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LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Cari fratelli nel
Sacerdozio, nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata tradizionalmente
dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato di
indire ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario
del “dies natalis”
di Giovanni Maria Vianney,
il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo.[1] Tale anno, che vuole contribuire a
promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una
loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si
concluderà nella stessa solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore del
cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato
d’Ars.[2] Questa toccante
espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e
riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per Io stesso porto ancora nel
cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitai il mio
ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza
riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto
stesso in cui portava il viatico a un malato grave.
Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e
che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse
nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero
sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato
evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo
avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di
sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi
dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del
suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro
ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità,
impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema
testimonianza del sangue? Ci sono, purtroppo, anche
situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito
dal Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: “Non
c'è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete”. Era, di
conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la
presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio Dio],
accordatemi la conversione della mia parrocchia;
accetto di soffrire tutto quello che vorrete per tutto il tempo della mia
vita!”, fu con questa preghiera che iniziò la sua missione.[7] Alla conversione della sua
parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in
cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato.
Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo
pastorale di san Giovanni Maria Vianney!
Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua
totale identificazione col proprio ministero. In Gesù,
Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la
sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta
l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione
alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare
a questa identificazione. Non si tratta certo di
dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente
dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria
fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e
quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e
paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di
ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare”
perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena
arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima
dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge
nella prima biografia.[8] L’esagerazione devota del pio
agiografo non deve farci trascurare il fatto che il
Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio della
sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie;
organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava
denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e
la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence” (un istituto da lui fondato) e
delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione dei bambini; fondava
confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui. Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è
doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano
l’unico popolo sacerdotale [9] e in mezzo ai quali, in virtù del
sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della
carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda
nella deferenza’ (Rm 12,10)”.[10] È da ricordare, in questo
contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri
a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro
ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad
ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro
aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi
dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei
tempi”.[11] Ai suoi parrocchiani il Santo
Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio
i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per
una visita a Gesù Eucaristia.[12] “Non c’è bisogno di parlar molto
per ben pregare” – spiegava loro il Curato - “Si sa che Gesù
è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro
cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore
preghiera”.[13] Ed esortava: “Venite alla
comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui...[14] “È vero che non ne siete degni, ma
ne avete bisogno!”.[15] Tale educazione dei fedeli alla
presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia
particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio
della Messa. Chi vi assisteva diceva che “non
era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione...
Contemplava l’Ostia amorosamente”.[16] “Tutte le buone opere riunite non
equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini,
mentre Questa immedesimazione
personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento
interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai
rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare
la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del
Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più
frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva
soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli
cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far
riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza
sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica.
Seppe così dare il via a un circolo virtuoso.
Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i
fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo
stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono.
In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta Tutti noi sacerdoti dovremmo
sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in
bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che
sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”.[24] Dal Santo Curato d’Ars noi
sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento
della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre
preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in
esso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari
penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile
bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi
nel “torrente della divina misericordia” che trascina
via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto
al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future
ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di
toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi
confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino
a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”.[25] A chi, invece, si accusava in
maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse
lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento
fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”,[26] diceva. “Se
almeno il Signore non fosse così buono! Ma
è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”.[27] Faceva nascere il pentimento nel
cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza
di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava.
A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una
più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando
l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: “Tutto
sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è
bello!”.[28] E insegnava loro a pregare: “Mio
Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”.[29] Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la
vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore
misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e
una simile testimonianza della verità dell’Amore: Deus
caritas est (1 Gv 4,8).
Con Nel mondo di
oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i
presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte
testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più
volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché
sono dei testimoni”.[32] Perché non nasca un vuoto
esistenziale in noi e non sia compromessa
l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di
nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il
nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo
mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa
Parola al punto che essa realmente dia un’impronta
alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”.[33] Come Gesù
chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14)
e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti
sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato
dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli
Apostoli.[34] Fu proprio l’adesione senza
riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale
del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri primordia,
pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la
fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli
evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per raggiungere
questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al
sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui,
come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione
cristiana”.[35] Il Curato d’Ars
seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua
condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu
quella di un religioso o di un monaco, ma quella
richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini
più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli
sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi
orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”,[36] alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli “era ricco per dare agli altri ed era molto povero
per se stesso”.[37] Spiegava: “Il mio segreto è
semplice: dare tutto e non conservare niente”.[38] Quando si trovava con le mani
vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero
come voi, sono uno dei vostri”.[39] Così, alla fine della vita,
poté affermare con assoluta serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio
ora può chiamarmi quando vuole!”.[40] Anche la sua castità
era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare
abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del
cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che
“la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano
quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un
innamorato.[41] Anche l’obbedienza di
san Giovanni Maria Vianney
fu tutta incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo
ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal
pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal
desiderio di fuggire “a piangere la sua povera vita, in solitudine”.[42] Solo l’obbedienza e la
passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se
stesso e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire
Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere
servito”.[43] La regola d’oro per una vita
obbediente gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può essere offerto al buon
Dio”.[44] Nel
contesto della spiritualità
alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è caro rivolgere ai
sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito a saper
cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri
nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove
Comunità. “Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo
fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non
immaginate… ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell’unico Corpo e
nell’unità dell’unico Corpo”.[45] A questo proposito, vale
l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis:
“Sapendo discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri)
devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che
eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli
con gioia e fomentarli con diligenza”.[46] Tali doni che spingono non pochi a
una vita spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici
ma per gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi,
infatti, può scaturire “un valido impulso per un
rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del
Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo”.[47] Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta
dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis
del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato
ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella
comunione dei presbiteri con il loro Vescovo.[48] Occorre che questa comunione fra i
sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e
manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme
concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva.[49] Solo così i sacerdoti sapranno
vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire
comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione
del Vangelo. L’Anno Paolino che volge al
termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle genti, nel
quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote,
totalmente “donato” al suo ministero. “L’amore del Cristo ci possiede – egli
scriveva – e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14).
Ed aggiungeva: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano
più per se stessi, ma per colui che è morto e
risorto per loro” (2 Cor. 5,15).
Quale programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato
ad avanzare sulla strada delle perfezione cristiana? Cari sacerdoti, la
celebrazione del 150.mo anniversario
della morte di san Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni
appena concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes
(1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: “Poco prima
che il Curato d'Ars concludesse la sua lunga
carriera piena di meriti, Alla Vergine Santissima
affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di
suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli ideali
di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il pensiero e
l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di preghiera e il
suo appassionato amore a Gesù crocifisso
Giovanni Maria Vianney
alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa
il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è,
oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che
vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli
nel Cenacolo: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho
vinto il mondo” (Gv 16,33). La fede nel Maestro divino
ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari sacerdoti, Cristo
conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare
da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi,
messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace! Con la mia benedizione. Dal
Vaticano, 16 giugno 2009
BENEDICTUS
PP. XVI [1] Tale lo ha proclamato il Sommo Pontefice Pio XI nel
1929. [2] “Le Sacerdoce, c’est
l’amour du cœur de Jésus” (in Le curé
d’Ars. Sa pensée - Son cœur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier
Mappus, Foi Vivante,
1966, p. 98). In seguito: Nodet.
L’espressione è citata anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1589. [3] Nodet, p. 101 [4] Ibid.,
p. 97. [5] Ibid.,
pp. 98-99. [6] Ibid.,
pp. 98-100. [7] Ibid.,
183. [8] Monnin A., Il Curato
d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. I, ed. Marietti, Torino 1870, p. 122. [9] Cfr Lumen gentium, 10. [10] Presbyterorum ordinis, 9. [11] Ibid. [12] «La
contemplazione è sguardo di fede fissato su Gesù. “Io
lo guardo ed egli mi guarda”, diceva, al suo santo Curato, il contadino
d'Ars in preghiera davanti al Tabernacolo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2715) [13] Nodet, p. 85. [14] Ibid., p. 114. [15] Ibid., p. 119. [16] Monnin A., o.c.,
II, pp. 430ss. [17] Nodet, p. 105. [18] Ibid., p. 105. [19] Ibid., p. 104. [20] Monnin A., o. c., II, p. 293. [21] Ibid., II, p. 10. [22] Nodet, p. 128. [23] Ibid., p. 50. [24] Ibid., p. 131. [25] Ibid., p. 130. [26] Ibid., p. 27. [27] Ibid., p. 139. [28] Ibid., p. 28. [29] Ibid., p. 77. [30] Ibid., p. 102. [31] Ibid., p. 189. [32] Evangelii nuntiandi,
41. [33] Benedetto XVI, Omelia nella Messa del S. Crisma,
9.4.2009. [34] Cfr Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea plenaria della Congregazione
del Clero, 16.3.2009. [35] P. I. [36] Nome che diede alla casa dove fece accogliere e
educare più di 60 ragazze abbandonate. Per mantenerla era disposto a tutto:
“J’ai fait tous les commerces imaginables”, diceva sorridendo (Nodet,
p. 214) [37] Nodet, p. 216. [38] Ibid., p. 215. [39] Ibid., p. 216. [40] Ibid., p. 214. [41] Cfr Ibid., p. 112. [42] Cfr Ibid., pp. 82-84;
102-103. [43] Ibid., p. 75. [44] Ibid., p.
76. [45] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia di Pentecoste,
3.6.2006. [46] N. 9. [47] Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi amici del Movimento dei Focolari e
della Comunità di Sant’Egidio,
8.2.2007. [48] Cfr n. 17. [49] Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores dabo vobis,
74. [50] Lettera enc. Sacerdotii nostri primordia,
P. III. [51] Nodet, p. 244. © Copyright
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