IL DIRITTO PUO’ ESSERE STORTO
Quello che Ratzinger ritenne di dover dire ad Habermas
nel gennaio 2004
Arriva
oggi in libreria “Etica, religione e Stato liberale” (Morcelliana,
64 pagine, 6 euro), traduzione italiana del dialogo tra il filosofo Jürgen Habermas e l’allora
cardinale Joseph Ratzinger
(Monaco, 19 gennaio 2004) Riportiamo l’intervento del cardinale.
Ciò che
tiene unito il mondo
Nell’accelerazione del ritmo degli
sviluppi storici in cui ci troviamo emergono, a me sembra, soprattutto due
fattori quale segno di uno sviluppo che prima si era avviato con lentezza: da
una parte v’è il formarsi di una società mondiale, in cui le singole potenze
politiche, economiche e culturali sono sempre più interdipendenti e, nei loro
diversi ambiti vitali, sono in contatto e fusione reciproca. L’altro fattore è
lo sviluppo delle possibilità di azione dell’uomo, del potere di fare e di
distruggere, possibilità che fanno sì che la questione del controllo etico e
giuridico del potere si ponga in maniera assai più grave rispetto a quanto
finora eravamo abituati. Perciò diventa di massima urgenza il problema del modo
in cui culture che vengono a contatto possano trovare fondamenti etici in grado
di favorire la loro coesistenza ed edificare una forma comune di responsabilità
giuridica, atta a contenere e ordinare il potere.
Che il progetto Weltethos
(ethos mondiale) sostenuto da Hans Küng trovi una vasta eco, a ogni modo, indica che il
problema è stato sollevato. E questo rimane vero anche quando si accetti
l’acuta critica fatta da Robert Spaemann
a questo progetto. Ai due fattori citati infatti se ne aggiunge un terzo: nel
processo dell’incontro e della fusione delle culture in larga misura si sono
infrante certezze, che finora avevano una funzione portante. Il problema di che
cosa ora, soprattutto nel contesto dato, sia propriamente il bene e perché lo
si debba incondizionatamente fare, anche persino a proprio danno, questo
problema di fondo si presenta per lo più senza risposta.
Ora, a me pare evidente che la scienza
come tale non possa generare dell’ethos, e che quindi una coscienza etica
rinnovata non venga a costituirsi come prodotto di dibattiti scientifici.
D’altra parte è anche pur sempre incontestabile che il mutamento fondamentale
dell’immagine del mondo e dell’uomo, il quale è risultato dal crescere delle
conoscenze scientifiche, ha contribuito in modo essenziale al crollo di antiche
certezze morali. Pertanto v’è ora realmente una responsabilità della scienza
per l’uomo come uomo, e particolarmente una responsabilità della filosofia
d’accompagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze, di esaminare
criticamente deduzioni precipitose e certezze apparenti su questioni come: che
cosa sia l’uomo, donde venga e per quale fine esista, o, per usare altre
parole, di sceverare l’ele-mento non scientifico dai risultati scientifici con
cui spesso è frammisto, mantenendo così aperto lo sguardo sulla totalità, sulle
ulteriori dimensioni della realtà costituita dall’essere uomo, della quale la scienza
può mostrare sempre unicamente aspetti parziali.
Potere e
diritto
In concreto, è compito della politica
sottomettere il potere al criterio del diritto e in tal modo ordinarne l’uso
sensato. Non è il diritto del più forte a dover valere, ma la forza del
diritto. Il potere entro l’ordine e al servizio del diritto è il polo opposto
alla violenza, intesa come il potere privo di diritto e ad esso contrario. Di
conseguenza, per ogni società è importante superare il sospetto sul diritto e i
suoi ordinamenti, poiché solo così si può bandire l’arbitrio e vivere la
libertà in quanto bene condiviso. Il sospetto nei confronti del diritto, la
rivolta contro di esso sorgeranno sempre quando il diritto stesso non apparirà
più come espressione di una giustizia che sia al servizio di tutti, ma come il
prodotto di un arbitrio, di una pretesa di essere nel diritto solo perché si
detiene il potere su di esso.
Il compito di sottomettere il potere al
cri-terio del diritto rimanda quindi ad un altro problema: come nasce il
diritto e come dev’essere strutturato, perché sia
veicolo della giustizia e non privilegio di coloro che hanno il potere di
stabilirlo? Da una parte si pone la questione del formarsi del diritto, ma
dall’altra anche quello dei suoi propri criteri intrinseci. Che il diritto non
debba essere strumento di potere nelle mani di pochi, ma espressione
dell’interesse comune di tutti, è un problema che appare, comunque in primo
luogo, risolto mediante gli strumenti della formazione democratica della volontà
[del popolo], poiché in essa tutti cooperano al costituirsi del diritto e
quindi esso è diritto di tutti e può e deve essere rispettato. Di fatto la
garanzia della cooperazione comune allo strutturarsi del diritto e
all’ammini-strazione giusta del potere è il motivo essenziale, consente di
definire la democrazia come forma più adeguata di ordi-namento politico.
Tuttavia, così mi pare, rimane ancora un
problema. Poiché difficilmente si dà unanimità tra uomini, alla formazione
democratica della volontà non resta che utilizzare, quali strumenti
indispensabili, da un lato la delega, dall’altro la decisione a maggioranza,
nella quale di volta in volta, secondo l’importanza della questione da
decidere, possono essere richieste maggioranze più o meno ampie. Ma anche le
maggioranze possono essere cieche o ingiuste. La storia lo mostra più che
ampiamente. Quando una maggioranza, per grande che sia, schiaccia con leggi
oppressive una minoranza, per esempio religiosa o di razza, si può parlare
ancora di giustizia, di diritto in assoluto?
Perciò il principio di maggioranza lascia
ancor sempre aperta la questione dei fondamenti etici del diritto, ossia la
questione che porta a chiederci se non esista qualcosa che non può mai divenire
diritto, qualcosa che rimane sempre in sé ingiustizia, o negazione del diritto,
e, viceversa, se non esista anche quanto, per sua essenza, è diritto
immutabile, precedente a ogni decisione di maggioranza e che da essa deve venir
rispettato.
L’epoca moderna ha formulato un patrimonio
di questi elementi normativi nelle diverse dichiarazioni dei diritti dell’uomo
e l’ha sottratto al gioco delle maggioranze. Ora, nella coscienza attuale, ci
si può accontentare dell’evidenza intrinseca di questi valori. Ma anche il
trattenersi dal mettere in questione tale evidenza ha carattere filosofico.
Esistono quindi valori che sussistono in se stessi, che conseguono dall’essenza
del l’uomo e perciò sono intangibili in rapporto a tutti i soggetti che hanno
questa essenza. Dovremo più avanti tornare ancora un’altra volta sulla portata
di tale idea, tanto più che questa evidenza oggi non è affatto riconosciuta in
tutte le culture. L’islam ha definito un catalogo proprio dei diritti
dell’uomo, che diverge da quello occidentale. La Cina è bensì oggi determinata
da una forma di cultura sorta in occidente, il marxismo, ma, per quanto mi
risulta, pone in verità l’interrogativo se nel caso dei diritti dell’uomo non
si tratti di un’invenzione tipicamente occidentale, dietro la cui facciata si
deve indagare.
Nuove
forme del potere e nuovi problemi
Quando si tratta del rapporto tra il
potere e il diritto e delle fonti del diritto, bisogna prendere in
considerazione più da vicino anche il fenomeno del potere stesso. Non vorrei
tentare di definire l’essenza del potere come tale, ma delineare le sfide che
risultano dalle nuove forme di potere, le quali si sono sviluppate nell’ultimo
cinquantennio. Nel primo periodo dopo la seconda guerra mondiale dominava il
terrore di fronte al nuovo potere di distruzione, che s’era accresciuto per
l’uomo con l’invenzione della bomba atomica. L’uomo si vide improvvisamente in
grado di distruggere se stesso e la terra. Si sollevò la questione: quali
meccanismi politici sono necessari per evitare questa distruzione? Come si
possono trovare e rendere efficaci tali meccanismi? Come si possono mobilitare
delle energie etiche, le quali strutturino tali forme politiche e conferiscano
loro efficacia? Di fatto allora e, per un lungo periodo, furono la concorrenza
dei blocchi di potenze contrapposti tra loro e il timore di innescare, con la
distruzione dell’altro, la propria, a salvaguardarci dai terrori della guerra
atomica. La delimitazione reciproca della potenza e il timore per la propria
sopravvivenza si dimostrarono le forze salvatrici.
Ora non ci impaurisce più in questo modo
il timore per la guerra di grandi proporzioni, quanto quello per il terrorismo
onnipresente, che può colpire e rendersi operante in ogni singolo luogo.
L’umanità, questo vediamo noi ora, non ha bisogno affatto della grande guerra
per rendere invivibile il mondo. Le potenze anonime
del terrorismo, che può essere presente ovunque, sono sufficientemente forti
per perseguitare tutti fin nella vita quotidiana, e a questo riguardo rimane lo
spettro che elementi criminali si possano procurare l’accesso ai grandi
potenziali di distruzione, gettando così il mondo nel caos, al di fuori
dell’ordine della politica. Pertanto, la questione del diritto e dell’ethos si
è spostata: di quali fonti si alimenta il terrorismo? Come si può riuscire a
prevenire dall’interno questo nuovo male dell’umanità? Al riguardo, incute
paura il fatto che il terrorismo, almeno in parte, si legittimi con ragioni
morali. I messaggi di Osama Bin
Laden presentano il terrorismo come la risposta dei
popoli privi di potere e oppressi dall’orgoglio dei potenti, come la giusta
punizione della loro arroganza e del loro dispotismo e crudeltà, blasfemi. Per
le persone che si trovano in determinate situazioni sociali e politiche questo
genere di motivazioni è manifestamente convincente. In parte il comportamento
terroristico viene presen-tato come difesa della tradizione religiosa contro
l’empietà della società occidentale.
A questo punto sorge un interrogativo, sul
quale dobbiamo soffermarci: se il terrorismo si nutre anche di fanatismo
religioso – ed effettivamente se ne alimenta –, allora la religione è una
potenza risanatrice e salvatrice, oppure è una potenza arcaica e pericolosa,
che costruisce falsi universalismi e per tal via seduce a praticare
l’intolleranza e il terrorismo? La religione non deve qui esser posta sotto la
tutela della ragione e accuratamente delimitata? E di conseguenza, chi lo può
fare? In qual modo lo si attua? Ma rimane la questione generale: l’eliminazione
graduale della religione, il suo superamento, dev’essere
considerato come progresso necessario dell’umanità, affinché essa giunga sulla
strada della libertà e della tolleranza universale, o no?
Nel frattempo è venuta alla ribalta
un’altra forma di potere, che in un primo momento sembra benefica e degna di
tutto il plauso, ma in realtà può divenire una nuova fonte di minaccia per
l’uomo. Egli ora è in grado di “fare” esseri umani, di produrli per così dire
in provetta. L’uomo diventa il prodotto e con questo si altera in modo
fondamentale il suo rapporto con se stesso. Egli non è più un dono della natura
o del Dio creatore; è prodotto suo proprio. L’uomo si è calato nell’antro da
cui scaturisce il potere, presso la fonte prima della sua propria esistenza. La
tentazione di costruire solo ora l’uomo giusto, la tentazione di far
esperimenti con l’uomo, la tentazione di considerare l’uomo come rifiuto,
immondizia, non è un’idea cervellotica di moralisti nemici del progresso.
Se prima ci incalzava inquietante il
problema se la religione sia propriamente una forza morale positiva, ora deve
necessariamente emergere il dubbio sull’affidabilità della ragione. In ultima
analisi, anche la bomba atomica è un prodotto della ragione, l’allevamento
metodico e la selezione degli uomini sono stati escogitati dalla ragione. Ora,
quindi, non dovrebbe essere messa sotto controllo la ragione? Ma da parte di
chi o mediante che cosa? O forse ragione e religione dovrebbero delimitarsi
reciprocamente e di volta in volta indicarsi i confini e portarsi sulla strada
positiva? A questo punto si solleva di nuovo il problema del modo in cui in una
società mondiale, con i suoi meccanismi del potere e con le sue energie non
domate, così come con le diverse visioni di quel che è diritto e morale, si
possa trovare un’evidenza etica efficace, che abbia sufficiente forza motivante
e di affermazione per rispondere alle sfide suaccennate e per aiutare a
sostenerle.
Presupposti
del diritto: diritto / natura / ragione
Anzitutto è consigliabile rivolgere lo
sguardo a situazioni storiche paragonabili alla nostra, nella misura in cui v’è
qualcosa di paragonabile. Vale almeno la pena di osservare brevissimamente che
la Grecia ebbe il suo illuminismo, che il diritto fondato sugli dèi perse la
sua evidenza e si fu necessitati a ricercare motivi del diritto più profondi.
Così affiorò l’idea: di contro al diritto positivo, che può essere ingiustizia,
deve pur esserci un diritto che derivi dalla natura, dall’essere stesso
dell’uomo. Questo di-ritto si deve necessariamente trovare, e allora esso
costituisce il correttivo nei confronti del diritto positivo.
Ci risulta più facile guardare alla doppia
frattura intervenuta per la coscienza europea all’inizio dell’epoca moderna,
che costrinse a riflettere nuovamente sui fondamenti, sul contenuto e la fonte
del diritto. Qui si pone dapprima l’uscita dai confini del mondo europeo e
cristiano, che si attua con la scoperta dell’America. Ora si incontrano popoli
che non appartengono alla compagine organica della fede e del diritto, la quale
fino allora era la fonte del diritto per tutti e gli conferiva la sua
struttura. Non v’è alcuna comunanza di diritto con questi popoli. Ma allora
sono privi di un diritto, come a quel tempo molti affermarono e come fu
ampiamente tradotto in pratica, o v’è un diritto che travalica tutti i sistemi
giuridici, lega e rimanda gli uomini in quanto tali alla loro reciprocità?
Francisco de Vitoria in questa si-tuazione ha
sviluppato l’idea dello ius gentium, del
«diritto dei popoli», che era già nell’aria; in questo caso alla parola gentes si associa
in trasparenza il significato di pagani, non cristiani. Si intende dunque il
diritto che è previo alla struttura giuridica cristiana e deve ordinare una
giusta coesistenza di tutti i popoli.
La seconda rottura nel mondo cristiano si
compì all’interno della cristianità stessa a causa dello sci-sma nella fede,
attraverso il quale la comunità dei cristiani fu ripartita in comunità che si
contrap-ponevano – in parte ostilmente. Si deve sviluppare un’altra volta un
diritto comune, almeno un minimo di diritto precedente il dogma, un diritto i
cui fondamenti ora non si devono trovare più necessariamente nella fede, ma
nella natura, nella ragione dell’uomo. Hugo Grotius, Samuel von Pufendorf e altri hanno sviluppato l’idea del diritto
naturale come diritto razionale che, al di là dei confini della fede, è messo
in essere dalla ragione in quanto essa è l’organo della formazione del diritto
comune.
Il diritto naturale – particolarmente
nella Chiesa cattolica – è rimasto il modello di argomentazione, con cui essa
si appella alla ragione comune nei dialoghi con la società laica e con altre
comunità di fede e cerca i fondamenti a favore di un’intesa sui princìpi etici del diritto in una società pluralistica
“secolare”.
Ma questo strumento purtroppo risulta
spuntato, e io non vorrei quindi far leva su di esso in questo dialogo. L’idea
del diritto naturale presupponeva un concetto di natura, in cui natura e
ragione fanno pre-sa l’una nell’altra, la natura stessa è razionale. Questa
visione della natura si è spezzata con la vittoria della teoria
dell’evoluzione. La natura come tale, secondo essa, non è razionale, anche se
in essa vi sono modi di operare razionali: questa è la diagnosi che da quella
prospettiva ci viene posta e che oggi in larga misura sembra incontrovertibile.
Delle diverse dimensioni del concetto di natura, che erano proprie del diritto
naturale di un tempo, è rimasta così solo quella che Ulpiano
(primi anni del III secolo d.C.) colse nella celebre frase: «Ius naturae est, quod natura omnia animalia docet». Ma ciò appunto non basta a rispondere ai nostri
interrogativi, in cui non si tratta precisamente di quanto concerne tutti gli animalia, ma di compiti specificamente umani, che la
ragione dell’uomo ha creati e a cui non si può rispondere senza la ragione.
Come ultimo elemento del diritto naturale,
che nella dimensione più profonda voleva essere un diritto razionale, comunque,
nell’epoca moderna, sono rimasti i diritti umani. Essi non si possono
comprendere senza il presupposto che l’uomo come uomo, semplicemente a motivo
della sua appartenenza alla specie uomo, è soggetto di diritto, che il suo
stesso essere porta in sé valori e norme, i quali si devono trovare, ma non
inventare. Forse oggi la dottrina dei diritti umani dovrebbe essere integrata
con una dottrina dei doveri umani e dei limiti dell’uomo, e ciò potrebbe ora
comunque aiutare a rinnovare il problema se non possa darsi una ragione della
natura e così un diritto naturale per l’uomo e per il suo dimorare nel mondo.
Un dialogo di tal genere oggi dovrebbe essere esposto e impostato a livello
interculturale. Per i cristiani esso avrebbe a che fare con la creazione e col
Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe a questo il concetto del dharma,
dell’intrinseca struttura dell’essere secondo leggi, nella tradizione cinese
l’idea degli ordinamenti del Cielo (Tien).
L’interculturalità e le sue conseguenze
Prima di giungere a delle conclusioni, vorrei
ampliare ancora un po’ la traccia appena indicata. L’interculturalità
mi pare oggi costituisca una dimensione indispensabile per la discussione
intorno alle questioni fondamentali sull’essere uomo, discussione che non può
essere condotta né solo all’interno del cristianesimo né solo nell’ambito della
tradizione occidentale della ragione. Entrambi considerano se stessi, secondo
la loro autocomprensione, come universali e de iure possono anche esserlo. De facto de-vono per necessità
riconoscere d’essere accettati solo in parti dell’umanità e di essere anche
comprensibili soltanto in parti di essa. Il numero delle culture concorrenti è
però molto più limitato di quanto possa apparire a prima vista.
Soprattutto è importante il fatto che
all’interno delle aree culturali non esista più una unitarietà, ma che esse
siano caratterizzate tutte da tensioni che incidono profondamente nella sfera
della loro propria tradizione culturale. In occidente questo è completamente
palese. Anche se la cultura “secolare” di una razionalità rigorosa, di cui ci
ha dato un’immagine impressionante Habermas, è
largamente dominante e crede d’essere il fattore che lega tutto, la
comprensione cristiana della realtà è, come sempre, una forza operante. I due
poli si trovano in diverse posizioni di vicinanza o di tensione, in
atteggiamento di disponibilità ad apprendere reciprocamente o di più o meno
deciso rifiuto.
Anche l’area culturale islamica è
caratterizzata da analoghe tensioni: dall’assolutismo fanatico di un Osama Bin Laden
fino agli atteggiamenti che sono aperti a una razionalità tollerante, si
dispiega un ampio arco. Il terzo grande ambito culturale, la cultura indiana,
o, meglio, le aree culturali del-l’hinduismo e del buddhismo, a loro volta sono improntate a tensioni
somiglianti, anche se, a ogni modo per il nostro sguardo, hanno un rilievo meno
drammatico. Pure queste culture si vedono esposte tanto all’esigenza della
razionalità occidentale, quanto agli interrogativi della fede cristiana,
entrambi presenti; esse assimilano in diversi modi sia l’una, sia l’altra e
tuttavia, ciò facendo, cercano di salvaguardare la propria identità. Le culture
tribali dell’Africa e le culture tribali dell’America Meridionale, ridestate a
nuova vita da certe teologie cristiane, completano il quadro. Esse sembrano in
vasta proporzione mettere in questione la razionalità occidentale, ma anche la
rivendicazione universalista della rivelazione cri-stiana.
Che cosa segue da tutto ciò? Anzitutto, in
primo luogo, così mi pare, la non universalità di fatto delle due grandi
culture dell’occidente, quella della fede cristiana come quella della
razionalità “secolare”, per quanto ambedue nel mondo intero e in tutte le
culture contribuiscano, ciascuna a suo modo, a dar l’impronta. Pertanto
l’interrogativo del collega di Teheran, citato da Habermas, mi sembra sia pur di qualche peso, vale a dire la
questione se, in termini di comparazione delle culture e di sociologia delle
religioni, la secolarizzazione europea non sia l’anomalia che richieda una
correzione. Non ridurrei incondizionatamente e, in alcun caso, neces-sariamente
questo problema alla situazione emotiva di Carl Schmitt, Martin Heidegger e Leo Strauss, ossia,
per così dire, a una situazione europea stanca di razionalità. E’ un dato di
fatto, a ogni modo, che la nostra razionalità “secolare”, per quanto chiara
appaia alla nostra ragione formata secondo modalità occidentali, non è evidente
a ogni ratio; è un dato di fatto che essa, nel suo sforzo di rendersi evidente
come razionalità, urta in certi limiti. La sua evidenza è fattualmente
legata a determinati contesti culturali, e deve per necessità riconoscere di
non essere, come tale, riproducibile (nachvollziehbar) nell’intera umanità e quindi nemmeno
operativa in toto.
In altre parole, non esiste una formula per tutto il mondo, una formula,
razionale, etica o religiosa che sia, sulla quale tutti siano concordi e che
possa sostenere la totalità. Ad ogni modo, al presente una tale formula non la
si può raggiungere. Per conseguenza anche il cosiddetto ethos del mondo rimane un’astrazione.
Conclusioni
Che cosa si deve fare dunque? Riguardo
alle conseguenze pratiche, sono in forte accordo con quanto ha esposto Habermas su una società “postsecolare”,
sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione
da entrambi i lati. Vorrei sintetizzare la mia visione personale in due
riflessioni e concludere in questo modo.
Noi avevamo visto che vi sono nella
religione patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare
la luce divina della ragione, per così dire, come organo di controllo, movendo
dal quale la religione deve necessariamente farsi purificare e ordinare
continuamente, il che del resto era anche il pensiero dei Padri della Chiesa.
Ma nelle nostre riflessioni si è anche mostrato che vi sono pure delle
patologie della ragione (cosa di cui oggi in generale non è altrettanto
consapevole l’umanità), una hybris della
ragione, che non è meno pericolosa, ma ancora più minacciosa se vista nella sua
potenziale efficienza: bomba atomica, uomo come prodotto. Per questo, a sua
volta, anche la ragione dev’essere am-monita sui suoi
limiti ed esortata a imparare una disponibilità all’ascolto verso le grandi
tradizioni religiose dell’umanità. Se si emancipa completamente, e abbandona
questa disponibilità di apprendere, questa correlatività, essa diviene
deleteria.
Recentemente Kurt
Hübner ha formulato un’esigenza simile e ha detto
che, nel caso di tale tesi, non si tratta direttamente di un “ritorno alla
fede”, ma del fatto che “ci si libera dall’abbaglio epocale secondo cui essa
[la fede] non ha più niente da dire all’uomo d’oggi in quanto contraddice la
sua idea umanistica di ragione, illuminismo e libertà”. In modo corrispondente
io parlerei di una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e
religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo
risa-namento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una
l’altra.
Questa regola fondamentale deve allora
essere concretizzata nel contesto interculturale del nostro presente. Senza
dubbio i due partner principali in questa correlatività sono la fede cristiana
e la razionalità “secolare” occidentale. Questo può essere affermato senza
cadere in eurocentrismo errato. En-trambi determinano
la situazione mondiale in una misura quale nessuna altra delle forze culturali
possiede. Il che non significa sia lecito accantonare le altre culture come quantité négligeable:
sarebbe il segno di una hybris
occidentale, che pagheremmo a caro prezzo come in parte già succede. E’
importante per le due grandi componenti della cultura occidentale farsi
coinvolgere in un ascolto, in una vera correlatività anche con queste culture.
E’ importante coinvolgerle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui
aprano se stesse alla complementarità essenziale tra ragione e fede, cosicché
possa crescere un processo di purificazione universale, in cui in ultima
istanza i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti o presagiti
da tutti gli uomini possano conseguire nuova forza d’illuminazione, cosicché
possa ritornare ad avere forza operante quanto tiene unito il mondo.
Joseph Ratzinger
IL FOGLIO
VENERDÌ 6 MAGGIO 2005