Bibbia a fumetti - Castigat ridendo mores - da Astrologia a Vita Sociale il dizionario dei problemi dell'uomo moderno

 

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Emanuele

 

Emanuele

Samek Lodovici

 

una conferenza inedita

 

L' arte di non disperare

 

 

      Il 5 maggio 1981 Emanuele Samek Lodovici moriva per i postumi di un in­cidente stradale. Era uno del collaboratori più apprezzati di Studi cattoli­ci, e il suo entusiasmo, la sua intelligenza, la sua generosità hanno lasciato una traccia incancellabile. Lo ricordiamo, a vent'anni da quel triste giorno, con la pubblicazione di una conferenza inedita, pronunciata nel maggio del 1980 e trascritta a cura del suo allieva torinese Gianluca Se­gre. La conferenza era rivolta ai genitori degli studenti di un centro scolastico: per questo, nella parte finale, i temi familiari vengono in primo pia­no.

 

      Cercherò, nel dire ciò che intendo dire, di essere utile. Comincerò allora col mostrare quali sono alcuni motivi di disperazione: naturalmente non farò altro che delle dichiarazioni di voto, pronuncerò dei giudici tranchants, che non è possibile documentare in una conversazione come questa.

      Una prima dichiarazione è il mio giudizio sul `68. Che cosa è avvenuto? Per parlarne occorre anzitut­to ricordare che noi viviamo da tre secoli all’inter­no di quello che definisco come attacco macrostrutturale ai valori, ai valori che sono radicati e personificati nella tradizione occidentale cristiana. Dal­l'Illuminismo in poi si è sviluppata una critica fron­tale nei confronti del cristianesimo e dei valori a es­so collegati, e che sono anche valori «laici» con una matrice cristiana.

      Chiamo questo tipo di attacco «macrostrutturale», di grande struttura, poiché muove contro il cristia­nesimo,      per così dire, sul piano speculativo: è un conflitto tra idee e visioni del mondo.

      Un esempio evidente è rappresentato dal marxismo, il quale attacca il cristianesimo e i valori tradizio­nali con la tesi, a tutti nota, che i valori altro non so­no che l'espressione di una struttura economica. In­vece per la concezione cristiana e per le visioni del mondo a essa collegate, per esempio nelle mora­li che si rifanno a Kant, parlare di spirito, di ani­ma, non significa riferirsi a una realtà determinata dalla struttura sociale. È significativa l’affermazio­ne di Marx secondo cui non è la coscienza che de­termina la struttura sociale, ma è la struttura socia­le che determina la coscienza umana.

      Sino al `68, in linea di massima, ci siamo trovati di fronte a una lunga parabola di sistemi che si sono pas­sati via via la palla nel tentativo di colpire il cristiane­simo sul piano dei princìpi, onde screditare la credi­bilità dei principi stessi, quali l'immortalità dell'ani­ma, l'esistenza del peccato originale, la condizione dell’ uomo come essere finito e limitato, e così via.

 

Un nuovo senso comune

 

      Ed ecco un'altra dichiarazione di voto: a partire dal '68 l'attacco macrostrutturale si è mutato in corro­sione dei “piccoli” princìpi. In che senso? Nel senso di una aggressione contro coloro che trasmettono i princìpi: è  quindi un attacco che colpisce certo il cristianesimo, ma non con discorsi filosofici, bensì proponendo un nuovo senso comune e pertanto un nuovo modo di vivere, un nuovo modo di essere marito e moglie, di essere genitori e figli. Voglio di­re che la lotta è andata dai grandi princìpi alle cose quotidiane. facendo in modo che la gente lentamente si abituasse, per quanto riguarda la propria vita ordinaria, dall'ufficio alla fabbrica, dalla scuola alla famiglia, a pensare in un modo che rendes­se impossibile vivere la tradizione cristiana.

      La differenza tra i due tipi di attacco va sottolinea­ta: un conto è la discussione con un'altra persona a livello teorico, sul piano della validità o meno delle rispettive posizioni; altro è far sì che l'antagonista venga condotto a vivere, nella pratica, come se non credesse ai principi che sostiene.

 

La filosofia dei corpo

 

      Ne vogliamo qualche esempio? Prendiamo quel fe­nomeno che abbiamo ogni giorno di fronte e che possiamo recepire attraverso le edicole: è ciò che chiamo la «filosofia del corpo». Basta un minimo di sensibilità per chiederci che cosa si nasconde dietro alla nudità indiscreta, procace e violenta che giunge da televisioni e giornali. Cerchiamo di leggere oltre e oltre e osserviamo che cosa significa quell'immagine sempre vistosa, sempre perfetta, sempre igienica­mente integra del corpo femminile, e tra non molto maschile, e che a me sembra sempre più infetta; dietro questa fiera delle vanità troviamo un'esaltazione del corpo inteso come vita, vita in­corruttibile, che è perfetta e non conosce la morte, che è sempre all'apice del ciclo biologico. Questa esaltazione del corpo come vita, ottenuta tramite la nudità ostentata, si presenta nel mondo contempo­raneo con numerose modalità, tutte rivolte a negare la corrutibilità del corpo stesso.

      Basti pensare ai fenomeni di protesi e di ricostruzio­ne del corpo, dalla parrucca messa sulla calvizie alle iniezioni di silicone nel seno, ai tacchi alti, alla pla­stica facciale: ci troviamo di fronte all'affermazione che il corpo non può morire, non può contrarsi, non può iniziare la fase declinante del ciclo, e che può in ogni momento essere restaurato tramite la protesi.

      Un'altra manifestazione di questa filosofia del cor­po è la droga. Non mi riferisco alla banalità di quel­le inimitabili figure sulla droga che «fa tanto male», ma al suo significato filosofico, di cui anche i fau­tori e difensori della droga non sono necessaria­mente coscienti. La droga è stimolazione della po­tenza del corpo, e il corpo è vita che c'è, vita che non muore, vita che deve essere in grado di dare a sé stessa un'infinita di sensazioni; la droga esalta il corpo come un valore che non può perire.

      Nel senso comune questa manifestazione della vita­lità si tramuta immediatamente in senso anticristia­no, cioè nel rifiuto della finitezza; si esalta il corpo come qualcosa di infinito negando così la nostra inevitabile condizione creaturale, di esseri finiti.

 

Il principio del piacere

 

      Il tentativo di istituire un nuovo senso comune col­pisce anche il criterio ispiratore delle nostre scelte, sostituendo il principio di responsabilità con il prin­cìpio del piacere. Pensiamo ai messaggi nascosti che ogni giorno ci arrivano. Perché essere fedeli? Perché non sfruttare la nostra occasione per correre la ca­vallina? Perché alzarsi di notte per un figlio che piange?. Perché cedere il posto in treno a un anzia­no? Chi te lo fa fare? Perché stare con i bambini piuttosto che leggere il giornale o piazzarsi davanti alla televisione? Perché scegliere per te il cibo meno interessante tra quelli che sono in tavola? Progressi­vamente, e in modo del tutto insensibile, ci viene trasmesso un messaggio di estrema precisione: nelle me scelte ricorda che quello che conta è il principio del piacere; nelle tue scelte ricordati che devi goder­ti la vita a qualunque costo, dove «a qualunque co­sto» vuol dire sempre a costo di qualcun altro.

      Un ulteriore esempio è dato dal caso della donna. In­tendo con ciò il processo attraverso il quale la donna viene progressivamente portata a pensarsi come un essere che non ha legami nei confronti di alcunché, che non è responsabile nei confronti di nulla; parlo evidentemente di quel fenomeno banale, ma profon­do nella sua banalità, che è il femminismo.

      Che cosa significa responsabilità? Vuol dire essere sponsus rebus, sposato alla realtà, legato al mio dovere: in questo caso, parlando della donna. se è ma­ritata, legata alla famiglia. Quando prevale un'im­magine della donna slegata, tendenzialmente ma­schile, capace di una sessualità nomade, di una mo­bilità di carriera, è chiaro che si è progressivamente costruita l’immagine di una donna che al posto di trasmettere valori ai fìgli, trasmette la propria vo­lontà incerta. Naturalmente questo discorso vale an­che per l'uomo, che non ha alcun privilegio rispetto alla donna; tuttavia, è bene riflettere su quanto incide questa derealizzazione, questa deresponsabilizza­zione della donna nei suoi effetti sulla famiglia.

      Gli esempi riferiti documentami la tesi iniziale: si sta instaurando un nuovo senso comune che rende invivibile la tradizione, anche quand'essa rimane un valore sul piano della convinzione intellettuale. Ecco il risultato dell'attacco microstrutturale, che riguarda il modo di vivere i princìpi: e noi sappia­mo che, a forza di non agire come pensiamo, finia­mo per pensare come agiamo. E’ inutile difendere in modo retorico i valori se li contraddiciamo sul pia­no della prassi: a questo punto occorre reagire.

 

L'inizio della speranza

 

      Così stando le cose, come proporre un'inversione dì tendenza? Non c'è flusso che non si possa, volendo, trasformare in riflusso: ci viene in soccorsa l'arte di non disperare. Ma come si impara? Naturalmente, mi spiace dirlo, se è un'arte non s'impara. Questo è un aspetto importante, che ci può illuminare: per impa­rare a non disperare non possediamo tecniche. Que­sto capita con tutte le arti; ognuno sa che in una bot­tega d'arte avviene di fatto caratteristico: da una par­te c'è il maestro, e dall’altra il discepolo; il maestro può insegnare varie cose al discepolo, per esempio la tecnica della prospettiva, o del miscelamento dei colori: ma non può insegnargli a essere un'artista.

      Allo stesso modo noi non siamo in grado di «produr­re» la speranza. Con questo voglio ricordare un dato fondamentale della tradizione cristiana, secondo cui il momento iniziale di tutte le cose non dipende da noi. Per esempio, io non sono in grado di produrre in me la fede: c'è qualcos’altro che mi rende capace di avere fede, e teologicamente si chiama grazia. Ora, passando dal piano teologico a quello naturale, pos­so con estrema facilità dire che in tutto quello che ci interessa vi è un elemento iniziale, un primo passo ­è il primo passo che conta, quello che vince l'attrito, non dipendente da noi. Allora per iniziare a spe­rare non basta voler sperare, poiché questo dipende dalla grazia, dalla virtù teologale il cui appello ini­ziale non tocca a noi. Quindi l'arte di non disperare non s'impara; ma dire non s'impara non vuol dire che non c'è, vuol dire che la dobbiamo desiderare; dobbiamo desiderare che ci cada addosso, incomin­ciando in senso forte a sperare.

      Per usare le parole di san Paolo dobbiamo comin­ciare ad avere una spes contra spem, alla speranza contro tutte le speranze mondane. Dunque, l'arte di non disperare nel suo inizio non dipende da noi, ma quando è iniziata dipende poi tutta da noi. Questo è l'aspetto paradossale: non sono in grado di produr­re in me la fede, ma quando la possiedo la devo esercitare. Non sono in grado di produrre la speranza, ma quando ce l'ho non devo solo dire “io spero”, ma fare come i bravi sportivi, cioè esercitare la speranza, fare tutte le volle, diceva il catechismo, l'atto di speranza, e riflettere sul suo contenuto. Come diceva mons. Escrivà, «Dio non perde batta­glie». Se un vero atleta si esercita tutti i giorni, noi, per esercitarci a essere uomini tutti i giorni, dobbia­mo fortificarci nella speranza.

 

La Provvidenza

 

      L'esercizio della speranza ci fa capire che qualun­que cosa accada, per noi andrà a finire bene. Atten­zione: siamo abituati a pensare la provvidenza in un modo banale, nel senso che “ci vada a finire bene». Chi non ha presente I Promessi Sposi? In questo ro­manzo grande, bello, ironico, sembra apparire un concetto di speranza alquanto diverso: A ama B, C impedisce l'amore di A con B, inizia la storia e, in conclusione, C finisce al lazzaretto, mentre A e B concludono il loro sogno di amore. Questa è l'im­magine della provvidenza in cui “a noi finisce be­ne”. Anch’io dico che a noi finisce bene, ma in mo­do diverso. Qualunque cosa accada, ecco la spe­ranza che dobbiamo esercitare, dobbiamo spera­re di finire bene nel senso di diventare migliori. Con Platone possiamo dire: per te è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla; questo è il grande senso della giustizia.

      Tutto quello che conta è che tu finisca migliore. Un grandissimo uomo di speranza, Aleksandr Solze­nicyn, direbbe: “Che tu esca dalla vita meglio di quando vi sei entrato”. È certo che qualunque cosa accada, che vada finire bene o male in senso naturale, a noi andrà a finir meglio. Dobbiamo deside­rare di diventare migliori; questa è la speranza uma­na più vicina alla speranza teologale: che noi si esca migliori da questa vita.

 

II vero combattimento

 

      La terza regola dell'arte di non disperare si vede da­gli effetti. Chi spera combatte. Il combattere è fon­damentale per l'uomo che spera, ma come? Da una poesia di T. S. Eliot emerge la regola del vero com­battente, la regola di chi compie l'azione sperando; dice Eliot (nei Dry Salvages dei Quattro Quartetti tradotti da Filippo Donini):

          

                    Quando  il treno parte, e i passeggeri sono a posto,

           intenti alla frutta, ai periodici e alle lettere d’affari

           (e quelli ch’eran venuti a salutarli se ne sono andati via

         dal marciapiede)

i loro volti si spianano dal dolore al sollievo,

al ritmo sonnacchioso di un centinaio d'ore.

Avanti viaggiatori! Senza sfuggire dal passato

a vite differenti o a qualsiasi futuro;

non siete la stessa gente che ha lasciato la stazione

o che arriverà a una destinazione qualsiasi,

mentre i binari sfuggenti si stringono dietro di voi;

e sul ponte del transatlantico possente

mentre guardate il solco che s’apre dietro di voi,

non dovere pensare che “il passato è finito”

o che il futuro è davanti a noi”.

           (…)

          Avanti, o voi che credete di viaggiare;

          non siete voi quelli che videro il porto

          allontanarsi, né quelli che sbarcheranno.

 

          Nessuno di noi sbarcherà, nessuno di noi vedrà il risultato

          dell'azione che veramente gli interessa.

 

          Qui tra la sponda di qua e quella lontana,

          mentre il tempo è sospeso, considerate il futuro

          e il passato con mente imparziale.

          Nel momento che non è d’azione né d’inazione

          Potete accogliere questo: “in qualunque sfera dell’essere

                  la mente di un uomo possa essere intenta

          al tempo della morte” – ecco l’unica azione

          (e il tempo della morte è ogni momento)

          che darà frutto nella vita degli altri:

          e non pensate al frutto dell’azione.

 

Ecco l'unica azione: se volete davvero agire voi che comunque non sbarcherete, agite disinteressatamente, agite senza pensare ai risultati. La vera azio­ne è l'azione disinteressala anche se noi non ne ve­dremo l'esito.

      Io non so fino a che punto posso essere maestro di coloro che mi ascoltano, ammesso che sia in grado di essere maestro di qualcuno, ma questo è ciò che davvero conta per me: non interessarmi ai frutti, ma interessarmi alla generosità del momento in cui do; perché se diamo in considerazione dei frutti che ot­teniamo, diamo sempre meno, combattiamo sempre meno. L'arte di non disperare si esprime così come l'arte di combattere indipendentemente dal risulta­to. Coloro che sul piano spirituale sono proletari combattono solo se sono sicuri di vincere, quelli che sul piano spirituale sono borghesi combattono solo se hanno qualcosa da conservare, quelli che sul piano spirituale sono nobili combattono anche quando sono sicuri di perdere e proprio per questo vincono.

      Una persona che si esercita a lottare inizia poi an­che a sperare. Fai come se non dovessi mai vedere la terra promessa, fai come se non dovessi mai ve­dere ciò che sempre hai desiderato vedere, e proprio per questo è probabile che tu la veda. Mai però la­sciare il combattimento, non solo verso un ipotetico avversario, ma il combattimento vero, quello contro noi stessi per divenire migliori; riformiamo noi stessi  per formare gli altri

 

Dilatare il cuore

 

      Appartiene all'arte di non disperare anche un quarto aspetto, quello che ci porta a non essere meschini, ad allargare il cuore, a vedere anche le piccole cose nel­la prospettiva delle grandi. Noi facciamo un edificio con modesti mattoni, ma è importante sapere che dietro ai mattoni che ognuno porta si innalza il gran­de edificio che amiamo. Una parabola proveniente dall'ebraismo orientale esprime in modo significati­vo la dilatazione del cuore del vero combattente.

      C'è una persona che, passando per strada, vede tre uomini intenti a costruire un muro; ognuno di loro compie esattamente lo stesso gesto, l'impasto della calce. Il viandante chiede al primo: “Che cosa stai fa­cendo?” E l'altro: “Perché mi secchi, non vedi che sono come uno schiavo alla ruota? Sto lavorando”. Il viandante rivolge la stessa domanda al secondo, che risponde: “Ma insomma, non vedi? Sto facendo un muretto. un muro come un altro, tutti lo sanno fare”. Infine il viandante si rivolge al terzo uomo; e l'altro, che sta facendo esattamente la  stessa cosa dei primi due, con la gioia sul volto risponde: “Non lo vedi? Sto costruendo il tempio, il tempio di Dio”.

 

Famiglia & gratuità

 

      Arte che non s'impara, virtù che si esercita, speran­za che si esprime nel combattimento, cuore che si dilata; possiamo aggiungere un quinto e ultimo aspetto, la visione positiva. Per non disperare oc­corre guardare, come tutti sanno, la parte piena del­la bottiglia. E questa parte è fatta dagli elementi che nella nostra esperienza sono buoni; da questi occor­re partire per il riflusso. Per non disperare occorre porre il piede su ciò che c’è ed è valido; e se c’è qualcosa che già esiste e che è un grande elemento di riflusso per ricostruire, contrastando il nuovo senso comune depravato, questa è la famiglia.

      Sia chiaro che non parlo della patologia, ma della fi­siologia, del buon funzionamento della famiglia, di ciò che essa è o può essere per propria natura. Se es­sa è il luogo centrale dell'educazione, quale ne è l'e­lemento centrale? È la famiglia come luogo della gratuità, in cui si è accettati indipendentemente dalla funzione che potremmo svolgere. Sappiamo che nel­la vita quotidiana siamo accettati, fuori dalla fami­glia, nella misura in cui svolgiamo una funzione e quindi rientriamo in un meccanismo, per esempio l'ambiente di un ospedale, di un tribunale, di un uffi­cio; siamo accettati se davvero svolgiamo quel deter­minato compito; non avviene mai che all'interno di una banca un impiegato venga accettato se non adempie la sua funzione. I rapporti fuori della fami­glia sono rapporti bronzei, di prestazione si usa dire, ma nella famiglia non si è accettati per le prestazioni che si danno, ma per quello che si è. Ecco l'aspetto gratuito, spontaneo, non funzionale della famiglia. Il figlio è accettato per quello che è, non perché porta del denaro o svolge una mansione, e così è per il ma­rito, così per la moglie; il primo aspetto essenziale di una famiglia è: ti accetto per quello che sei.

      Secondo aspetto: proprio perché ti accetto per quel­lo che sei e non per la funzione che svolgi, la fami­glia è il luogo della permanenza. È quindi luogo del­la fiducia: siccome ti accetto per ciò che sei, vuol di­re che ti accetto permanentemente; questo permette di esercitare la virtù della fiducia e dell'altruismo, in quanto ognuno sa di essere accettato, nonostante tut­to quello che di fatto possa essere. La famiglia di­viene così anche luogo della sincerità, nel quale non ho bisogno, come inevitabilmente avviene all'ester­no, di assumere una sorta dì presentabilità; vediamo le persone per quello che sono e ci abituiamo a pre­sentarci per quello che siamo, a essere sinceri. Non c'è spazio per la doppiezza perché non avrebbe sen­so mascherarsi. Se sono accettato per quello che sono, mi abituo a essere sincero e, cosa importante, imparo a vedere gli altri per quello che sono, e quindi acquisto il senso della realtà.

      Terzo aspetto: la famiglia come luogo delle virtù possibili, e non solo di quelle funzionali. Nel mon­do del lavoro la virtù della laboriosità è richiesta, poiché debbono esserci dei risultati; ma il mondo esterno alla famiglia ben di rado spinge a sviluppa­re altre virtù, assolutamente importanti, che sono il perno della famiglia stessa: per esempio la genero­sità. È una tipica virtù che si origina nella famiglia, dove i rapporti non sono di prestazioni reciproche; il padre che ama un figlio, il fratello che ama il fra­tello, lo fanno indipendentemente dal reciproco do ut des, lo fanno in sovrappiù. Perché? In quel rapporto che sin da principio si è instaurato, un rap­porto sincero tra persone che si conoscono per quel­ che sono, la generosità diventa un fatto naturale, e così il sacrificio. Notiamo bene che un tal modo di formarsi è fondamentale, perché chi ne esce fuo­ri è un uomo e non un uomo dimezzato.

 

Lo stile, non il risultato

 

       La grandezza dell'arte di non disperare ci ha porta­to a considerare gli elementi dai quali avviare la ricostru-zione. Come abbiamo visto, la famiglia è il luogo dove con naturalezza si possono vivere valori eminenti come la gratuità, come la sincerità, e do­ve nasce un certo «stile di vita». Quando la famiglia è il luogo dove le persone sono accolte per quello che sono, allora si può far sì che i figli crescano con questo principio: che nella vita non importa mai il risultato, ma il come. Uno dei punti essenziali che la tradizione cristiana ha trasmesso è questo: noi siamo come in un grande teatro, il teatro del mon­do, e in esso si svolge la scena e la recita della no­stra vita; da un momento all'altro questa scena può essere sbaraccata. A chiunque di noi può capitare che il fondale venga arrotolato e si dica: è finito. Siccome tu sei in questa scena e vi svolgi una par­te, allora la cosa più importante non è il ruolo che svolgi, ma come lo svolgi. Non importa che tu in scena sia il re piuttosto che lo schiavo, il domestico piuttosto che l'ingegnere o il medico. Tu devi tener fermo, se sei sapiente. che il teatro del mondo da un momento all'altro viene arrotolato. Allora la cosa migliore che ti deve essere insegnata è che nella vi­ta più che il risultato conta il come; più che il fine importa lo stile. Se ci pensiamo, è proprio ciò che oggi si è perso di vista.

      Si ritiene che la vita sia giustificata sulla base dei ri­sultati ottenuti: far carriera, diventare grandi docenti universitari, grandi giuristi, ingegneri, notai. È chia­ro che questo è l'aspetto più logorante poiché, da un altro punto di vista, nella vita quanto ai risultati siamo sempre truffati, il teatro viene sempre arrotolato. E sappiamo che, se c'è una malattia diffusa nel no­stro mondo, è la nevrosi determinata da questa ob­bligatorietà al successo; chi non raggiunge il succes­so si dice obbligatoriamente un fallito. Non è affatto così che dobbiamo pensare. Una famiglia che fun­zioni deve educare i suoi figli dicendo a ciascuno di loro: ricordati che quello che conta non sono i risul­tati ma il come; se hai capito questo verranno anche i risultati, se non lo hai capito anche i risultati che verranno non potranno essere da te compresi. Se ci rendiamo conto di come può essere la famiglia, di come può costruire uomini diversi, con un senso co­mune diverso da quello di cui parlavo prima, noi ab­biamo avverato l'ultima regola del non disperare.

      Diversamente, se vogliamo fare che i nostri figli siano come gli altri, allora saranno tutti come tante formichine: e ricordiamo che per le formiche ci so­no due soluzioni, o l’entomologo o il formichiere.

 

Considerazioni inattuali

 

      Alla luce di quanto detto, si impongono alcune con­siderazioni. Perché il compito educativo del genito­re è così insostituibile? Perché, per esempio, è più importante fare un uomo che non fare un libro; una volta letto, il libro viene chiuso, ma quando un uo­mo è stato fatto parla per tutta la vita.

      Un secondo aspetto riguarda l'accettazione. Accetta­re un figlio non vuol certamente dire non corregger­lo, ma accettarlo per quello che è, con quella natura, con quel tipo di intelligenza. Accettare non vuol dire lasciare che un figlio faccia quello che vuole, poiché questo non è liberarlo, è anzi lasciarlo in balia di pseudoscelte che lo rendono schiavo di ciò che in quel momento sulla piazza ha la voce più forte.

      Accettare non vuol dire neppure volere che nostro figlio sia, poniamo, quella persona così capace che avremmo desiderato, o volere che faccia ciò che facciamo noi: vuol dire progressivamente portarlo a fare delle scelte libere. Essere educati significa es­sere condotti alla libertà. Tanti padri, tante madri «rovinano», tra virgolette, perché pensano che sia meglio, in modo più o meno occulto, far sì che il fi­glio faccia come loro. L'autorità dei genitori non può essere stupida, deve essere intelligente, un'au­torità «autorevole» come avviene nelle botteghe ar­tigianali, dove non si insegna direttamente, ma con l'esempio. Se vogliamo che i figli ci amino, non dobbiamo parlare di amore, ma dobbiamo amare; se vogliamo che siano sinceri. dobbiamo essere since­ri. Diversamente, le parole assumono un tono fatuo, come “i grandi valori”, “la verità”, e così via.

      Un terzo aspetto riguarda la fortezza. Di fronte al­l'obiezione per cui. agendo con tali princìpi, i figli diverrebbero dei disadattati, ritengo che non inserire i figli in questa società sia un dovere. Occorre abi­tuarli a dire no al predominio dei cretini, abituarli in fondo a capire, come paradosso, che devono essere intelligenti perché soltanto loro capiranno perché gli stupidi fanno carriera. Bisogna insegnare ai figli a fare fronte, a resistere e ad assalire, cioè a essere for­ti, poiché se sono farti cambiano l'ambiente; certo costa, ma nei tempi lunghi darà grandi frutti. Non dobbiamo perciò preoccuparci se trasmettendo uno stile di vita ne facciamo dei disadattati; non bisogna cedere prima degli altri, se si sa perché si combatte. Un filosofo che amo, Nietzsche, afferma: chi ha un perché sopporta molti come. Pensiamoci; chi ha un perché nella vita sopporta anche molte anormalità, molte delusioni iniziali, ma assicuro che in ultimo la fine dei Proci la fanno gli altri.

      Noi genitori abbiamo un capitale che sono i figli; dedicarsi a loro, impegnarsi magari a collaborare a iniziative comuni, alla realizzazione di ambienti educativi, sarà il nostro modo di portare il mattone per il tempio. Ecco la realtà meravigliosa per un ge­nitore, capire questo, che sta facendo il tempio, non una festa aziendale o campestre; sta combattendo la nuova battaglia e allora inizia a dilatare il cuore e a capire perché non si può più disperare.

 

                                                                                               Emanuele Samek Lodovici

Da Studi Cattolici, Ares - Milano

Maggio 2001

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