atto
che vede i pubblici poteri dello Stato impegnati direttamente a correggere
errori e disfunzioni, sembra più realistica una rinnovata valutazione del
loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente riconsiderati e
rivalutati in modo che siano in grado, anche attraverso nuove modalità di
esercizio, di far fronte alle sfide del mondo odierno. Con un meglio
calibrato ruolo dei pubblici poteri, è prevedibile che si rafforzino quelle
nuove forme di partecipazione alla politica nazionale e internazionale che si
realizzano attraverso l'azione delle Organizzazioni operanti nella società
civile; in tale direzione è auspicabile che crescano un'attenzione e una
partecipazione più sentite alla res publica da parte dei cittadini.
25. Dal punto di vista sociale, i sistemi
di protezione e previdenza, già presenti ai tempi di Paolo VI in molti Paesi, faticano e
potrebbero faticare ancor più in futuro a perseguire i loro obiettivi di vera
giustizia sociale entro un quadro di forze profondamente mutato. Il mercato
diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte di Paesi ricchi, la
ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di
ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e accelerare
pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio
mercato interno. Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove di
competizione tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi di imprese
straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco favorevole e la deregolamentazione
del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato la riduzione delle
reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi
competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei
lavoratori, per i diritti fondamentali dell'uomo e per la solidarietà attuata
nelle tradizionali forme dello Stato sociale. I sistemi di sicurezza sociale
possono perdere la capacità di assolvere al loro compito, sia nei Paesi
emergenti, sia in quelli di antico sviluppo, oltre che nei Paesi poveri. Qui
le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale, spesso anche
promossi dalle Istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare i
cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è
accresciuta dalla mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni
dei lavoratori. L'insieme dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le
organizzazioni sindacali sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il
loro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, anche per il
fatto che i Governi, per ragioni di utilità economica, limitano spesso le
libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati stessi. Le reti di
solidarietà tradizionali trovano così crescenti ostacoli da superare. L'invito
della dottrina sociale della Chiesa, cominciando dalla Rerum novarum [60], a dar vita
ad associazioni di lavoratori per la difesa dei propri diritti va pertanto
onorato oggi ancor più di ieri, dando innanzitutto una risposta pronta e
lungimirante all'urgenza di instaurare nuove sinergie a livello
internazionale, oltre che locale.
La
mobilità lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata, è
stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi perché capace di
stimolare la produzione di nuova ricchezza e lo scambio tra culture diverse.
Tuttavia, quando l'incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza
dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si creano
forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi
coerenti nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio.
Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di
spreco sociale. Rispetto a quanto accadeva nella società industriale del
passato, oggi la disoccupazione provoca aspetti nuovi di irrilevanza
economica e l'attuale crisi può solo peggiorare tale situazione.
L'estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure la dipendenza prolungata
dall'assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della
persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano
psicologico e spirituale. Desidererei ricordare a tutti, soprattutto ai
governanti impegnati a dare un profilo rinnovato agli assetti economici e
sociali del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è
l'uomo, la persona, nella sua integrità: “L'uomo infatti è l'autore, il
centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” [61].
26. Sul piano culturale, rispetto
all'epoca di Paolo VI, la differenza è ancora più
marcata. Allora le culture erano piuttosto ben definite e avevano maggiori
possibilità di difendersi dai tentativi di omogeneizzazione culturale. Oggi
le possibilità di interazione tra le culture sono notevolmente
aumentate dando spazio a nuove prospettive di dialogo interculturale, un
dialogo che, per essere efficace, deve avere come punto di partenza l'intima
consapevolezza della specifica identità dei vari interlocutori. Non va
tuttavia trascurato il fatto che l'accresciuta mercificazione degli scambi
culturali favorisce oggi un duplice pericolo. Si nota, in primo luogo, un eclettismo
culturale assunto spesso acriticamente: le culture vengono semplicemente
accostate e considerate come sostanzialmente equivalenti e tra loro
interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento ad un relativismo che non aiuta
il vero dialogo interculturale; sul piano sociale il relativismo culturale fa
sì che i gruppi culturali si accostino o convivano ma separati, senza dialogo
autentico e, quindi, senza vera integrazione. In secondo luogo, esiste il
pericolo opposto, che è costituito dall'appiattimento culturale e
dall'omologazione dei comportamenti e degli stili di vita. In questo modo
viene perduto il significato profondo della cultura delle varie Nazioni,
delle tradizioni dei vari popoli, entro le quali la persona si misura con le
domande fondamentali dell'esistenza [62]. Eclettismo
e appiattimento culturale convergono nella separazione della cultura dalla
natura umana. Così, le culture non sanno più trovare la loro misura in una
natura che le trascende [63], finendo per
ridurre l'uomo a solo dato culturale. Quando questo avviene, l'umanità corre
nuovi pericoli di asservimento e di manipolazione.
27. In molti Paesi poveri permane e
rischia di accentuarsi l'estrema insicurezza di vita, che è conseguenza della
carenza di alimentazione: la fame miete ancora moltissime vittime tra
i tanti Lazzaro ai quali non è consentito, come aveva auspicato Paolo VI, di sedersi alla mensa del ricco
epulone [64]. Dare da
mangiare agli affamati (cfr Mt 25,
35.37.42) è un
imperativo etico per la Chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di
solidarietà e di condivisione del suo Fondatore, il Signore Gesù. Inoltre,
eliminare la fame nel mondo è divenuto, nell'era della globalizzazione, anche
un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del
pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da
scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura
istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia
di garantire un accesso al cibo e all'acqua regolare e adeguato dal punto di
vista nutrizionale, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni
primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da
cause naturali o dall'irresponsabilità politica nazionale e internazionale.
Il problema dell'insicurezza alimentare va affrontato in una prospettiva di
lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo
lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in
infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in
organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole
appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e
socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale, in modo da
garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo. Tutto ciò va
realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni
relative all'uso della terra coltivabile. In tale prospettiva, potrebbe
risultare utile considerare le nuove frontiere che vengono aperte da un
corretto impiego delle tecniche di produzione agricola tradizionali e di
quelle innovative, supposto che esse siano state dopo adeguata verifica
riconosciute opportune, rispettose dell'ambiente e attente alle popolazioni
più svantaggiate. Al tempo stesso, non dovrebbe venir trascurata la questione
di un'equa riforma agraria nei Paesi in via di sviluppo. Il diritto
all'alimentazione, così come quello all'acqua, rivestono un ruolo importante
per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto
primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale
che consideri l'alimentazione e l'accesso all'acqua come diritti
universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni
[65]. È
importante inoltre evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei
Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in
atto, come uomini politici e responsabili di Istituzioni internazionali hanno
negli ultimi tempi intuito. Sostenendo mediante piani di finanziamento
ispirati a solidarietà i Paesi economicamente poveri, perché provvedano essi
stessi a soddisfare le domande di beni di consumo e di sviluppo dei propri
cittadini, non solo si può produrre vera crescita economica, ma si può anche
concorrere a sostenere le capacità produttive dei Paesi ricchi che rischiano
di esser compromesse dalla crisi.
28. Uno degli aspetti più evidenti
dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita,
che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo
sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta
assumendo una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti
di povertà [66] e di
sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita,
soprattutto là dove essa è in vario modo impedita.
Non
solo la situazione di povertà provoca ancora in molte regioni alti tassi di
mortalità infantile, ma perdurano in varie parti del mondo pratiche di
controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la
contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei Paesi economicamente
più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e
hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere
una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri
Stati come se fosse un progresso culturale.
Alcune
Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione
dell'aborto, promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione della pratica
della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato
sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a
determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l'imposizione di un forte
controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì tanto le legislazioni che
prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali e
internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico.
L'apertura
alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una
società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per
non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a
servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e
sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di
accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono [67]. L'accoglienza della vita tempra
le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco. Coltivando l'apertura
alla vita, i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità di quelli
poveri, evitare di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per
soddisfare desideri egoistici tra i propri cittadini e promuovere, invece,
azioni virtuose nella prospettiva di una produzione moralmente sana e solidale,
nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla
vita.
29. C'è un altro aspetto della vita
di oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del
diritto alla libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai
conflitti che nel mondo ancora si combattono per motivazioni religiose, anche
se talvolta quella religiosa è solo la copertura di ragioni di altro genere,
quali la sete di dominio e di ricchezza. Di fatto, oggi spesso si uccide nel
nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente rilevato e deplorato
dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso [68]. Le violenze
frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un
maggiore benessere socio-economico e spirituale. Ciò si applica specialmente
al terrorismo a sfondo fondamentalista [69], che genera
dolore, devastazione e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie
grandi risorse dal loro impiego pacifico e civile. Va però aggiunto che,
oltre al fanatismo religioso che in alcuni contesti impedisce l'esercizio del
diritto di libertà di religione, anche la promozione programmata
dell'indifferenza religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti Paesi
contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse
spirituali e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo,
in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente
dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”. L'uomo non è
un atomo sperduto in un universo casuale [70], ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto
donare un'anima immortale e che ha da sempre amato. Se l'uomo fosse solo
frutto o del caso o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sue
aspirazioni all'orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto
fosse solo storia e cultura, e l'uomo non avesse una natura destinata a
trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o
di evoluzione, ma non di sviluppo. Quando lo Stato promuove, insegna, o
addirittura impone, forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la
forza morale e spirituale indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano
integrale e impedisce loro di avanzare con rinnovato dinamismo nel proprio
impegno per una più generosa risposta umana all'amore divino [71]. Capita
anche che i Paesi economicamente sviluppati o quelli emergenti esportino nei
Paesi poveri, nel contesto dei loro rapporti culturali, commerciali e
politici, questa visione riduttiva della persona e del suo destino. È il
danno che il « supersviluppo » [72] procura allo sviluppo autentico, quando è
accompagnato dal « sottosviluppo morale » [73].
30. In questa linea, il tema dello
sviluppo umano integrale assume una portata ancora più complessa: la
correlazione tra i molteplici suoi elementi richiede che ci si impegni per far
interagire i diversi livelli del sapere umano in vista della promozione
di un vero sviluppo dei popoli. Spesso si ritiene che lo sviluppo, o i
provvedimenti socio-economici relativi, richiedano solo di essere attuati
quale frutto di un agire comune. Questo agire comune, però, ha bisogno di
essere orientato, perché « ogni azione sociale implica una dottrina » [74]. Considerata
la complessità dei problemi, è ovvio che le varie discipline debbano
collaborare mediante una interdisciplinarità ordinata. La carità non esclude
il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall'interno. Il sapere
non è mai solo opera dell'intelligenza. Può certamente essere ridotto a
calcolo e ad esperimento, ma se vuole essere sapienza capace di orientare
l'uomo alla luce dei principi primi e dei suoi fini ultimi, deve essere
“condito” con il « sale » della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il
sapere è sterile senza l'amore. Infatti, « colui che è animato da una vera
carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi
per combatterla, nel vincerla risolutamente » [75]. Nei
confronti dei fenomeni che abbiamo davanti, la carità nella verità richiede
prima di tutto di conoscere e di capire, nella consapevolezza e nel rispetto
della competenza specifica di ogni livello del sapere. La carità non è
un'aggiunta posteriore, quasi un'appendice a lavoro ormai concluso delle
varie discipline, bensì dialoga con esse fin dall'inizio. Le esigenze
dell'amore non contraddicono quelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente
e le conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo
sviluppo integrale dell'uomo. C'è sempre bisogno di spingersi più in là: lo
richiede la carità nella verità [76]. Andare oltre, però, non significa mai
prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati.
Non c'è l'intelligenza e poi l'amore: ci sono l'amore ricco di
intelligenza e l'intelligenza piena di amore.
31. Questo significa che le
valutazioni morali e la ricerca scientifica devono crescere insieme e che la
carità deve animarle in un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e
di distinzione. La dottrina sociale della Chiesa, che ha « un'importante
dimensione interdisciplinare » [77], può
svolgere, in questa prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia.
Essa consente alla fede, alla teologia, alla metafisica e alle scienze di
trovare il loro posto entro una collaborazione a servizio dell'uomo. È
soprattutto qui che la dottrina sociale della Chiesa attua la sua dimensione
sapienziale. Paolo VI aveva visto con chiarezza che tra le cause del
sottosviluppo c'è una mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in
grado di operare una sintesi orientativa [78], per la
quale si richiede « una visione chiara di tutti gli aspetti economici,
sociali, culturali e spirituali » [79]. L'eccessiva settorialità del sapere [80], la chiusura
delle scienze umane alla metafisica [81], le difficoltà del dialogo tra le scienze e la teologia
sono di danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche allo sviluppo dei
popoli, perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata la visione
dell'intero bene dell'uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano. L'«
allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa » [82] è
indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della
questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici.
32. Le grandi novità, che il quadro
dello sviluppo dei popoli oggi presenta, pongono in molti casi l'esigenza di
soluzioni nuove. Esse vanno cercate insieme nel rispetto delle leggi
proprie di ogni realtà e alla luce di una visione integrale dell'uomo, che
rispecchi i vari aspetti della persona umana, contemplata con lo sguardo
purificato dalla carità. Si scopriranno allora singolari convergenze e
concrete possibilità di soluzione, senza rinunciare ad alcuna componente
fondamentale della vita umana.
La
dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che,
soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo
eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza [83] e che si
continui a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro o
del suo mantenimento, per tutti. A ben vedere, ciò è esigito anche dalla «
ragione economica ». L'aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi
sociali all'interno di un medesimo Paese e tra le popolazioni dei vari Paesi,
ossia l'aumento massiccio della povertà in senso relativo, non solamente
tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette a rischio la
democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso
la progressiva erosione del « capitale sociale », ossia di quell'insieme di
relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole,
indispensabili ad ogni convivenza civile.
È
sempre la scienza economica a dirci che una strutturale situazione di
insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane,
in quanto il lavoratore tende ad adattarsi passivamente ai meccanismi
automatici, anziché liberare creatività. Anche su questo punto c'è una
convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono
sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano
sempre anche costi umani.
Va
poi ricordato che l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica,
se nel breve periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo
periodo ostacola l'arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative. È
importante distinguere tra considerazioni economiche o sociologiche di breve
e di lungo termine. L'abbassamento del livello di tutela dei diritti dei
lavoratori o la rinuncia a meccanismi di ridistribuzione del reddito per far
acquisire al Paese maggiore competitività internazionale impediscono
l'affermarsi di uno sviluppo di lunga durata. Vanno, allora, attentamente
valutate le conseguenze sulle persone delle tendenze attuali verso
un'economia del breve, talvolta brevissimo termine. Ciò richiede una nuova
e approfondita riflessione sul senso dell'economia e dei suoi fini [84], nonché una
revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le
disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di salute
ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale
dell'uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo.
33. Oltre quarant'anni dopo la Populorum progressio, il suo tema
di fondo, il progresso, resta ancora un problema aperto, reso più
acuto ed impellente dalla crisi economico-finanziaria in atto. Se alcune aree
del pianeta, già un tempo gravate dalla povertà, hanno conosciuto cambiamenti
notevoli in termini di crescita economica e di partecipazione alla produzione
mondiale, altre zone vivono ancora una situazione di miseria paragonabile a
quella esistente ai tempi di Paolo VI, anzi in qualche caso si può
addirittura parlare di un peggioramento. È significativo che alcune cause di
questa situazione fossero state già individuate nella Populorum progressio, come per
esempio gli alti dazi doganali posti dai Paesi economicamente sviluppati e
che ancora impediscono ai prodotti provenienti dai Paesi poveri di
raggiungere i mercati dei Paesi ricchi. Altre cause, invece, che l'Enciclica
aveva solo adombrato, in seguito sono emerse con maggiore evidenza. È questo
il caso della valutazione del processo di decolonizzazione, allora in pieno
corso. Paolo VI auspicava un percorso autonomo da
compiere nella libertà e nella pace. Dopo oltre quarant'anni, dobbiamo
riconoscere quanto questo percorso sia stato difficile, sia a causa di nuove
forme di colonialismo e di dipendenza da vecchi e nuovi Paesi egemoni, sia
per gravi irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi indipendenti.
La novità
principale è stata l'esplosione dell'interdipendenza planetaria, ormai
comunemente nota come globalizzazione. Paolo VI l'aveva parzialmente prevista, ma
i termini e l'impetuosità con cui essa si è evoluta sono sorprendenti. Nato
dentro i Paesi economicamente sviluppati, questo processo per sua natura ha
prodotto un coinvolgimento di tutte le economie. Esso è stato il principale
motore per l'uscita dal sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per
sé una grande opportunità. Tuttavia, senza la guida della carità nella
verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni
sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana. Per questo la
carità e la verità ci pongono davanti a un impegno inedito e creativo,
certamente molto vasto e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di
renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche,
animandole nella prospettiva di quella « civiltà dell'amore » il cui seme Dio
ha posto in ogni popolo, in ogni cultura.
CAPITOLO TERZO
FRATERNITÀ,
SVILUPPO ECONOMICO
E SOCIETÀ CIVILE
34. La carità nella verità pone l'uomo davanti
alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita
in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo
produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. L'essere umano è fatto per
il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta
l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso,
della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla
chiusura egoistica in se stessi, che discende — per dirla in termini di fede
— dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre
proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione
dei fatti sociali e nella costruzione della società: « Ignorare che l'uomo ha
una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo
dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi » [85]. All'elenco
dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è
aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell'economia. Ne abbiamo una
prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere
autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo
con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la
salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La
convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare
“influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento
economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni
hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la
libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono
stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato
nella mia Enciclica Spe salvi, in questo modo si toglie dalla storia la
speranza cristiana [86], che è
invece una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale,
cercato nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la ragione e
le dà la forza di orientare la volontà [87]. È già presente nella fede, da cui anzi è
suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la
manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra
vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il
dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso
ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi
e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità
è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino [88]. Anche la
verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto
“data”. In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da
noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, « non nasce
dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano » [89].
Perché
dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la
comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né
confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non
potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né
essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente
universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni
divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore.
Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato,
che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa
in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo
economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente
umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di
fraternità.
35. Il mercato, se c'è fiducia
reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che permette l'incontro
tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto
come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro
fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai
principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i
rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina
sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza
della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la
stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un
contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni
in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio
dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella
coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne
di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente
espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è
venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
Opportunamente
Paolo VI nella Populorum progressio sottolineava
il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche
generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo
sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi [90]. Non si
trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri
non sono da considerarsi un « fardello » [91], bensì una
risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da
ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia
strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter
funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma
per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado
di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere
energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
36. L'attività economica non può
risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della
logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene
comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità
politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi
separare l'agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da
quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la
ridistribuzione.
La
Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare
antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò diventare, di per sé il
luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve
proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse ipso
facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che
il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la
sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso.
Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma
dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti,
l'economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati
quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a
trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione
oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé
stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo,
la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale.
La
dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti
autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di
reciprocità, anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori
di essa o « dopo » di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale
né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all'attività
dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e
istituzionalizzata eticamente.
La
grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche
dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente
dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero
sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica
sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono
venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il
principio di gratuità e la logica del dono come espressione della
fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività
economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche
un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un
tempo della carità e della verità.
37. La dottrina sociale della Chiesa
ha sempre sostenuto che la giustizia riguarda tutte le fasi dell'attività
economica, perché questa ha sempre a che fare con l'uomo e con le sue
esigenze. Il reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il
consumo e tutte le altre fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente
implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una conseguenza di
carattere morale. Tutto questo trova conferma anche nelle scienze sociali
e nelle tendenze dell'economia contemporanea. Forse un tempo era pensabile
affidare dapprima all'economia la produzione di ricchezza per assegnare poi
alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta più difficile,
dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali,
mentre l'autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale. Per
questo, i canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio,
mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente.
Inoltre, occorre che nel mercato si aprano spazi per attività economiche
realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire
a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso
rinunciare a produrre valore economico. Le tante espressioni di economia che
traggono origine da iniziative religiose e laicali dimostrano che ciò è
concretamente possibile.
Nell'epoca
della globalizzazione l'economia risente di modelli competitivi legati a
culture tra loro molto diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali che
ne derivano trovano prevalentemente un punto d'incontro nel rispetto della
giustizia commutativa. La vita economica ha senz'altro bisogno del contratto,
per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì
bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate
dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del
dono. L'economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella
dello scambio contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver
bisogno anche delle altre due, la logica politica e la logica del dono senza
contropartita.
38. Il mio predecessore Giovanni Paolo II aveva segnalato questa
problematica, quando nella Centesimus annus aveva
rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato
e la società civile [92]. Egli aveva
individuato nella società civile l'ambito più proprio di un'economia della
gratuità e della fraternità, ma non aveva inteso negarla agli altri due
ambiti. Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come
una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità
specifiche, deve essere presente l'aspetto della reciprocità fraterna.
Nell'epoca della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere
dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità
per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta,
in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La
solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti [93], quindi non
può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri si poteva ritenere che prima
bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come
un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a
realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale
possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che
perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata orientata
al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed
esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e
sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere
una sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa e dunque un'attenzione
sensibile alla civilizzazione dell'economia. Carità nella verità, in
questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle
iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare
oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se
stesso.
39. Paolo VI nella Populorum progressio chiedeva di
configurare un modello di economia di mercato capace di includere, almeno
tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente quelli adeguatamente
attrezzati. Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere un mondo più umano
per tutti, un mondo nel quale tutti avessero « qualcosa da dare e da
ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo
sviluppo degli altri » [94]. Egli in
questo modo estendeva al piano universale le stesse richieste e aspirazioni
contenute nella Rerum novarum, scritta quando per la prima volta, in conseguenza
della rivoluzione industriale, si affermò l'idea — sicuramente avanzata per
quel tempo — che l'ordine civile per reggersi aveva bisogno anche
dell'intervento ridistributivo dello Stato. Oggi questa visione, oltre a
essere posta in crisi dai processi di apertura dei mercati e delle società,
mostra di essere incompleta per soddisfare le esigenze di un'economia
pienamente umana. Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto
a partire dalla sua visione dell'uomo e della società oggi è richiesto anche
dalle dinamiche caratteristiche della globalizzazione.
Quando la
logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare
nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la
solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione,
l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio
della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei
comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato. La vittoria sul
sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni
fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture
assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva
apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate
da quote di gratuità e di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato
corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il
loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano
socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per
legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno
bisogno di persone aperte al dono reciproco.
40. Le attuali dinamiche economiche internazionali,
caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi
cambiamenti anche nel modo di intendere l'impresa. Vecchie modalità della
vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano
all'orizzonte. Uno dei rischi maggiori è senz'altro che l'impresa risponda
quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua
valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione
ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore
stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della
vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico
territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell'attività produttiva
può attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di
portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori,
l'ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli
azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una
straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti,
offre oggi una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta
dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia
“responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se le impostazioni etiche che
guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell'impresa non sono
tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa,
è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale
la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli
proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre
categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i
lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la
comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una
classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle
indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi
anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi
sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto
dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i
territori, in cui opera. Paolo VI invitava a valutare seriamente il
danno che il trasferimento all'estero di capitali a esclusivo vantaggio
personale può produrre alla propria Nazione [95]. Giovanni Paolo II avvertiva che investire ha sempre un
significato morale, oltre che economico [96]. Tutto
questo — va ribadito — è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei
capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità
tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto
tecnico e non anche umano ed etico. Non c'è motivo per negare che un certo
capitale possa fare del bene, se investito all'estero piuttosto che in
patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche
conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che
comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato [97]. Bisogna evitare che il motivo per l'impiego
delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di
ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità
dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all'economia reale e
l'attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative
economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. Non c'è nemmeno motivo di
negare che la delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione,
possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la
conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito
delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio
per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per
la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore
imprescindibile di sviluppo stabile.
41. Nel contesto di questo discorso è
utile osservare che l'imprenditorialità ha e deve sempre più assumere
un significato plurivalente. La perdurante prevalenza del binomio
mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all'imprenditore
privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall'altro.
In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato. Ciò risulta da
una serie di motivazioni metaeconomiche. L'imprenditorialità, prima di avere
un significato professionale, ne ha uno umano [98]. Essa è
inscritta in ogni lavoro, visto come « actus personae » [99], per cui è
bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio
apporto in modo che egli stesso « sappia di lavorare “in proprio” » [100]. Non a caso Paolo VI insegnava che « ogni lavoratore è un creatore » [101]. Proprio per
rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della
società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra «
privato » e « pubblico ». Ognuna richiede ed esprime una capacità
imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che nel prossimo
futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è
opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità.
Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca
tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal
mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello
pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie
avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.
Anche
l'autorità politica ha un significato plurivalente, che non può
essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un nuovo ordine
economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d'uomo. Come si
intende coltivare un'imprenditorialità differenziata sul piano mondiale, così
si deve promuovere un'autorità politica distribuita e attivantesi su più
piani. L'economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli
Stati, piuttosto ne impegna i Governi ad una più forte collaborazione
reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare
troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della
crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte
delle sue competenze. Ci sono poi delle Nazioni in cui la costruzione o
ricostruzione dello Stato continua ad essere un elemento chiave del loro
sviluppo. L'aiuto internazionale proprio all'interno di un progetto
solidaristico mirato alla soluzione degli attuali problemi economici dovrebbe
piuttosto sostenere il consolidamento di sistemi costituzionali, giuridici,
amministrativi nei Paesi che non godono ancora pienamente di questi beni.
Accanto agli aiuti economici, devono esserci quelli volti a rafforzare le
garanzie proprie dello Stato di diritto, un sistema di ordine pubblico
e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani, istituzioni
veramente democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le
medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli
affinché si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti
politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto
allo Stato. L'articolazione dell'autorità politica a livello locale,
nazionale e internazionale è, tra l'altro, una delle vie maestre per arrivare
ad essere in grado di orientare la globalizzazione economica. È anche il modo
per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia.
42. Talvolta nei riguardi della globalizzazione
si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero
prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla
volontà umana [102]. È bene
ricordare a questo proposito che la globalizzazione va senz'altro intesa come
un processo socio-economico, ma questa non è l'unica sua dimensione. Sotto il
processo più visibile c'è la realtà di un'umanità che diviene sempre più
interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui quel processo
deve essere di utilità e di sviluppo [103], grazie
all'assunzione da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle
rispettive responsabilità. Il superamento dei confini non è solo un fatto
materiale, ma anche culturale nelle sue cause e nei suoi effetti. Se si legge
deterministicamente la globalizzazione, si perdono i criteri per valutarla ed
orientarla. Essa è una realtà umana e può avere a monte vari orientamenti
culturali sui quali occorre esercitare il discernimento. La verità della
globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati
dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi
impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista
e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione
planetaria.
Nonostante
alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno
assolutizzate, « la globalizzazione, a priori, non è né buona né
cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno » [104]. Non
dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza,
guidati dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un
atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo
contrassegnato anche da aspetti positivi, con il rischio di perdere una
grande occasione di inserirsi nelle molteplici opportunità di sviluppo da
esso offerte. I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e
gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza
a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti,
possono invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con
una crisi l'intero mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche
gravi, che introducono nuove divisioni tra i popoli e dentro i popoli e fare
in modo che la ridistribuzione della ricchezza non avvenga con una
ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione, come
una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere. Per
molto tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un
prefissato stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei
popoli sviluppati. Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi le forze materiali utilizzabili per far
uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente maggiori di un tempo, ma
di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi popoli dei
Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di
liberalizzazione dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle
sfere di benessere a livello mondiale non va, dunque, frenata con progetti
egoistici, protezionistici o dettati da interessi particolari. Infatti il
coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di sviluppo, permette oggi di
meglio gestire la crisi. La transizione insita nel processo di
globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, che potranno essere
superati solo se si saprà prendere coscienza di quell'anima antropologica ed
etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di
umanizzazione solidale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa
da prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e
utilitaristica. La globalizzazione è fenomeno multidimensionale e
polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte
le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed
orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di
comunione e di condivisione.
CAPITOLO QUARTO
SVILUPPO DEI
POPOLI,
DIRITTI E DOVERI, AMBIENTE
43. « La solidarietà universale, che è un fatto e per
noi un beneficio, è altresì un dovere » [105]. Molte
persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno,
tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e
incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio
e l'altrui sviluppo integrale. Per questo è importante sollecitare una nuova
riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si
trasformano in arbitrio [106]. Si assiste
oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano
presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di
vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l'altro verso,
vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei
confronti di tanta parte dell'umanità [107]. Si è spesso notata una relazione tra la
rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al
vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di
istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo
del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione
sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri
che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale
di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L'esasperazione dei
diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i diritti
perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche
questi ultimi si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo
i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa e promozione come
un impegno da assumere a servizio del bene. Se, invece, i diritti dell'uomo
trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di
cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere
di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e
gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l'oggettività e l'«
indisponibilità » dei diritti. Quando ciò avviene, il vero sviluppo dei
popoli è messo in pericolo [108]. Comportamenti
simili compromettono l'autorevolezza degli Organismi internazionali,
soprattutto agli occhi dei Paesi maggiormente bisognosi di sviluppo. Questi,
infatti, richiedono che la comunità internazionale assuma come un dovere
l'aiutarli a essere « artefici del loro destino » [109], ossia ad assumersi a loro volta dei doveri. La
condivisione dei doveri reciproci mobilita assai più della sola
rivendicazione di diritti.
44. La concezione dei diritti e dei
doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle problematiche connesse con
la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto importante del vero
sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia
[110]. Considerare
l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto,
anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte,
all'importante diminuzione della mortalità infantile e al prolungamento della
vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra,
ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante
calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione
ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo
contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero
sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche
nell'esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto
edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può ridurre a
un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli
interessati da eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò
equivarrebbe ad impoverire e disattendere il significato profondo della
sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con responsabilità
tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti
sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di
regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite. In ambedue i
casi si è in presenza di concezioni e di politiche materialistiche, nelle
quali le persone finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si
deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo [111], rispetto
allo Stato e alle sue politiche restrittive, nonché un'appropriata educazione
dei genitori.
L'apertura
moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al
grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, Nazioni un
tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di
declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di
avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del
cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di
assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio
e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce
la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei «
cervelli » a cui attingere per le necessità della Nazione. Inoltre, le
famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di
impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di
solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel
futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e
perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della
famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze
più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva,
gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e
l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un
uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, [112] facendosi carico anche dei suoi
problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.
45. Rispondere alle esigenze morali
più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano
economico. L'economia infatti ha bisogno dell'etica per il suo corretto
funzionamento; non di un'etica qualsiasi, bensì di un'etica amica della
persona. Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario,
aziendale. Nascono Centri di studio e percorsi formativi di business
ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni
etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilità
sociale dell'impresa. Le banche propongono conti e fondi di investimento
cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica », soprattutto mediante
il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi processi
suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi
si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra. È bene,
tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si
nota un certo abuso dell'aggettivo « etico » che, adoperato in modo generico,
si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare
sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero
bene dell'uomo.
Molto,
infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la
dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si
fonda sulla creazione dell'uomo “ad immagine di Dio” (Gn 1,27), un dato da
cui discende l'inviolabile dignità della persona umana, come anche il
trascendente valore delle norme morali naturali. Un'etica economica che
prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere
la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più
precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi
economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni.
Tra l'altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti
che etici non sono. Bisogna, poi, non ricorrere alla parola « etica » in modo
ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche
le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre
adoperarsi — l'osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano
settori o segmenti « etici » dell'economia o della finanza, ma perché
l'intera economia e l'intera finanza siano etiche e lo siano non per
un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche
alla loro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina
sociale della Chiesa, che ricorda come l'economia, con tutte le sue branche,
sia un settore dell'attività umana [113].
46. Considerando le tematiche
relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l'evoluzione che il
sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa
tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non
finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto
completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi
ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due
tipologie di imprese. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però
sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono
espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità
sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e
di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova
ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non
esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane
e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure
che assumano l'una o l'altra delle configurazioni previste dalle norme
giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il
profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del
mercato e della società. È auspicabile che queste nuove forme di impresa
trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale.
Esse, senza nulla togliere all'importanza e all'utilità economica e sociale
delle forme tradizionali di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più
chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici. Non
solo. È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a
generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo.
47. Il potenziamento delle diverse
tipologie di imprese e, in particolare, di quelle capaci di concepire il
profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del
mercato e delle società, deve essere perseguito anche nei Paesi che soffrono
di esclusione o di emarginazione dai circuiti dell'economia globale, dove è
molto importante procedere con progetti di sussidiarietà opportunamente
concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo però
sempre anche l'assunzione di corrispettive responsabilità. Negli
interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della
centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi
primariamente il dovere dello sviluppo. L'interesse principale è il
miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa
regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l'indigenza
non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un
atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati
alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le
persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro
progettazione e rese protagoniste della loro attuazione. È anche necessario
applicare i criteri della progressione e dell'accompagnamento — compreso il
monitoraggio dei risultati –, perché non ci sono ricette universalmente
valide. Molto dipende dalla concreta gestione degli interventi. « Artefici
del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non
potranno realizzarlo nell'isolamento » [114]. Oggi, con
il consolidamento del processo di progressiva integrazione del pianeta,
questo ammonimento di Paolo VI è ancor più valido. Le dinamiche di inclusione non
hanno nulla di meccanico. Le soluzioni vanno calibrate sulla vita dei popoli
e delle persone concrete, sulla base di una valutazione prudenziale di ogni
situazione. Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti e, soprattutto,
serve la mobilitazione fattiva di tutti i soggetti della società civile,
tanto delle persone giuridiche quanto delle persone fisiche.
La
cooperazione internazionale ha bisogno di persone che condividano il
processo di sviluppo economico e umano, mediante la solidarietà della
presenza, dell'accompagnamento, della formazione e del rispetto. Da questo
punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi
sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso
troppo costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi
funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita
dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la propria
conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece
dovrebbero essere destinate allo sviluppo. In questa prospettiva, sarebbe
auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non
governative si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e
l'opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai
programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e
infine circa la composizione delle spese dell'istituzione stessa.
48. Il tema dello sviluppo è oggi fortemente
collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell'uomo con
l'ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso
rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future
e l'umanità intera. Se la natura, e per primo l'essere umano, vengono
considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la
consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura
il credente riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di
Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi
legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci
equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce o per
considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne.
Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della
natura, frutto della creazione di Dio.
La natura è
espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede
e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm
1, 20) e del suo amore per l'umanità. È destinata ad
essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1,
9-10; Col
1, 19-20). Anch'essa, quindi, è una «
vocazione » [115]. La natura è a nostra
disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso » [116], bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti
intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per
“custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo
considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa
posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola
natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza
per l'uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che
mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente naturale non è solo
materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore,
recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo
sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo
provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la
natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di
violenza nei confronti dell'ambiente e addirittura per motivare azioni
irrispettose verso la stessa natura dell'uomo. Questa, in quanto costituita
non solo di materia ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di
significati e di fini trascendenti da raggiungere, ha un carattere normativo
anche per la cultura. L'uomo interpreta e modella l'ambiente naturale
mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà
responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno
sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni
successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a
giustizia intergenerazionali, tenendo conto
di molteplici ambiti: l'ecologico, il giuridico, l'economico, il politico, il
culturale [117].
49. Le questioni legate alla cura e
alla salvaguardia dell'ambiente devono oggi tenere in debita considerazione
le problematiche energetiche. L'accaparramento delle risorse
energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e
imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi
poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti
fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove
e alternative. L'incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano
proprio nei Paesi poveri, genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le
Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono spesso proprio sul
suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e
ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile
di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle
risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in
modo da pianificare insieme il futuro.
Anche
su questo fronte vi è l'urgente necessità morale di una rinnovata
solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i
Paesi altamente industrializzati [118]. Le società
tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno
energetico sia perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i
loro cittadini si diffonde una sensibilità ecologica maggiore. Si deve
inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento dell'efficienza
energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie
alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle
risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano
accedervi. Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo
arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che,
per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la
responsabile presa di coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle
nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei popoli
poveri, i quali « reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione
d'un mondo migliore » [119].
50. Questa responsabilità è globale,
perché non concerne solo l'energia, ma tutto il creato, che non dobbiamo
lasciare alle nuove generazioni depauperato delle sue risorse. All'uomo è
lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla,
metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie
avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la
popolazione che la abita. C'è spazio per tutti su questa nostra terra: su di
essa l'intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere
dignitosamente, con l'aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e
con l'impegno del proprio lavoro e della propria inventiva. Dobbiamo però
avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove
generazioni in uno stato tale che anch'esse possano degnamente abitarla e
ulteriormente coltivarla. Ciò implica l'impegno di decidere insieme, « dopo
aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l'obiettivo di
rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere
specchio dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale
siamo in cammino » [120]. È
auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano
contrastare in maniera efficace le modalità d'utilizzo dell'ambiente che
risultino ad esso dannose. È altresì doveroso che vengano intrapresi, da
parte delle autorità competenti, tutti gli sforzi necessari affinché i costi
economici e sociali derivanti dall'uso delle risorse ambientali comuni siano
riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro
che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future: la
protezione dell'ambiente, delle risorse e del clima richiede che tutti i
responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino prontezza ad
operare in buona fede, nel rispetto della legge e della solidarietà nei
confronti delle regioni più deboli del pianeta [121]. Uno dei
maggiori compiti dell'economia è proprio il più efficiente uso delle risorse,
non l'abuso, tenendo sempre presente che la nozione di efficienza non è
assiologicamente neutrale.
51. Le modalità con cui l'uomo
tratta l'ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e,
viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo
stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all'edonismo e al
consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano [122]. È
necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare
nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del
buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli
elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli
investimenti” [123]. Ogni
lesione della solidarietà e dell'amicizia civica provoca danni ambientali,
così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle
relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente
integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una
variabile indipendente. La desertificazione e l'impoverimento produttivo di
alcune aree agricole sono anche frutto dell'impoverimento delle popolazioni
che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico
e culturale di quelle popolazioni, si tutela anche la natura. Inoltre, quante
risorse naturali sono devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i
popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della natura.
L'accaparramento delle risorse, specialmente dell'acqua, può provocare gravi
conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull'uso delle
risorse può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle
società interessate.
La
Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere
questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo
la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti.
Deve proteggere soprattutto l'uomo contro la distruzione di se stesso. È
necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia dell'uomo, intesa in senso
giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura
che modella la convivenza umana: quando l'« ecologia umana » [124] è rispettata dentro la società, anche l'ecologia
ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che
l'indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema
ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana
convivenza in società sia il buon rapporto con la natura.
Per
salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o
disincentivi economici e nemmeno basta un'istruzione adeguata. Sono, questi,
strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta
morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla
morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la
nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la
coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con
esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove
generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le
leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e
indivisibile, sul versante dell'ambiente come sul versante della vita, della
sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una
parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l'ambiente
si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se
stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e
conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della
prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e danneggia la
società.
52. La verità e l'amore che essa
dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere. La loro fonte
ultima non è, né può essere, l'uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità e
Amore. Questo principio è assai importante per la società e per lo sviluppo,
in quanto né l'una né l'altro possono essere solo prodotti umani; la stessa
vocazione allo sviluppo delle persone e dei popoli non si fonda su una
semplice deliberazione umana, ma è inscritta in un piano che ci precede e che
costituisce per tutti noi un dovere che deve essere liberamente accolto. Ciò
che ci precede e che ci costituisce — l'Amore e la Verità sussistenti — ci
indica che cosa sia il bene e in che cosa consista la nostra felicità. Ci
indica quindi la strada verso il vero sviluppo.
CAPITOLO QUINTO
LA
COLLABORAZIONE
DELLA FAMIGLIA UMANA
53. Una delle più profonde povertà
che l'uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre
povertà, comprese quelle materiali, nascono dall'isolamento, dal non essere
amati o dalla difficoltà di amare. Le povertà spesso sono generate dal
rifiuto dell'amore di Dio, da un'originaria tragica chiusura in se medesimo
dell'uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto
insignificante e passeggero, uno « straniero » in un universo costituitosi
per caso. L'uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando
rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento [125]. L'umanità
intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a
utopie false [126]. Oggi
l'umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si
deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dipende
soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora
in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente
l'uno accanto all'altro [127].
Paolo
VI notava che « il mondo soffre per mancanza di pensiero » [128].
L'affermazione contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve
un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del
nostro essere una famiglia; l'interazione tra i popoli del pianeta ci
sollecita a questo slancio, affinché l'integrazione avvenga nel segno della
solidarietà [129] piuttosto
che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un
approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si
tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in
quanto richiede l'apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per
cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell'uomo.
La
creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni
interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria
identità personale. Non è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma
ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. L'importanza di tali
relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche per i popoli. È,
quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della relazione
tra le persone. A questo riguardo, la ragione trova ispirazione e
orientamento nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli
uomini non assorbe in sé la persona annientandone l'autonomia, come accade
nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il
rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto [130]. Come la
comunità familiare non annulla in sé le persone che la compongono e come la
Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova creatura” (Gal 6,15; 2 Cor 5,17) che con il battesimo si inserisce nel suo Corpo
vivo, così anche l'unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i
popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l'uno verso l'altro,
maggiormente uniti nelle loro legittime diversità.
54. Il tema dello sviluppo coincide con quello
dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica
comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base
dei fondamentali valori della giustizia e della pace. Questa prospettiva
trova un'illuminazione decisiva nel rapporto tra le Persone della Trinità
nell'unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta unità, in quanto le tre
divine Persone sono relazionalità pura. La trasparenza reciproca tra le
Persone divine è piena e il legame dell'una con l'altra totale, perché
costituiscono un'assoluta unità e unicità. Dio vuole associare anche noi a
questa realtà di comunione: « perché siano come noi una cosa sola » (Gv 17,22). Di questa
unità la Chiesa è segno e strumento [131]. Anche le
relazioni tra gli uomini lungo la storia non hanno che da trarre vantaggio
dal riferimento a questo divino Modello. In particolare, alla luce del
mistero rivelato della Trinità si comprende che la vera apertura non
significa dispersione centrifuga, ma compenetrazione profonda. Questo risulta
anche dalle comuni esperienze umane dell'amore e della verità. Come l'amore
sacramentale tra i coniugi li unisce spiritualmente in « una carne sola » (Gn 2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) e da due che erano fa di loro un'unità
relazionale e reale, analogamente la verità unisce gli spiriti tra loro e li
fa pensare all'unisono, attirandoli e unendoli in sé.
55. La rivelazione cristiana sull'unità del genere
umano presuppone un'interpretazione metafisica dell'humanum in cui la
relazionalità è elemento essenziale. Anche altre culture e altre
religioni insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande
importanza per lo sviluppo umano integrale. Non mancano, però, atteggiamenti
religiosi e culturali in cui non si assume pienamente il principio dell'amore
e della verità e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o
addirittura per impedirlo. Il mondo di oggi è attraversato da alcune culture
a sfondo religioso, che non impegnano l'uomo alla comunione, ma lo isolano
nella ricerca del benessere individuale, limitandosi a gratificarne le attese
psicologiche. Anche una certa proliferazione di percorsi religiosi di piccoli
gruppi o addirittura di singole persone, e il sincretismo religioso possono
essere fattori di dispersione e di disimpegno. Un possibile effetto negativo
del processo di globalizzazione è la tendenza a favorire tale sincretismo [132], alimentando
forme di “religione” che estraniano le persone le une dalle altre anziché
farle incontrare e le allontanano dalla realtà. Contemporaneamente,
permangono talora retaggi culturali e religiosi che ingessano la società in
caste sociali statiche, in credenze magiche irrispettose della dignità della
persona, in atteggiamenti di soggezione a forze occulte. In questi contesti,
l'amore e la verità trovano difficoltà ad affermarsi, con danno per
l'autentico sviluppo.
Per
questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle
religioni e delle culture dei diversi popoli, resta pure vero, dall'altro,
che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non
significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano
uguali [133]. Il
discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende
necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene
comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento
dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in gioco lo
sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di
emancipazione e di inclusione nell'ottica di una comunità umana veramente
universale. « Tutto l'uomo e tutti gli uomini » è criterio per valutare anche
le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto
umano » [134], porta in se
stesso un simile criterio.
56. La religione cristiana e le altre
religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un
posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni
culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina
sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza
» [135] della
religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la
propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé
anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo.
L'esclusione della religione dall'ambito pubblico come, per altro verso, il
fondamentalismo religioso, impediscono l'incontro tra le persone e la loro
collaborazione per il progresso dell'umanità. La vita pubblica si impoverisce
di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I
diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati del
loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà
personale. Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un
dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede
religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede,
e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi
onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire
purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La
rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo
dell'umanità.
57. Il dialogo fecondo tra fede e
ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e
costituisce la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione
fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di
lavorare per la giustizia e la pace dell'umanità. Nella Costituzione
pastorale Gaudium et spes i Padri
conciliari affermavano: « Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo
nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito
all'uomo, come a suo centro e a suo vertice » [136]. Per i
credenti, il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un
progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro
sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o
non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al
progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore.
Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la
collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz'altro il
principio di sussidiarietà [137], espressione
dell'inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto
alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto
quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica
sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la
partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà
rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace
di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima
costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace
contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia
della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei
soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio
particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un
vero sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso potere universale di
tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo
sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che
collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità,
in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale
autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico [138], sia per non ledere la libertà sia per risultare
concretamente efficace.
58. Il principio di sussidiarietà
va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e
viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel
particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la
sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno.
Questa regola di carattere generale va tenuta in grande considerazione anche
quando si affrontano le tematiche relative agli aiuti internazionali allo
sviluppo. Essi, al di là delle intenzioni dei donatori, possono a volte
mantenere un popolo in uno stato di dipendenza e perfino favorire situazioni
di dominio locale e di sfruttamento all'interno del Paese aiutato. Gli aiuti
economici, per essere veramente tali, non devono perseguire secondi fini.
Devono essere erogati coinvolgendo non solo i governi dei Paesi interessati,
ma anche gli attori economici locali e i soggetti della società civile
portatori di cultura, comprese le Chiese locali. I programmi di aiuto devono
assumere in misura sempre maggiore le caratteristiche di programmi integrati
e partecipati dal basso. Resta vero infatti che la maggior risorsa da valorizzare
nei Paesi da assistere nello sviluppo è la risorsa umana: questa è
l'autentico capitale da far crescere per assicurare ai Paesi più poveri un
vero avvenire autonomo. Va anche ricordato che, in campo economico, il
principale aiuto di cui hanno bisogno i Paesi in via di sviluppo è quello di
consentire e favorire il progressivo inserimento dei loro prodotti nei
mercati internazionali, rendendo così possibile la loro piena partecipazione
alla vita economica internazionale. Troppo spesso, nel passato, gli aiuti
sono valsi a creare soltanto mercati marginali per i prodotti di questi
Paesi. Questo è dovuto spesso a una mancanza di vera domanda di questi
prodotti: è pertanto necessario aiutare tali Paesi a migliorare i loro
prodotti e ad adattarli meglio alla domanda. Inoltre, alcuni hanno spesso
temuto la concorrenza delle importazioni di prodotti, normalmente agricoli,
provenienti dai Paesi economicamente poveri. Va tuttavia ricordato che per
questi Paesi la possibilità di commercializzare tali prodotti significa molto
spesso garantire la loro sopravvivenza nel breve e nel lungo periodo. Un
commercio internazionale giusto e bilanciato in campo agricolo può portare
benefici a tutti, sia dal lato dell'offerta che da quello della domanda. Per
questo motivo, non solo è necessario orientare commercialmente queste
produzioni, ma stabilire regole commerciali internazionali che le sostengano,
e rafforzare il finanziamento allo sviluppo per rendere più produttive queste
economie.
59. La cooperazione allo sviluppo non
deve riguardare la sola dimensione economica; essa deve diventare una grande
occasione di incontro culturale e umano. Se i soggetti della cooperazione
dei Paesi economicamente sviluppati non tengono conto, come talvolta avviene,
della propria ed altrui identità culturale fatta di valori umani, non possono
instaurare alcun dialogo profondo con i cittadini dei Paesi poveri. Se questi
ultimi, a loro volta, si aprono indifferentemente e senza discernimento a
ogni proposta culturale, non sono in condizione di assumere la responsabilità
del loro autentico sviluppo [139]. Le società
tecnologicamente avanzate non devono confondere il proprio sviluppo
tecnologico con una presunta superiorità culturale, ma devono riscoprire in
se stesse virtù talvolta dimenticate, che le hanno fatte fiorire lungo la
storia. Le società in crescita devono rimanere fedeli a quanto di veramente
umano c'è nelle loro tradizioni, evitando di sovrapporvi automaticamente i
meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata. In tutte le culture ci
sono singolari e molteplici convergenze etiche, espressione della medesima
natura umana, voluta dal Creatore, e che la sapienza etica dell'umanità
chiama legge naturale [140]. Una tale
legge morale universale è saldo fondamento di ogni dialogo culturale,
religioso e politico e consente al multiforme pluralismo delle varie culture
di non staccarsi dalla comune ricerca del vero, del bene e di Dio. L'adesione
a quella legge scritta nei cuori, pertanto, è il presupposto di ogni
costruttiva collaborazione sociale. In tutte le culture vi sono pesantezze da
cui liberarsi, ombre a cui sottrarsi. La fede cristiana, che si incarna nelle
culture trascendendole, può aiutarle a crescere nella convivialità e nella
solidarietà universali a vantaggio dello sviluppo comunitario e planetario.
60. Nella ricerca di soluzioni della
attuale crisi economica, l'aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri deve esser
considerato come vero strumento di creazione di ricchezza per tutti.
Quale progetto di aiuto può prospettare una crescita di valore così
significativa — anche dell'economia mondiale — come il sostegno a popolazioni
che si trovano ancora in una fase iniziale o poco avanzata del loro processo
di sviluppo economico? In questa prospettiva, gli Stati economicamente più
sviluppati faranno il possibile per destinare maggiori quote del loro
prodotto interno lordo per gli aiuti allo sviluppo, rispettando gli impegni
che su questo punto sono stati presi a livello di comunità internazionale. Lo
potranno fare anche rivedendo le politiche di assistenza e di solidarietà
sociale al loro interno, applicandovi il principio di sussidiarietà e creando
sistemi di previdenza sociale maggiormente integrati, con la partecipazione
attiva dei soggetti privati e della società civile. In questo modo è
possibile perfino migliorare i servizi sociali e di assistenza e, nello
stesso tempo, risparmiare risorse, anche eliminando sprechi e rendite
abusive, da destinare alla solidarietà internazionale. Un sistema di
solidarietà sociale maggiormente partecipato e organico, meno burocratizzato
ma non meno coordinato, permetterebbe di valorizzare tante energie, oggi
sopite, a vantaggio anche della solidarietà tra i popoli.
Una
possibilità di aiuto per lo sviluppo potrebbe derivare dall'applicazione
efficace della cosiddetta sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai
cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle loro imposte versate
allo Stato. Evitando degenerazioni particolaristiche, ciò può essere di aiuto
per incentivare forme di solidarietà sociale dal basso, con ovvi benefici
anche sul versante della solidarietà per lo sviluppo.
61. Una solidarietà più ampia a
livello internazionale si esprime innanzitutto nel continuare a promuovere,
anche in condizioni di crisi economica, un maggiore accesso
all'educazione, la quale, d'altro canto, è condizione essenziale per
l'efficacia della stessa cooperazione internazionale. Con il termine
“educazione” non ci si riferisce solo all'istruzione o alla formazione al
lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa
della persona. A questo proposito va sottolineato un aspetto problematico:
per educare bisogna sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura.
L'affermarsi di una visione relativistica di tale natura pone seri problemi
all'educazione, soprattutto all'educazione morale, pregiudicandone
l'estensione a livello universale. Cedendo ad un simile relativismo, si
diventa tutti più poveri, con conseguenze negative anche sull'efficacia
dell'aiuto alle popolazioni più bisognose, le quali non hanno solo necessità
di mezzi economici o tecnici, ma anche di vie e di mezzi pedagogici che
assecondino le persone nella loro piena realizzazione umana.
Un
esempio della rilevanza di questo problema ci è offerto dal fenomeno del
turismo internazionale [141], che può
costituire un notevole fattore di sviluppo economico e di crescita culturale,
ma che può trasformarsi anche in occasione di sfruttamento e di degrado
morale. La situazione attuale offre singolari opportunità perché gli aspetti
economici dello sviluppo, ossia i flussi di denaro e la nascita in sede
locale di esperienze imprenditoriali significative, arrivino a combinarsi con
quelli culturali, primo fra tutti l'aspetto educativo. In molti casi questo
avviene, ma in tanti altri il turismo internazionale è evento diseducativo
sia per il turista sia per le popolazioni locali. Queste ultime spesso sono
poste di fronte a comportamenti immorali, o addirittura perversi, come nel
caso del turismo cosiddetto sessuale, al quale sono sacrificati tanti esseri
umani, perfino in giovane età. È doloroso constatare che ciò si svolge spesso
con l'avallo dei governi locali, con il silenzio di quelli da cui provengono
i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore. Anche quando
non si giunge a tanto, il turismo internazionale, non poche volte, è vissuto
in modo consumistico ed edonistico, come evasione e con modalità
organizzative tipiche dei Paesi di provenienza, così da non favorire un vero
incontro tra persone e culture. Bisogna, allora, pensare a un turismo
diverso, capace di promuovere una vera conoscenza reciproca, senza togliere
spazio al riposo e al sano divertimento: un turismo di questo genere va
incrementato, grazie anche ad un più stretto collegamento con le esperienze
di cooperazione internazionale e di imprenditoria per lo sviluppo.
62. Un altro aspetto meritevole di
attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il fenomeno delle
migrazioni. È fenomeno che impressiona per la quantità di persone
coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e
religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità
nazionali e a quella internazionale. Possiamo dire che siamo di fronte a un
fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante
politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato.
Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i
Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da
adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti
legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle
persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di
approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di
far fronte ai problemi migratori del nostro tempo. Tutti siamo testimoni del
carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi
migratori. Il fenomeno, com'è noto, è di gestione complessa; resta tuttavia
accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con
la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo
economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine
grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono
essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono,
quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni
migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti
fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione [142].
63. Nella considerazione dei problemi
dello sviluppo, non si può non mettere in evidenza il nesso diretto tra
povertà e disoccupazione. I poveri in molti casi sono il risultato della
violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate
le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono
svalutati « i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al
giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua
famiglia » [143]. Perciò, già
il 1° maggio 2000, il mio Predecessore Giovanni Paolo II, di venerata memoria, in occasione del Giubileo
dei Lavoratori, lanciò un appello per « una coalizione mondiale in favore del
lavoro decente » [144],
incoraggiando la strategia dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. In
tal modo, conferiva un forte riscontro morale a questo obiettivo, quale
aspirazione delle famiglie in tutti i Paesi del mondo. Che cosa significa la
parola « decente » applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni
società, sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni
donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori,
uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo
modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni
discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle
famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi
stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi
liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio
sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e
spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una
condizione dignitosa.
64. Riflettendo sul tema del lavoro,
è opportuno anche un richiamo all'urgente esigenza che le organizzazioni
sindacali dei lavoratori, da sempre incoraggiate e sostenute dalla
Chiesa, si aprano alle nuove prospettive che emergono nell'ambito lavorativo.
Superando le limitazioni proprie dei sindacati di categoria, le
organizzazioni sindacali sono chiamate a farsi carico dei nuovi problemi
delle nostre società: mi riferisco, ad esempio, a quell'insieme di questioni
che gli studiosi di scienze sociali identificano nel conflitto tra
persona-lavoratrice e persona-consumatrice. Senza dover necessariamente
sposare la tesi di un avvenuto passaggio dalla centralità del lavoratore alla
centralità del consumatore, sembra comunque che anche questo sia un terreno
per innovative esperienze sindacali. Il contesto globale in cui si svolge il
lavoro richiede anche che le organizzazioni sindacali nazionali,
prevalentemente chiuse nella difesa degli interessi dei propri iscritti,
volgano lo sguardo anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i
lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono
spesso violati. La difesa di questi lavoratori, promossa anche attraverso
opportune iniziative verso i Paesi di origine, permetterà alle organizzazioni
sindacali di porre in evidenza le autentiche ragioni etiche e culturali che
hanno loro consentito, in contesti sociali e lavorativi diversi, di essere un
fattore decisivo per lo sviluppo. Resta sempre valido il tradizionale
insegnamento della Chiesa, che propone la distinzione di ruoli e funzioni tra
sindacato e politica. Questa distinzione consentirà alle
organizzazioni sindacali di individuare nella società civile l'ambito più
consono alla loro necessaria azione di difesa e promozione del mondo del
lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non rappresentati, la
cui amara condizione risulta spesso ignorata dall'occhio distratto della
società.
65. Bisogna, poi, che la finanza in
quanto tale, nelle necessariamente rinnovate strutture e modalità di
funzionamento dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l'economia
reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla miglior produzione
di ricchezza ed allo sviluppo. Tutta l'economia e tutta la finanza, non
solo alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in
modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell'uomo e
dei popoli. È certamente utile, e in talune circostanze indispensabile, dar
vita a iniziative finanziarie nelle quali la dimensione umanitaria sia
dominante. Ciò, però, non deve far dimenticare che l'intero sistema
finanziario deve essere finalizzato al sostegno di un vero sviluppo.
Soprattutto, bisogna che l'intento di fare del bene non venga contrapposto a
quello dell'effettiva capacità di produrre dei beni. Gli operatori della
finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro
attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire
per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei
buoni risultati sono compatibili e non devono mai essere disgiunti. Se
l'amore è intelligente, sa trovare anche i modi per operare secondo una
previdente e giusta convenienza, come indicano, in maniera significativa,
molte esperienze nel campo della cooperazione di credito.
Tanto
una regolamentazione del settore tale da garantire i soggetti più deboli e
impedire scandalose speculazioni, quanto la sperimentazione di nuove forme di
finanza destinate a favorire progetti di sviluppo, sono esperienze positive
che vanno approfondite ed incoraggiate, richiamando la stessa
responsabilità del risparmiatore. Anche l'esperienza della
microfinanza, che affonda le proprie radici nella riflessione e nelle
opere degli umanisti civili — penso soprattutto alla nascita dei Monti di
Pietà –, va rafforzata e messa a punto, soprattutto in questi momenti in cui
i problemi finanziari possono diventare drammatici per molti segmenti più
vulnerabili della popolazione, che vanno tutelati dai rischi di usura o dalla
disperazione. I soggetti più deboli vanno educati a difendersi dall'usura,
così come i popoli poveri vanno educati a trarre reale vantaggio dal
microcredito, scoraggiando in tal modo le forme di sfruttamento possibili in
questi due campi. Poiché anche nei Paesi ricchi esistono nuove forme di
povertà, la microfinanza può dare concreti aiuti per la creazione di
iniziative e settori nuovi a favore dei ceti deboli della società anche in
una fase di possibile impoverimento della società stessa.
66. La interconnessione mondiale ha
fatto emergere un nuovo potere politico, quello dei consumatori e delle
loro associazioni. Si tratta di un fenomeno da approfondire, che contiene
elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare. È bene
che le persone si rendano conto che acquistare è sempre un atto morale, oltre
che economico. C'è dunque una precisa responsabilità sociale del
consumatore, che si accompagna alla responsabilità sociale dell'impresa.
I consumatori vanno continuamente educati [145] al ruolo che
quotidianamente esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei
principi morali, senza sminuire la razionalità economica intrinseca all'atto
dell'acquistare. Anche nel campo degli acquisti, proprio in momenti come
quelli che si stanno sperimentando, in cui il potere di acquisto potrà
ridursi e si dovrà consumare con maggior sobrietà, è necessario percorrere
altre strade, come per esempio forme di cooperazione all'acquisto, quali le
cooperative di consumo, attive a partire dall'Ottocento anche grazie
all'iniziativa dei cattolici. È utile inoltre favorire forme nuove di
commercializzazione di prodotti provenienti da aree depresse del pianeta per
garantire una retribuzione decente ai produttori, a condizione che si tratti
veramente di un mercato trasparente, che i produttori non ricevano solo
maggiori margini di guadagno, ma anche maggiore formazione, professionalità e
tecnologia, e infine che non s'associno a simili esperienze di economia per
lo sviluppo visioni ideologiche di parte. Un più incisivo ruolo dei
consumatori, quando non vengano manipolati essi stessi da associazioni non
veramente rappresentative, è auspicabile come fattore di democrazia
economica.
67. Di fronte all'inarrestabile crescita
dell'interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di una
recessione altrettanto mondiale, l'urgenza della riforma sia dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e finanziaria
internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di
famiglia di Nazioni. Sentita è pure l'urgenza di trovare forme innovative per
attuare il principio di responsabilità di proteggere [146] e per
attribuire anche alle Nazioni più povere una voce efficace nelle decisioni
comuni. Ciò appare necessario proprio in vista di un ordinamento politico,
giuridico ed economico che incrementi ed orienti la collaborazione
internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli. Per il governo
dell'economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per
prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per
realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace;
per garantire la salvaguardia dell'ambiente e per regolamentare i flussi
migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale,
quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal
diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di
solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune [147], impegnarsi
nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai
valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da
tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la
sicurezza, l'osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti [148]. Ovviamente, essa deve godere della facoltà di
far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate
adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il
diritto internazionale, nonostante i grandi progressi compiuti nei vari
campi, rischierebbe di essere condizionato dagli equilibri di potere tra i
più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione
internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento
internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione [149] e che si dia
finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all'ordine morale e a
quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e
civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite.
CAPITOLO SESTO
LO
SVILUPPO DEI POPOLI
E LA TECNICA
68. Il tema dello sviluppo dei popoli
è legato intimamente a quello dello sviluppo di ogni singolo uomo. La persona
umana per sua natura è dinamicamente protesa al proprio sviluppo. Non si
tratta di uno sviluppo garantito da meccanismi naturali, perché ognuno di noi
sa di essere in grado di compiere scelte libere e responsabili. Non si tratta
nemmeno di uno sviluppo in balia del nostro capriccio, in quanto tutti
sappiamo di essere dono e non risultato di autogenerazione. In noi la libertà
è originariamente caratterizzata dal nostro essere e dai suoi limiti. Nessuno
plasma la propria coscienza arbitrariamente, ma tutti costruiscono il proprio
“io” sulla base di un “sé” che ci è stato dato. Non solo le altre persone
sono indisponibili, ma anche noi lo siamo a noi stessi. Lo sviluppo della
persona si degrada, se essa pretende di essere l'unica produttrice di se
stessa. Analogamente, lo sviluppo dei popoli degenera se l'umanità
ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. Così
come lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si affida ai
“prodigi” della finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche. Davanti
a questa pretesa prometeica, dobbiamo irrobustire l'amore per una libertà non
arbitraria, ma resa veramente umana dal riconoscimento del bene che la
precede. Occorre, a tal fine, che l'uomo rientri in se stesso per riconoscere
le fondamentali norme della legge morale naturale che Dio ha inscritto nel
suo cuore.
69. Il problema dello sviluppo oggi è
strettamente congiunto con il progresso tecnologico, con le sue
strabilianti applicazioni in campo biologico. La tecnica — è bene
sottolinearlo — è un fatto profondamente umano, legato all'autonomia e alla
libertà dell'uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello
spirito sulla materia. Lo spirito, « reso così “meno schiavo delle cose, può
facilmente elevarsi all'adorazione e alla contemplazione del Creatore” » [150]. La tecnica
permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica,
di migliorare le condizioni di vita. Essa risponde alla stessa vocazione del
lavoro umano: nella tecnica, vista come opera del proprio genio, l'uomo
riconosce se stesso e realizza la propria umanità. La tecnica è l'aspetto
oggettivo dell'agire umano [151], la cui
origine e ragion d'essere sta nell'elemento soggettivo: l'uomo che opera. Per
questo la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l'uomo e le sue
aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dell'animo umano al graduale
superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si
inserisce nel mandato di “coltivare e custodire la terra” (cfr Gn 2,15), che Dio ha affidato all'uomo e
va orientata a rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che deve
essere specchio dell'amore creatore di Dio.
70. Lo sviluppo
tecnologico può indurre l'idea dell'autosufficienza della tecnica stessa
quando l'uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché
dai quali è spinto ad agire. È per questo che la tecnica assume un volto
ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della
persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella
libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il
processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica [152], divenuta
essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l'umanità al rischio di
trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire
per incontrare l'essere e la verità. In tal caso, noi tutti conosceremmo,
valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita dall'interno di un
orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza
mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende
oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il
fattibile. Ma quando l'unico criterio della verità è l'efficienza e
l'utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato. Infatti, il vero
sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è
un'intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso
pienamente umano del fare dell'uomo, nell'orizzonte di senso della persona
presa nella globalità del suo essere. Anche quando opera mediante un
satellite o un impulso elettronico a distanza, il suo agire rimane sempre
umano, espressione di libertà responsabile. La tecnica attrae fortemente
l'uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l'orizzonte. Ma
la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino
della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale. Di
qui, l'urgenza di una formazione alla responsabilità etica nell'uso della
tecnica. A partire dal fascino che la tecnica esercita sull'essere umano, si
deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell'ebbrezza
di una totale autonomia, ma nella risposta all'appello dell'essere, a
cominciare dall'essere che siamo noi stessi.
71. Questa possibile deviazione della
mentalità tecnica dal suo originario alveo umanistico è oggi evidente nei
fenomeni della tecnicizzazione sia dello sviluppo che della pace. Spesso lo
sviluppo dei popoli è considerato un problema di ingegneria finanziaria, di
apertura dei mercati, di abbattimento di dazi, di investimenti produttivi, di
riforme istituzionali, in definitiva un problema solo tecnico. Tutti questi
ambiti sono quanto mai importanti, ma ci si deve chiedere perché le scelte di
tipo tecnico finora abbiano funzionato solo relativamente. La ragione va
ricercata più in profondità. Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente
da forze in qualche misura automatiche e impersonali, siano esse quelle del
mercato o quelle della politica internazionale. Lo sviluppo è impossibile
senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano
fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune. Sono
necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale. Quando
prevale l'assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini
e mezzi, l'imprenditore considererà come unico criterio d'azione il massimo
profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo
scienziato, il risultato delle sue scoperte. Accade così che, spesso, sotto
la rete dei rapporti economici, finanziari o politici, permangono
incomprensioni, disagi e ingiustizie; i flussi delle conoscenze tecniche si
moltiplicano, ma a beneficio dei loro proprietari, mentre la situazione reale
delle popolazioni che vivono sotto e quasi sempre all'oscuro di questi flussi
rimane immutata, senza reali possibilità di emancipazione.
72. Anche la pace rischia talvolta di
essere considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra
governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici. È
vero che la costruzione della pace esige la costante tessitura di
contatti diplomatici, di scambi economici e tecnologici, di incontri
culturali, di accordi su progetti comuni, come anche l'assunzione di impegni
condivisi per arginare le minacce di tipo bellico e scalzare alla radice le
ricorrenti tentazioni terroristiche. Tuttavia, perché tali sforzi possano
produrre effetti duraturi, è necessario che si appoggino su valori radicati
nella verità della vita. Occorre cioè sentire la voce e guardare alla
situazione delle popolazioni interessate per interpretarne adeguatamente le
attese. Ci si deve porre, per così dire, in continuità con lo sforzo anonimo
di tante persone fortemente impegnate nel promuovere l'incontro tra i popoli
e nel favorire lo sviluppo partendo dall'amore e dalla comprensione
reciproca. Tra queste persone ci sono anche fedeli cristiani, coinvolti nel
grande compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano.
73. Connessa con lo sviluppo
tecnologico è l'accresciuta pervasività dei mezzi di comunicazione sociale.
È ormai quasi impossibile immaginare l'esistenza della famiglia umana senza
di essi. Nel bene e nel male, sono così incarnati nella vita del mondo, che
sembra davvero assurda la posizione di coloro che ne sostengono la
neutralità, rivendicandone di conseguenza l'autonomia rispetto alla morale
che tocca le persone. Spesso simili prospettive, che enfatizzano la natura
strettamente tecnica dei media, favoriscono di fatto la loro
subordinazione al calcolo economico, al proposito di dominare i mercati e,
non ultimo, al desiderio di imporre parametri culturali funzionali a progetti
di potere ideologico e politico. Data la loro fondamentale importanza nella
determinazione di mutamenti nel modo di percepire e di conoscere la realtà e
la stessa persona umana, diventa necessaria un'attenta riflessione sulla loro
influenza specie nei confronti della dimensione etico-culturale della
globalizzazione e dello sviluppo solidale dei popoli. Al pari di quanto
richiesto da una corretta gestione della globalizzazione e dello sviluppo, il
senso e la finalizzazione dei media vanno ricercati nel fondamento
antropologico. Ciò vuol dire che essi possono divenire occasione di
umanizzazione non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono
maggiori possibilità di comunicazione e di informazione, ma soprattutto
quando sono organizzati e orientati alla luce di un'immagine della persona e
del bene comune che ne rispecchi le valenze universali. I mezzi di
comunicazione sociale non favoriscono la libertà né globalizzano lo sviluppo
e la democrazia per tutti, semplicemente perché moltiplicano le possibilità
di interconnessione e di circolazione delle idee. Per raggiungere simili
obiettivi bisogna che essi siano centrati sulla promozione della dignità
delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano
posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e
soprannaturale. Infatti, nell'umanità la libertà è intrinsecamente collegata
con questi valori superiori. I media possono costituire un valido
aiuto per far crescere la comunione della famiglia umana e l'ethos delle
società, quando diventano strumenti di promozione dell'universale
partecipazione nella comune ricerca di ciò che è giusto.
74. Campo primario e cruciale della
lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale
dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente
la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito
delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione
fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da
Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento
tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta tra le due
razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della
ragione chiusa nell'immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo.
La razionalità del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però
irrazionale, perché comporta un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a
caso la chiusura alla trascendenza si scontra con la difficoltà a pensare
come dal nulla sia scaturito l'essere e come dal caso sia nata l'intelligenza
[153]. Di fronte a
questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme
salveranno l'uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la
fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede
senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla vita concreta delle persone [154].
75. Già Paolo VI aveva riconosciuto e indicato
l'orizzonte mondiale della questione sociale [155]. Seguendolo
su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è
diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa
implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita,
sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo. La fecondazione
in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e
dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del
disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai
arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua
massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a
prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia
minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti
strumenti che la « cultura della morte » ha a disposizione. Alla diffusa,
tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già
surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica
delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una mens
eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in
certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro
questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana.
Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione
materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti
negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire
dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza
caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che
non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto
come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti
sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del mondo bussano
ancora alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire più
quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere
l'umano. Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano nel
mostrargli il bene, solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale
risplende la Ragione creatrice, indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua
miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale.
76. Uno degli aspetti del moderno
spirito tecnicistico è riscontrabile nella propensione a considerare i
problemi e i moti legati alla vita interiore soltanto da un punto di vista
psicologico, fino al riduzionismo neurologico. L'interiorità dell'uomo viene
così svuotata e la consapevolezza della consistenza ontologica dell'anima
umana, con le profondità che i Santi hanno saputo scandagliare,
progressivamente si perde. Il problema dello sviluppo è strettamente
collegato anche alla nostra concezione dell'anima dell'uomo, dal momento che
il nostro io viene spesso ridotto alla psiche e la salute dell'anima è
confusa con il benessere emotivo. Queste riduzioni hanno alla loro base una
profonda incomprensione della vita spirituale e portano a disconoscere che lo
sviluppo dell'uomo e dei popoli, invece, dipende anche dalla soluzione di
problemi di carattere spirituale. Lo sviluppo deve comprendere una
crescita spirituale oltre che materiale, perché la persona umana è un'«
unità di anima e corpo » [156], nata
dall'amore creatore di Dio e destinata a vivere eternamente. L'essere umano
si sviluppa quando cresce nello spirito, quando la sua anima conosce se
stessa e le verità che Dio vi ha germinalmente impresso, quando dialoga con
se stesso e con il suo Creatore. Lontano da Dio, l'uomo è inquieto e malato.
L'alienazione sociale e psicologica e le tante nevrosi che caratterizzano le
società opulente rimandano anche a cause di ordine spirituale. Una società
del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente per l'anima, non è di
per sé orientata all'autentico sviluppo. Le nuove forme di schiavitù della
droga e la disperazione in cui cadono tante persone trovano una spiegazione
non solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente spirituale. Il vuoto in
cui l'anima si sente abbandonata, pur in presenza di tante terapie per il
corpo e per la psiche, produce sofferenza. Non ci sono sviluppo plenario e
bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone,
considerate nella loro interezza di anima e corpo.
77. L'assolutismo della tecnica tende
a produrre un'incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice
materia. Eppure tutti gli uomini sperimentano i tanti aspetti immateriali e
spirituali della loro vita. Conoscere non è un atto solo materiale, perché il
conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico. Ogni
nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio,
perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che
adoperiamo. In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati,
nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo
mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in
ogni atto d'amore l'anima dell'uomo sperimenta un « di più » che assomiglia
molto a un dono ricevuto, ad un'altezza a cui ci sentiamo elevati. Anche lo
sviluppo dell'uomo e dei popoli si colloca a una simile altezza, se
consideriamo la dimensione spirituale che deve connotare
necessariamente tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso richiede
occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di superare la visione
materialistica degli avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un
“oltre” che la tecnica non può dare. Su questa via sarà possibile perseguire
quello sviluppo umano integrale che ha il suo criterio orientatore nella
forza propulsiva della carità nella verità.
CONCLUSIONE
78. Senza Dio l'uomo non sa dove
andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi
problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e
alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli:
« Senza di me non potete far nulla » (Gv 15,5) e
c'incoraggia: « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Di fronte
alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella
presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per
la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l'uomo non
è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da
sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e
in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo
anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a
servizio di un vero umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio dello sviluppo
è quindi un umanesimo cristiano [157], che ravvivi
la carità e si faccia guidare dalla verità, accogliendo l'una e l'altra come
dono permanente di Dio. La disponibilità verso Dio apre alla disponibilità
verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al
contrario, la chiusura ideologica a Dio e l'ateismo dell'indifferenza, che
dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si
presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L'umanesimo che
esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto
all'Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita
sociale e civile — nell'ambito delle strutture, delle istituzioni, della
cultura, dell'ethos — salvaguardandoci dal rischio di cadere
prigionieri delle mode del momento. È la consapevolezza dell'Amore
indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per
la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi ed insuccessi,
nell'incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L'amore
di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il
coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti,
anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad
attuare, noi e le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno
di ciò a cui aneliamo [158]. Dio ci dà
la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il
nostro Tutto, la nostra speranza più grande.
79. Lo sviluppo ha bisogno di
cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera,
cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas
in veritate, da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto
ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre
a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo
sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle
esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di
affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di
perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e
di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i « cuori di pietra » in
« cuori di carne » (Ez 36,26), così da
rendere « divina » e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra. Tutto
questo è dell'uomo, perché l'uomo è soggetto della propria esistenza;
ed insieme è di Dio, perché Dio è al principio e alla fine di tutto
ciò che vale e redime: « Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro:
tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,22-23). L'anelito
del cristiano è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come « Padre
nostro! ». Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a
pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha
insegnato, di saperLo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di
avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i
debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male
(cfr Mt 6,9-13).
Al termine
dell'Anno Paolino mi piace esprimere questo auspicio con le parole
stesse dell'Apostolo nella sua Lettera ai Romani: “La carità non
sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli
altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (12,9-10). Che la Vergine Maria, proclamata da Paolo VI Mater
Ecclesiae e onorata dal popolo cristiano come Speculum
iustitiae e Regina pacis, ci protegga e ci ottenga, con la sua
celeste intercessione, la forza, la speranza e la gioia necessarie per
continuare a dedicarci con generosità all'impegno di realizzare lo « sviluppo
di tutto l'uomo e di tutti gli uomini » [159].
Dato
a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno, solennità dei SS. Apostoli Pietro e
Paolo, dell'anno 2009, quinto del mio Pontificato.
BENEDICTUS
PP. XVI
[1] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268; cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 69.
[2] Discorso per la giornata dello sviluppo (23
agosto 1968): AAS 60 (1968),
626-627.
[3] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2002: AAS 94 (2002), 132-140.
[4] Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 26.
[5] Cfr Giovanni
XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963):
AAS 55 (1963), 268-270.
[6] Cfr n. 16: l.c., 265.
[7] Cfr ibid., 82: l.c., 297.
[8] Ibid., 42: l.c., 278.
[9] Ibid., 20: l.c., 267.
[10] Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 36; Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 4: AAS 63 (1971), 403-404; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1º maggio 1991), 43: AAS 83
(1991), 847.
[11] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio,13: l.c.,
263-264.
[12] Cfr
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa, n. 76.
[13] Cfr
Benedetto XVI, Discorso alla sessione
inaugurale dei lavori della V Conferenza generale dell'Episcopato Latinoamericano
e dei Caraibi (13 maggio
2007): Insegnamenti III, 1
(2007), 854-870.
[14] Cfr nn. 3-5: l.c., 258-260.
[15] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987),
6-7: AAS 80 (1988), 517-519.
[16] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 14: l.c.,
264.
[17] Benedetto
XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), 18: AAS 98 (2006), 232.
[18] Ibid., 6: l.c., 222.
[19] Cfr
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana
per la presentazione degli auguri natalizi (22 dicembre 2005): Insegnamenti I (2005), 1023-1032.
[20] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 3: l.c.,
515.
[21] Cfr ibid.,1: l.c., 513-514.
[22] Cfr ibid., 3: l.c., 515.
[23] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 3: AAS 73 (1981), 583-584.
[24] Cfr Id.,
Lett. enc. Centesimus annus, 3: l.c., 794-796.
[25] Cfr Lett.
enc. Populorum progressio, 3: l.c.,
258.
[26] Cfr ibid., 34: l.c., 274.
[27] Cfr nn. 8-9: AAS 60 (1968), 485-487; Benedetto
XVI, Discorso ai Partecipanti al
Convegno Internazionale organizzato nel 40º anniversario dell'« Humanae vitae
» (10 maggio 2008): Insegnamenti
IV, 1 (2008), 753-756.
[28] Cfr Lett.
enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 93: AAS 87
(1995), 507-508.
[29] Ibid., 101: l.c., 516-518.
[30] N. 29: AAS 68 (1976), 25.
[31] Ibid., 31: l.c., 26.
[32] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 41: l.c.,
570-572.
[33] Cfr ibid.; Id. Lett. enc. Centesimus annus, 5.54: l.c. 799.
859-860.
[34] N. 15: l.c., 265.
[35] Cfr ibid., 2: l.c., 258; Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891):
Leonis XIII P.M. Acta, XI, Romae 1892, 97-144; Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 8: l.c.,
519-520 ; Id., Lett. enc. Centesimus annus, 5: l.c.,
799.
[36] Cfr Lett.
enc. Populorum progressio, 2.13: l.c.,
258. 263-264.
[37] Ibid., 42: l.c., 278.
[38] Ibid., 11: l.c., 262; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 25: l.c,
822-824.
[39] Lett. enc. Populorum progressio, 15: l.c.,
265.
[40] Ibid., 3: l.c., 258.
[41] Ibid., 6: l.c., 260.
[42] Ibid., 14: l.c., 264.
[43] Ibid.; cfr Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Centesimus annus, 53-62: l.c.,
859-867; Id., Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979) 13-14: AAS 71 (1979), 282-286.
[44] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 12: l.c.,
262-263.
[45] Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.
[46] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 13: l.c.,
263-264.
[47] Cfr
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al
IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): Insegnamenti II,
2 (2006), 465-477.
[48] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 16: l.c.,
265.
[49] Ibid.
[50] Benedetto
XVI, Discorso ai giovani al molo
di Barangaroo: L'Osservatore Romano, 18 luglio
2008, p. 8.
[51] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 20: l.c.,
267.
[52] Ibid., 66: l.c., 289-290.
[53] I bid., 21: l.c., 267-268.
[54] Cfr nn.
3.29.32: l.c., 258.272.273.
[55] Cfr Lett.
enc. Sollicitudo
rei socialis, 28: l.c., 548-550.
[56] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 9: l.c.,
261-262.
[57] Cfr Lett.
enc. Sollicitudo rei socialis, 20:
l.c., 536-537.
[58] Cfr Lett.
enc. Centesimus annus, 22-29: l.c.,
819-830.
[59] Cfr nn.
23.33: l.c., 268-269.
273-274.
[60] Cfr l.c., 135.
[61] Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 63.
[62] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 24:
l.c., 821-822.
[63] Cfr Id., Lett. enc. Veritatis
splendor (6 agosto 1993), 33.46.51: AAS 85 (1993),
1160.1169-1171.1174-1175; Id., Discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite per la celebrazione del 50º di fondazione (5 ottobre 1995), 3: Insegnamenti
XVIII, 2 (1995), 732-733.
[64] Cfr Lett.
enc. Populorum progressio, 47: l.c.,
280-281; Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis, 42: l.c.,
572-574.
[65] Cfr
Benedetto XVI, Messaggio in occasione della
Giornata Mondiale dell'Alimentazione 2007: AAS 99
(2007), 933-935.
[66] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 18.59.63-64: l.c.,
419-421. 467-468. 472-475.
[67] Cfr
Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2007, 5: Insegnamenti II, 2 (2006), 778.
[68] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2002, 4-7.12-15: AAS 94 (2002), 134-136. 138- 140;
id., Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2004, 8: AAS 96 (2004), 119; id., Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2005, 4: AAS 97 (2005), 177-178; Benedetto
XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2006, 9-10: AAS 98 (2006), 60-61; id., Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2007, 5.14: l.c., 778. 782-783.
[69] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2002, 6: l.c., 135; Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2006, 9-10: l.c., 60-61.
[70] Cfr
Benedetto XVI, Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger Feld » di Regensburg (12 settembre 2006): Insegnamenti II,
2 (2006), 252-256.
[71] Cfr Id.,
Lett. enc. Deus caritas est, 1: l.c.,
217-218.
[72] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 28: l.c.,
548-550.
[73] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 19: l.c.,
266-267.
[74] Ibid., 39: l.c., 276-277.
[75] Ibid., 75: l.c., 293-294.
[76] Cfr
Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 28: l.c.,
238-240.
[77] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 59: l.c., 864.
[78] Cfr Lett.
enc. Populorum progressio, 40.85: l.c.,
277. 298- 299.
[79] Ibid., 13: l.c., 263-264.
[80] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 85: AAS 91
(1999), 72-73.
[81] Cfr Ibid., 83: l.c., 70-71.
[82] Benedetto
XVI, Discorso all'Università di
Regensburg (12 settembre 2006): Insegnamenti
II, 2 (2006), 265.
[83] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 33: l.c.,
273-274.
[84] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2000, 15: AAS 92 (2000), 366.
[85] Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 407; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 25: l.c.,
822-824.
[86] Cfr n. 17: AAS 99 (2007), 1000.
[87] Cfr ibid., 23: l.c., 1004-1005.
[88]
Sant'Agostino espone in modo dettagliato questo insegnamento nel dialogo sul
libero arbitrio (De libero arbitrio
II 3,8 sgg.). Egli indica l'esistenza dentro l'anima umana di un « senso
interno ». Questo senso consiste in un atto che si compie al di fuori delle
normali funzioni della ragione, atto irriflesso e quasi istintivo, per cui la
ragione, rendendosi conto della sua condizione transeunte e fallibile,
ammette al di sopra di sé l'esistenza di qualcosa di eterno, assolutamente
vero e certo. Il nome che sant'Agostino dà a questa verità interiore è talora
quello di Dio (Confessioni
X,24,35; XII,25,35; De libero
arbitrio II 3,8), più spesso quello di Cristo (De magistro 11,38;
Confessioni VII,18,24; XI,2,4).
[89] Benedetto XVI,
Lett. enc. Deus caritas est, 3: l.c.,
219.
[90] Cfr n. 49: l.c., 281.
[91] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 28: l.c., 827-828.
[92] Cfr n. 35: l.c., 836-838.
[93] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 38: l.c.,
565-566.
[94] N. 44: l.c., 279.
[95] Cfr Ibid., 24: l.c., 269.
[96] Cfr Lett.
enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840.
[97] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 24: l.c.,
269.
[98] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 32: l.c., 832-833; Paolo VI, Lett.
enc. Populorum progressio, 25: l.c.,
269-270.
[99] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 24: l.c.,
637-638.
[100] Ibid., 15: l.c., 616-618.
[101] Lett. enc. Populorum progressio, 27: l.c.,
271.
[102] Cfr
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiana
e la liberazione Libertatis
conscientia (22 marzo 1987) 74:
AAS 79 (1987), 587.
[103] Cfr Giovanni
Paolo II, Intervista al
quotidiano cattolico « La Croix », 20 agosto 1997.
[104] Giovanni
Paolo II, Discorso alla Pontificia
Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001): Insegnamenti XXIV, 1 (2001), 800.
[105] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 17: l.c.,
265-266.
[106] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2003, 5: AAS 95 (2003), 343.
[107] Cfr ibid.
[108] Cfr
Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2007, 13: l.c., 781-782.
[109] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 65: l.c.,
289.
[110] Cfr ibid., 36-37: l.c., 275-276.
[111] Cfr ibid., 37: l.c., 275-276.
[112] Cfr Conc. Ecum.Vat.
II, Decreto sull'apostolato dei laici
Apostolicam actuositatem, 11.
[113] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 14: l.c.,
264; Giovanni Paolo II Lett. enc. Centesimus annus, 32:
l.c., 832-833.
[114] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 77: l.c.,
295.
[115] Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 1990, 6: AAS 82 (1990), 150.
[116] Eraclito di
Efeso (Efeso 535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in H. Diels-W.
Kranz, Die Fragmente der
Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526 .
[117] Cfr
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa, nn. 451-
487.
[118] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 1990, 10: l.c., 152-153.
[119] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 65: l.c.,
289.
[120] Benedetto
XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2008, 7: AAS 100 (2008), 41.
[121] Cfr Id., Discorso ai partecipanti
all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008): Insegnamenti IV,
1 (2008), 618- 626.
[122] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 1990, 13: l.c., 154-155.
[123] Id., Lett.
enc. Centesimus annus, 36: l.c.,
838-840.
[124] Ibid., 38: l.c., 840-841; cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2007, 8: l.c., 779.
[125] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 41: l.c., 843-845.
[126] Cfr ibid.
[127] Cfr Id.,
Lett. enc. Evangelium vitae, 20:
l.c., 422-424.
[128] Lett. enc. Populorum progressio, 85: l.c., 298-299.
[129] Cfr Giovanni
Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 1998, 3: AAS 90 (1998), 150; Id., Discorso ai Membri della Fondazione « Centesimus Annus » (9 maggio 1998), 2: Insegnamenti
XXI, 1 (1998), 873-874; Id., Discorso alle Autorità
Civili e Politiche e al Corpo Diplomatico durante l'incontro nel « Wiener
Hofburg » (20 giugno 1998), 8:
Insegnamenti XXI, 1 (1998), 1435-1436; Id., Messaggio al Rettore
Magnifico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore nella ricorrenza annuale
della giornata (5 maggio 2000), 6: Insegnamenti
XXIII, 1 (2000), 759-760.
[130] Secondo San
Tommaso « ratio partis contrariatur rationi personae » in III Sent. d. 5, 3, 2.; anche « Homo
non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum et secundum omnia
sua » in Summa Theologiae I-II,
q. 21, a. 4, ad 3um.
[131] Cfr Conc.
Ecum.Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 1.
[132] Cfr Giovanni
Paolo II, Discorso ai partecipanti
alla seduta pubblica delle Pontificie Accademie di Teologia e di San Tommaso
d'Aquino (8 novembre 2001), 3:
Insegnamenti XXIV, 2 (2001), 676-677.
[133] Cfr
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. circa l'unicità e
l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa Dominus Jesus (6 agosto 2000), 22: AAS 92 (2000), 763-764; Id., Nota Dottrinale
circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici
nella vita politica (24 novembre 2002), 8: AAS 96
(2004), 369-370.
[134] Benedetto
XVI, Lett. enc. Spe salvi, 31: l.c.,
1010; Id., Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della
Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): l.c., 465-477.
[135] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 5: l.c., 798-800; cfr Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della
Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): l.c.,
471.
[136] N. 12.
[137] Cfr Pio XI,
Lett. enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931):
AAS 23 (1931), 203; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 48: l.c.,
852-854; Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 1883.
[138] Cfr Giovanni
XXIII, Lett. enc. Pacem in terris: l.c.,
274.
[139] Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 10.41: l.c., 262.277-278.
[140] Cfr
Benedetto XVI, Discorso ai Membri della
Commissione Teologica Internazionale (5 ottobre 2007): Insegnamenti
III, 2 (2007), 418-421; Id., Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale su « Legge
morale naturale » promosso dalla Pontificia Università Lateranense (12 febbraio 2007): Insegnamenti
III, 1 (2007), 209-212.
[141] Cfr
Benedetto XVI, Discorso ai Presuli della
Conferenza Episcopale della Thailandia in visita ad limina (16 maggio 2008): Insegnamenti
IV, 1 (2008), 798-801.
[142] Cfr
Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti,
Istruzione Erga migrantes caritas
Christi (3 maggio 2004): AAS 96 (2004), 762-822.
[143] Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 8: l.c.,
594-598.
[144] Discorso al termine della
Concelebrazione Eucaristica in occasione del Giubileo dei Lavoratori (1º maggio 2000): Insegnamenti
XXIII, 1 (2000), 720.
[145] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 36:
l.c., 838-840.
[146] Cfr
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti
all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008): l.c.,
618-626.
[147] Cfr Giovanni
XXIII, Lett. enc. Pacem in terris: l.c.,
293; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa, n. 441.
[148] Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 82.
[149] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 43: l.c., 574-575.
[150] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 41: l.c.,
277- 278; Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 57.
[151] Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 5: l.c., 586-589.
[152] Cfr Paolo
VI, Lett. ap. Octogesima adveniens, 29: l.c.,
420.
[153] Cfr
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al
IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): l.c.,
465-477; Id., Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger Feld » di Regensburg (12 settembre 2006): l.c.,
252-256.
[154] Cfr Congregazione
per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcune questioni di bioetica Dignitas personae (8 settembre 2008): AAS 100 (2008), 858-887.
[155] Cfr Lett.
enc. Populorum progressio, 3: l.c.,
258.
[156] Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 14.
[157] Cfr n. 42: l.c., 278.
[158] Cfr
Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 35: l.c.,
1013-1014.
[159] Paolo VI,
Lett. enc. Populorum progressio, 42: l.c.,
278.
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