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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI
DELLA SCIENZA DISCORSO
DEL SANTO PADRE Aula Magna dell’Università
di Regensburg
Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni. Eminenze, Magnificenze,
Eccellenze, Illustri Signori, gentili
Signore! È per me un momento
emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora
poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a
quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante
accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della
vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non
esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto
molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si
incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con
gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà
teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un
cosiddetto dies academicus,
in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti
dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui
anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza,
cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci
rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel
tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme
anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo
fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche
delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi
sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro
che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas
scientiarum, anche se non tutti potevano
condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si
impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la
notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era
una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva –
di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario
e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere
fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo,
nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa. Tutto ciò mi tornò in mente,
quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore
Khoury (Münster) del
dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo,
forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un
persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi
presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di
Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i
suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più
dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo
si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella
Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e
dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre
"ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento –
Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei
toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero
dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha
affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su
questo tema. Nel settimo colloquio (διάλεξις –
controversia) edito dal prof. Khoury,
l'imperatore tocca il tema della jihād,
della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge:
"Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in
cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente,
l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e
fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari,
come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro"
e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco che ci
stupisce, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda
centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo:
"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai
soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere
per mezzo della spada la fede che egli predicava". L'imperatore, dopo
essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le
ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa
irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura
dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire
secondo ragione, „σὺν λόγω”,
è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo.
Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di
parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della
minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né
del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo
con cui si possa minacciare una persona di
morte…". L'affermazione decisiva in
questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire
secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per
l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca,
quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è
assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle
nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto
Khoury cita un'opera del noto islamista
francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a
dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che
niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà,
l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria. A questo puntosi apre, nella
comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un
dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire
contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un
pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si
manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e
ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo
versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra
Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole:
"In principio era il λόγος".
È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce
„σὺν λόγω”,
con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una
ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione.
Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di
Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede
biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era
il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro
tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La
visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e
che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in
Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10)
– questa visione può essere interpretata come una "condensazione"
della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e
l'interrogarsi greco. In realtà, questo
avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio
dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con
molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo
essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in
intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso.
Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico
Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora
privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della
terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del
roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari
passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella
derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così,
nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che
volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al
loro culto idolatrico, la fede biblica, durante
l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del
pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato
specialmente nella tarda letteratura sapienziale.
Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata
in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da
valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo
ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se
stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel
quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del
cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel
profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico
illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede
cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la
fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è
contrario alla natura di Dio. Per onestà bisogna annotare a
questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia
tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In
contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con
Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei
suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo
soltanto la voluntas ordinata. Al di
là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù
della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò
che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che,
senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un
Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza
e la diversità di Dio vengono accentuate in modo
così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del
bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali
rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue
decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre
attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore
e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il
Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le
dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia
fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più
divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi
in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel
Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce
pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo,
"sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più
del semplice pensiero (cfr Ef
3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per
cui il λατρεία“
– un culto checulto cristiano è, come dice
ancora Paolo „λογικη
concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr
Rm 12,1). Il qui accennato vicendevole
avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi
sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non
solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello
della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato
questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua
origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato
la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche
inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il
patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con
ragione, si può chiamare Europa. Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente
purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la
richiesta della deellenizzazione del cristianesimo
– una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la
ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel
programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei
loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra. La deellenizzazione
emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo.
Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano
di fronte ad una sistematizzazione della fede
condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione
della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola
storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura
invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente
originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un
presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per
farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver
dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant
ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i
riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione
pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà. La teologia liberale del XIX
e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa
rappresentante eminente è Adolf von
Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei
primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come
punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal
tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia
prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non
intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però
tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava
questa seconda onda di deellenizzazione rispetto
alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack,
il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe
prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche
prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo
messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso
dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In
definitiva, Egli viene rappresentato come padre di
un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack
è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna,
liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come
per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In
questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua
visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia,
per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e
quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la
critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza
anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo
classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata
dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si
basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo)
ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si
presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire
razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua
efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento
platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta
della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la
possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce
la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda
delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un
pensatore così strettamente positivista come J. Monod
si è dichiarato convinto platonico. Questo comporta due
orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo
di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria
ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza
deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia,
la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della
scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il
fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire
come problema ascientifico o pre-scientifico.
Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza
e ragione che è doveroso mettere in questione. Tornerò ancora su questo
argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce
di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina
"scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza
nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce
una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè
quelli del "da dove" e del "verso dove", gli
interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello
spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in
questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto
decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente
sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva
l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono
la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della
discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità:
lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione –
patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione
e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire
un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla
sociologia, è semplicemente insufficiente. Prima di giungere alle
conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora
brevemente alla terza onda della deellenizzazione
che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la
molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo,
compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una
prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le
altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al
punto che precedeva quella inculturazione
per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti.
Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed
imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e
porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era
maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono
elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere
integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto,
riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste
decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi,
conformi alla sua natura. Con ciò giungo alla
conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della
ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora
si debba ritornare indietro, a prima
dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che
nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene
riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità
che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono
stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha
accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi
espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello
spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si
tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di
essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle
possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste
possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo
se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la
limitazione autodecretata della ragione a ciò che è
verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa
nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto
come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria,
cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto
nell'università e nel vasto dialogo delle scienze. Solo così diventiamo anche
capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui
abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente
l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture
profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del
divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più
intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione
nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle
culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con
l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di
dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità
metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale
della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture
razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il
suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste
e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del
pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo
diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni
delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede
cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del
nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte
opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per
il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse.
Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande
danno". L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione
contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe
subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della
ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui
una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella
disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il
logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II,
partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a
questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel
dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di
nuovo, è il grande compito dell'università. |
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